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Aborto, pillola Ru 486
10 luoghi comuni sull'aborto Stampa E-mail
Ragioniamo sugli slogan superficiali che cercano di banalizzare (e diffondere) un tragico fenomeno
      Scritto da Giovanni Martino
16/06/08
Ultimo Aggiornamento: 10/02/11
un feto di 5 mesi

Passiamo in rassegna alcuni luoghi comuni sul tema dell’aborto, prima di trarre qualche nostra conclusione.


1) “L’aborto è una conquista delle donne, un ‘diritto civile’ ”

Chi pretende di parlare in nome delle donne si arroga un diritto che non è suo. La cultura che promuove l’aborto è tutt’altro che vicina alla sensibilità e agli interessi della donna, anzi spesso la strumentalizza… ma ne parliamo in un apposito articolo.

La tesi dell’aborto come “diritto civile”, come diritto soggettivo e assoluto della donna a scegliere se  portare a termine o meno una gravidanza, non va confusa col diritto ad una maternità responsabile.
Bisogna partire dall’individuazione dei soggetti e degli interessi coinvolti. Innanzitutto, il diritto della madre e del padre a decidere se diventare o meno genitori. Sono entrambi diritti importanti (anche quello del padre), ma possono definirsi diritti pieni solo prima del concepimento. A concepimento avvenuto, devono commisurarsi tra di loro e col diritto di un nuovo soggetto, il nascituro. A questo punto, la scelta di quale diritto debba prevalere deve basarsi sulla natura dell’interesse in gioco, più che sull’identità del soggetto che ne è titolare. Ebbene: il diritto alla vita, alla tutela di una vita che già esiste, è il diritto più importante. A meno che non vi siano problemi per salute della donna realmente gravi e proporzionati al tipo di soluzione (soppressione di un'altra vita) prospettata, per cui entrano in conflitto due interessi simili: allora, può subentrare il diritto della donna all’autotutela, è possibile ricorrere al principio generale dello "stato di necessità" (art. 54 del codice penale), che rende "non punibile" chi commette un reato 1.

La Corte Costituzionale, in due storiche sentenze (n.27 del 1975 e la n.35 del 1997), ha sancito che "ha fondamento costituzionale la tutela del concepito, la cui situazione giuridica si colloca (...) tra i diritti inviolabili dell'uomo riconosciuti e garantiti dall'articolo 2 della Costituzione, denominando tale diritto come diritto alla vita (...); sono diritti fondamentali anche quelli relativi alla vita e alla salute della donna gestante; il bilanciamento tra detti diritti fondamentali, quando siano entrambi esposti a pericolo, si trova nella salvaguardia della vita e della salute della madre, dovendosi peraltro operare in modo che sia salvata, quando ciò sia possibile, la vita del feto; al fine di realizzare in modo legittimo questo bilanciamento, è obbligo del legislatore predisporre le cautele necessarie per impedire che l'aborto venga praticato senza serii accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire nella gestazione".

Come si concilia la chiara affermazione della Corte Costituzionale sulla tutela del concepito quale "diritto inviolabile" con la vigenza di una legge che è formulata in modo da ammettere l'aborto, nella pratica, anche al di fuori dei casi di reale pericolo per la madre?

Ciò accade per una sottigliezza giuridica che maschera - con ipocrisia - l'acquiescenza politica verso una diffusa domanda di liceità dell'aborto.
Questa sottigliezza è già nella pronuncia della Corte, laddove dà precedenza non solo alla vita, ma anche alla "salute" (termine indeterminato) della donna.
La legge sull'aborto ha fatto un passo ulteriore: stabilendo di tutelare la salute "fisica o psichica" della donna, si è aperto uno spiraglio perché nella pratica fosse considerato un danno "psichico" il semplice contrasto (soprattutto nei primi novanta giorni) con la sua volontà. Ignorando così le altre parti della legge che - vedremo poco più avanti - pongono paletti a questa volontà.

Ma dobbiamo ribadirlo: anche se la formulazione della legge è ipocritamente ambigua (e quindi ingiusta), già una sua corretta applicazione, svincolata dalle pressioni politiche degli abortisti, dovrebbe condurre ad una maggiore tutela del concepito.


2) “La legge che ha legalizzato l’aborto non si tocca, perché sancita da un referendum popolare”

La legge italiana prevede che, qualora sia stato respinto un referendum abrogativo di una legge, questo stesso referendum non possa essere riproposto per cinque anni. A parte il fatto che non ci sono impedimenti a modifiche parlamentari, dal referendum (tenutosi nel 1981) di anni ne sono passati quasi trenta… Ogni legge può essere discussa, per capire se non intacca qualche diritto fondamentale; ed anche ridiscussa, se cambia il sentire popolare.

Ma l'attenzione va rivolta anche ad un altro elemento: quelli che si nascondono dietro l’intangibilità della legge sono proprio coloro che si sforzano di disapplicarla.

La legge n.194/78, che ha introdotto l’aborto nel nostro Paese, si intitola “tutela sociale della maternità” (e non “tutela dello sforzo di evitare la maternità”…). Nel testo possiamo leggere, all’art. 1, che lo Stato “tutela la vita umana fin dal suo inizio”, e che l'aborto "non è mezzo per il controllo delle nascite". L'art. 2 prevede: superamento delle cause che potrebbero indurre all’I.V.G. (Interruzione Volontaria di Gravidanza); speciali interventi a questo riguardo - valorizzazione del volontariato a servizio della maternità. L'art. 5 richiede a medici e consultori la valutazione delle circostanze che inducono all’I.V.G.; l'aiuto a rimuoverne le cause; la promozione di interventi atti a sostenere la donna in direzione della prosecuzione della gravidanza; l'invito a "soprassedere" per almeno 7 giorni prima dell’intervento (insomma, è ridicolo chi parla di "violenza morale" sulle donne a proposito dell'offerta di aiuto, un'offerta che - al contrario - le lascia meno sole, ne accresce la libertà e le possibilità di scelta, e - quando è stata concessa - ha salvato numerose vite). L'art. 7 prevede l'adozione di misure idonee a salvaguardare la vita del feto.

La legge, insomma, ha il grave torto di stabilire un principio inammissibile: la possibilità - a certe condizioni - di sopprimere una vita innocente. E però non tutela - come visto - un inesistente diritto di abortire a piacimento, non nega qualsiasi tutela del concepito. La realtà è che quanti si ergono a paladini della legge fanno di tutto per stravolgerla, per disapplicarne le parti relative alla prevenzione, per promuovere una cultura dell’aborto. E' solo un espediente propagandistico quello che rifiuta ogni dibattito culturale sull'aborto nascondendosi dietro una volontà popolare deformata.
Non bisogna dimenticare che nel 1981 furono votati due referendum sull'aborto: ce n'era anche uno, promosso dai radicali, che voleva abrogare le parti della legge relative alla prevenzione (per rendere l'aborto molto più facile), e che fu bocciato con una percentuale molto più schiacciante dell'altro.

In effetti, gli abortisti "integralisti" sono una numerosa ed agguerrita minoranza; però abbastanza abile, coesa ed agguerrita da riuscire a pilotare (anche con l'influenza di alcuni organismi internazionali) un’applicazione delle leggi abortiste - non solo in Italia - distorta ed estensiva.

Negli Stati Uniti, addirittura, della volontà popolare si è fatto completamente a meno. L’aborto è stato introdotto nel 1973 da una sentenza della Corte Suprema, che ha considerato l’aborto una facoltà ricompresa nel diritto alla privacy (costituzionalmente garantito), sottraendo ai singoli Stati dell’Unione (e quindi ai cittadini...) la possibilità di legiferare per negarlo. Mentre la disciplina della pena di morte è demandata ai singoli Stati...
(A proposito dell'idea che il feto non sia una persona, e delle forzature dei tribunali: sempre la Corte Suprema degli Stati Uniti, nel caso Dred Scott vs Sanford del 1856, aveva stabilito che la proclamazione del principio di uguaglianza contenuta nella Dichiarazione di indipendenza non si poteva applicare ai neri, i quali erano considerati come una mera proprietà...)


3) “Nessuno può negare che l’aborto sia un dramma per ogni donna”

Quando un sostenitore dell'aborto è a corto di argomenti, si rifugia spesso nella facile affermazione "l'aborto è un dramma", in cui la retorica è pari all’ipocrisia (questo “dramma” si cerca piuttosto di diffonderlo e banalizzarlo) e all’indifferenza per la donna, lasciata sola. Vedi il punto precedente.


4)
L’aborto non è la soppressione di una vita, perché il feto è un’appendice del corpo della donna, che ne può disporre liberamente”

L’idea che feto ed embrione siano “grumi di cellule” è un’idea che ormai viene sostenuta da pochissimi. I progressi della biologia e della genetica ci spiegano che il feto ha organi funzionanti, prova sensazioni, sogna, soffre, anche prima dei limiti posti per l’interruzione di gravidanza “libera”. Limiti che, del resto, cambiano da Stato a Stato: dove 10 settimane, dove 12, dove 14; i feti italiani diventano esseri umani prima di quelli belgi e dopo quelli francesi?

Non dimentichiamo un'altra ipocrisia: abusando della possibilità che la legge fornisce di abortire anche dopo il terzo mese (e fino a quando il feto non ha capacità di sopravvivenza autonoma) in presenza di rischi per la salute psico-fisica della donna (c.d. aborto "terapeutico"), si producono certificati medici compiacenti che attestano quei rischi e si finisce per spostare di fatto al 6° mese il limite dell'aborto "libero". E si ha il caso di bambini nati vitali, e lasciati morire su un tavolo operatorio...

Quand’è che si può individuare il “salto” che porta all’essere umano? Con la nascita? E perché non con lo sviluppo del linguaggio, o con la pubertà? (O con la capacità di fare calcoli complessi, come ipotizza Philip K. Dick nel suo racconto Le pre-persone?) Cosa rende meno uomo un bambino un istante prima di venire al mondo? La mancanza di autosufficienza? (Ma anche un lattante, un handicappato, un anziano, non sono autosufficienti). O semplicemente il fatto che non si vede? (Ma con le nuove ecografie tridimensionali si vede, eccome!).

La scienza e la logica – non la fede religiosa – ci dicono che l’unico “salto” fondamentale per la nascita di una nuova vita è il concepimento, la formazione di un nuovo corredo genetico che contiene già il progetto di vita di un nuovo individuo (per un approfondimento, vedi il libro di C.V. Bellieni nei riferimenti bibliografici in fondo all'articolo). A dire il vero, da parte degli abortisti, questa verità più che contestata è semplicemente...  rimossa.

Individuare nell'aborto, oggettivamente, la soppressione di una vita (per di più una vita innocente), un infanticidio, non significa paragonare la madre ad un'assassina (come vorrebbe qualche volgare semplificazione). Nel determinare la gravità di un comportamento contano anche molti fattori soggettivi: le pressioni psicologiche subite, l'ansia, la paura, il grado di consapevolezza (che può essere fortemente ridotta in un contesto culturale che si sforza di sminuire la gravità del gesto). Benché non si possa escludere, purtroppo, che esistano casi di colpevole superficialità di alcune donne, soprattutto quando ricorrono all'aborto più volte. Molto maggiori, in ogni caso, sono le responsabilità di coloro che abbandonano la madre in quei frangenti, o addirittura la incoraggiano a cercare quel tipo di 'scorciatoia'.


5) “Il diritto all’aborto serve a proteggere donne che si trovano in casi estremi: quattordicenni violentate, donne che hanno già quattro figli e vengono brutalizzate dal marito ubriaco, donne che si scoprono incinte di feti affetti da malattie gravi ed incurabili”

L’invocazione del ‘caso estremo’ è il classico modo per fuggire la discussione nel merito e raggirare l'opinione pubblica. Nel 2004, in Italia, si sono effettuati oltre 136.000 aborti (a cui continua ad aggiungersi un numero imprecisato di aborti clandestini). Nel 24,2% dei casi si tratta di aborti ripetuti. Tutti ‘casi limite’? Quante vittime di violenza restano incinte ogni anno? Quante madri con quattro figli? E quante donne sono sicure di aspettare un figlio con una malformazione davvero grave? Se sommiamo tutti i ‘casi estremi’ arriviamo a qualche decina, forse qualche centinaio… E gli altri 130.000?

Tutti i sondaggi dicono che le popolazioni (con percentuali diverse nei vari Stati: in Italia una recente indagine sociologica dell'Eurispes parla del 78%) sono in maggioranza contrarie ad un esercizio "libero" dell'aborto, non legato a casi estremi ben determinati. Eppure, la stragrande maggioranza degli aborti sono proprio al di fuori di quei casi!


6) “L’aborto legale è servito ad evitare la piaga dell’aborto clandestino, che prima della legge ‘faceva morire venticinquemila donne l’anno’ (come recitava la premessa ad una proposta di legge del PSI)”.

Peccato che la mortalità annua complessiva – cioè comprensiva di infarti, ictus, tumori, incidenti, morti violente, ecc. - di donne in età fertile, nel 1972 (secondo i dati dell'Annuario Statistico del 1974), era di 15.116! Delle quali 409 risultavano decedute per gravidanza o parto, la tipologia nella quale erano mascherati i decessi dovuti all'aborto clandestino: non più di qualche decina l'anno, dunque. Storie tragiche, senz’altro, su cui bisognava intervenire, possibilmente con la prevenzione. Ma che bisogno c’era di falsificare i numeri, se non quello di utilizzare strumentalmente quei casi per tutt'altri fini (l'aborto libero)?

Inoltre, se si ritiene che un fenomeno clandestino sia negativo, non è che diventa positivo solo perché lo si legalizza… anche perché la legge deve porre per forza dei paletti, che l’illegalità continua ad aggirare: gli aborti clandestini non sono scomparsi (la relazione del ministro della Salute nell’anno 2005 stima circa in 20 mila gli aborti clandestini).


7) “Con l’aborto legale i casi sono inferiori a quelli che si avevano in precedenza con l’aborto clandestino, e stanno diminuendo”.

Innanzitutto, non è vero che i casi di aborti legali siano inferiori a quelli che in precedenza erano gli aborti clandestini (a meno che questi non siano calcolati in maniera fantasiosa). Come si può pensare che il ricorso a questa pratica fosse più diffuso quando era vietata per legge ed accessibile con grandi difficoltà?

Il numero di aborti legali, dopo aver conosciuto un calo, negli ultimi anni si è stabilizzato. Anzi, se si tiene conto del diffondersi della contraccezione, la percentuale di aborti in proporzione al numero delle gravidanze portate a termine è tornata ad aumentare (oltre 250 aborti ogni 1.000 nati vivi), sia tra le donne italiane sia tra le immigrate. Senza contare, lo ripetiamo, che non sono neanche scomparsi gli aborti clandestini.

Questo fenomeno preoccupante non è un'eccezione italiana, anzi. Il numero di aborti è più alto in altri Paesi europei (in Francia e Gran Bretagna è sui 200.000 casi l'anno); quasi ovunque il numero degli aborti è stabile o tende addirittura ad aumentare (in termini assoluti o in proporzione ai nati vivi).

Il fatto è che la legalizzazione di un comportamento ha sempre, inevitabilmente, l'effetto di diffonderlo: non c'è più la dissuasione della pena; un comportamento ammesso dalla legge viene percepito, dalla mentalità corrente, come moralmente accettabile. Erminio Guis e Donatella Cavanna, ricercatori dell’Università di Trento, hanno scoperto  che il 32% delle donne che hanno abortito non l’avrebbe fatto se non ci fosse stata una legge che lo permetteva (Maternità negata, ed. Giuffré, Milano 1988).


8) “L'aborto è un fenomeno privato, che attiene alle libere scelte individuali”. "Sono personalmente contrario, ma non penso che l'aborto vada vietato o scoraggiato"."Far nascere forzatamente un figlio non amato è una crudeltà".

Nel solo 2006 si sono avuti 130 mila aborti legali in Italia, 54 milioni nel mondo. Negli ultimi trent’anni, quattro milioni e mezzo in Italia, oltre un miliardo nel mondo (dati dell’OMS). Un continente sommerso. Se queste cifre ci fanno paura, la soluzione è facile: basta non parlare di “aborti” (fa pensare ad un nascituro che non c’è più…), e dire “interruzioni volontarie di gravidanza” o, meglio, IVG. Una bella sigla dal sapore medico, asettico, che fa pensare ad una terapia per star meglio in salute. È la neolingua che avanza…

L'aborto è tutt'altro che un fenomeno privato. E' un gigantesco fenomeno sociale, di dimensioni ignote alla storia dell'umanità, organizzato su scala industriale, gestito dagli Stati, legato a poderosi interessi economici, in cui viene legittimata la sopraffazione del più forte sul più debole. Senza contare la tentazione luciferina di una selezione dell'umanità, soprattutto per il cosiddetto aborto "terapeutico": dall’imperfezione - o dalla diversità - deduciamo l’infelicità necessaria, e ci arroghiamo il potere di liberare l’ 'imperfetto' (il nascituro oggi, il malato e l'handicappato domani) della sua 'infelicità'. O piuttosto liberiamo noi stessi delle nostre paure? Per capire quanto contano i condizionamenti culturali nella percezione dell' 'imperfezione': in Francia, di fronte ad una diagnosi di trisomia 21 (sindrome di down) si sceglie quasi sempre l'aborto; in Scandinavia quasi mai.

L'aborto è promosso da una cultura aggressiva, una "cultura della morte", che si caratterizza non solo per la tentazione eugenetica, ma anche per l'idea che l’apertura alla vita dell’altro sia un impedimento, un limite alla vita propria, vista in chiave egoistica e consumistica. Si tratta di una cultura attiva su scala mondiale, nelle agenzie dell'ONU; una cultura che si sforza di anestetizzare le coscienze (far vedere le immagini di un aborto, oggi che si vede di tutto, è considerato "terrorismo psicologico"!); una cultura pericolosa per i diritti dell’uomo (non solo del nascituro) e per le libertà democratiche, anche nelle sue manifestazioni collaterali: eutanasia, eugenetica.

L'aborto non è dunque un fenomeno privato, e non potrebbe in ogni caso esserlo: la protezione della vita umana contro l'uso privato della forza è il principio cardine del contratto sociale.

Vedere poi l'aborto come un atto di pietà verso un figlio "non amato" è sentenza di un'ipocrisia colossale.

Tralasciamo il fatto che il rifiuto della donna per il figlio è sovente dettato da paura, solitudine, ricatti affettivi o lavorativi: chi non riceve amore può essere esitante a darlo.
Quello che bisogna evidenziare è che, dal punto di vista civile e morale, i diritti fondamentali (come quello alla vita) non possono essere condizionati dai sentimenti: questa sì sarebbe un'invasione della sfera privata in quella pubblica.
Atto ben più pietoso, al confronto, è l'affidamento del bambino non voluto (consentito dalle leggi) all'affetto dei tanti genitori che ne vorrebbero uno.


9) “La vera responsabilità dell’aborto è di coloro che ostacolano la diffusione degli anticoncezionali per prevenirlo”.

Questa tesi ha un vizio di fondo: l’idea che “prevenire” l’aborto significhi fare di tutto per impedire una nascita. Se ciò può avvenire impedendo il concepimento stesso, meglio. L’ipotesi che una vita nascente possa essere accolta non è neppure presa in considerazione

Non è vero, in ogni caso, che la diffusione dei contraccettivi basti di per sé a ridurre gravidanze indesiderate e aborti (parliamo di sistemi di contraccezione artificiale, ovviamente, di cui si tacciono le ricadute negative sulla salute femminile; i sistemi naturali non sono neanche presi in considerazione, benché la percentuale di successo sia di poco inferiore). Soprattutto tra i più giovani, conoscere l’esistenza di un anticoncezionale non equivale ad usarlo: resta il gusto della trasgressione, la diffidenza verso strumenti noiosi da gestire o che “interrompono l’emozione”. Anzi, in alcune contee di Gran Bretagna e Stati Uniti, è stato verificato che l’introduzione dell’educazione sessuale e la distribuzione gratuita di contraccettivi hanno stimolato i giovani ad una pratica precoce e disinvolta del sesso, sorretta da false sicurezze, con il risultato finale di… un aumento delle gravidanze indesiderate! (Si vedano gli studî del 2004 dell’Università di Nottingham sulla campagna sul “sesso sicuro” del governo inglese; i dati su distribuzione di preservativi da parte dell’USAID e incremento della diffusione dell’HIV/AIDS dal 1984 al 2003; ecc.)

L'incidenza degli aborti provocati  è notevolmente superiore nelle donne che usano contraccettivi, rispetto a quelle che non li usano. Nei Paesi in cui si fa maggior uso dei contraccettivi (Gran Bretagna, Cuba, Francia, ecc.), la crescita della contraccezione è stata parallela alla crescita degli aborti. In Europa, dove la contraccezione è evidentemente più diffusa che nel Terzo Mondo, è notevolmente più alta la percentuale di aborti: ormai 48 ogni 100 gravidanze iniziate (quasi un aborto per ogni bimbo nato).

Il fatto è che la cultura della contraccezione diffonde nei confronti della vita nascente un atteggiamento di rifiuto. L’uso dei contraccettivi, insomma, non può essere separato da un’educazione ad un approccio più responsabile alle relazioni affettive e sessuali.


10) “Chi è contro l’aborto è un integralista che vuole imporre un dogma di fede in uno Stato laico”.

Vecchia tesi anticlericale, usata anche per aggredire la famiglia, combattere la libertà di insegnamento, indebolire la tutela dei soggetti deboli, ecc.

E' vero che la posizione della Chiesa è quanto mai ferma sul tema dell'aborto. Ma ciò è dovuto alla consapevolezza di non difendere solo un fondamentale principio di fede (l'intangibilità della vita dono di Dio), ma anche chiari principi di diritto naturale (il divieto di soppressione di una vita innocente e debole).
Già il Concilio Vaticano II, nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes, sulla scia di una Tradizione ininterrotta, definisce l'aborto "delitto abominevole" (GS 51).
Paolo VI, nell'Humanae Vitae, dichiara che "è assolutamente da escludere, come via lecita per la regolazione delle nascite, l’interruzione diretta del processo generativo già iniziato, e soprattutto l’aborto diretto, anche se procurato per ragioni terapeutiche" (HV 14).
Giovanni Paolo II con l'Evangelium vitae approfondisce in dettaglio tutti gli aspetti del problema, dichiarando solennemente, "con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori", che "nessuna circostanza, nessuna finalità, nessuna legge al mondo potrà mai rendere lecito un atto che è intrinsecamente illecito, perché contrario alla Legge di Dio, scritta nel cuore di ogni uomo, riconoscibile dalla ragione stessa, e proclamata dalla Chiesa" (EV 62: uno dei rarissimi casi in cui un Papa si pronuncia con i crismi dell'infallibilità). Il Codice di diritto canonico prevede la scomunica (anche qui, caso raro) per chiunque collabori ad un aborto.

Non è solo una posizione cristiana. Hanno ricordato la loro contrarietà all'aborto i più autorevoli esponenti delle religioni non cristiane (Gandhi e il Dalai Lama). 
E non è neanche una posizione religiosa da custodire nel privato della propria coscienza. Dovrebbe essere chiaro che lo Stato laico difende valori condivisibili da tutti, non credenti e – perché no… - credenti. Una legge che volesse imporre l’obbligo di andare a messa sarebbe sì integralista. Ma una legge che punisce l’omicidio è una legge laica a tutti gli effetti, perché la vita è un valore umano (oltre che religioso), un diritto naturale fondamentale; il che resta valido anche se l’omicidio è un peccato, oltre che un reato; anche se è vietato da un Comandamento religioso, oltre che da leggi civili.

Nel caso specifico dell’aborto, il criterio che anche la Chiesa utilizza per individuare nel concepimento l’inizio della vita è, come visto, un criterio scientifico e di prudenza umana: "è tale la posta in gioco che, sotto il profilo dell'obbligo morale, basterebbe la sola probabilità di trovarsi di fronte a una persona per giustificare la più netta proibizione di ogni intervento volto a sopprimere l'embrione umano" (Giovanni Paolo II, Lett. encicl. Evangelium vitae, n.60).

Ricordiamo che il "papa laico" Bobbio era contrario all'aborto, e in una sua celebre intervista guardava preoccupato agli schieramenti che si erano creati: “mi stupisco che i 'laici' lascino ai credenti il privilegio e l'onore di affermare che non si deve uccidere”.
E Pier Paolo Pasolini, in un suo fondo sul Corriere della Sera, dichiarò: "Sono traumatizzato dalla legalizzazione dell'aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell'omicidio"



Abbiamo analizzato e contestato alcuni luoghi comuni sull’aborto. Che giudizio possiamo dare, dunque, di questo fenomeno? 

Il primo, più generale, riguarda la cultura dell’aborto, che non solo legittima questa pratica, ma la incoraggia. È una cultura, come visto, pericolosa e da rigettare in toto.

Il secondo giudizio riguarda la pratica dell’aborto in sé: non è ammissibile, se non nei casi in cui vi sia un reale pericolo per la salute fisica della madre. 

Va anche detto che questa posizione incontra notevoli resistenze nella cultura contemporanea. Ma anche nel dramma personale vissuto da molte donne, che debbono essere assolutamente sostenute. Per cui le strade da intraprendere per diffondere la cultura della vita, senza arrendevolezze, dovranno essere improntate ad un intelligente realismo.


Riferimenti bibliografici

Se questo non è un uomo
di Carlo Valerio Bellieni, Milano 2004, ed. Ancora

Il tuo destino dal giorno "uno"
AA.VV. in Nature del luglio 2002

Il Genocidio Censurato - Aborto: un miliardo di vittime innocenti
Antonio Socci, Casale Monferrato (AL) 2006, ed. PIEMME, € 10,00


_____________

[1] Su questo aspetto specifico - conflitto tra salute della madre e vita del feto - la dottrina della Chiesa è molto precisa. Riprendiamo un passo della "Chiarificazione in materia di aborto" della Congregazione per la Dottrina della fede, pubblicata l'11 luglio 2009 su L'Osservatore romano:

"Quanto alla problematica di determinati trattamenti medici al fine di preservare la salute della madre occorre distinguere bene tra due fattispecie diverse: da una parte un intervento che direttamente provoca la morte del feto, chiamato talvolta in modo inappropriato aborto "terapeutico", che non può mai essere lecito in quanto è l'uccisione diretta di un essere umano innocente; dall'altra parte un intervento in sé non abortivo che può avere, come conseguenza collaterale, la morte del figlio:

«Se, per esempio, la salvezza della vita della futura madre, indipendentemente dal suo stato di gravidanza, richiedesse urgentemente un atto chirurgico, o altra applicazione terapeutica, che avrebbe come conseguenza accessoria, in nessun modo voluta né intesa, ma inevitabile, la morte del feto, un tale atto non potrebbe più dirsi un diretto attentato alla vita innocente. In queste condizioni l'operazione può essere considerata lecita, come altri simili interventi medici, sempre che si tratti di un bene di alto valore, qual è la vita, e non sia possibile di rimandarla dopo la nascita del bambino, né di ricorrere ad altro efficace rimedio» (Pio XII, Discorso al Fronte della Famiglia e all'Associazione Famiglie numerose, 27 novembre 1951)".



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