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Temi caldi - Valori, laicità
Che cosa significa ‘laicità’? Stampa E-mail
Il rapporto tra fede e politica. Integralismo, laicismo
      Scritto da Giovanni Martino
02/05/07
Ultimo Aggiornamento: 09/11/12
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 Cesare...
 ...e Dio
Periodicamente, quando la Chiesa si pronuncia su temi politici o sociali, o qualche cristiano invoca principî etici e religiosi, subito si levano grida che denunciano il crimine di “lesa laicità”.

Ci sembra un’altra di quelle situazioni in cui alcune parole vengono abbracciate con grande entusiasmo, invocate con cipiglio e veemenza… senza che se ne conosca il significato!

E’ il caso proprio di ‘laico’, ‘laicità’; termini riferiti, di volta in volta, a persone, idee, istituzioni. Quante volte abbiamo sentito proclamare, con tono severo: “bisogna salvaguardare la laicità delle istituzioni!”, “l’Italia è un Paese laico!”, “dobbiamo aprire un confronto laico e senza pregiudizi”, e via dicendo.

Ma che cosa significa (almeno nelle intenzioni di chi ne parla) ‘laicità’?

Diciamo subito che questo termine introduce il grande tema del rapporto tra la religione e le realtà umane. Rapporto su cui molti non credenti hanno riflettuto poco; cosicché ne viene una scarsa chiarezza di idee e, inevitabilmente, di terminologia: si usano parole spesso orecchiate male, ripetute come slogan. Va detto che anche molti credenti assecondano con scarso senso critico i luoghi comuni sulla laicità; magari perché prevale la preoccupazione di sottrarsi a etichette denigratorie (bigotto, integralista, ecc.)…

Proviamo a fare un po’ d’ordine, e speriamo che l’amico lettore voglia seguirci con pazienza: anche se la nostra esposizione può essere oggetto di diverse valutazioni, ci sembra quantomeno necessaria a fare un minimo di chiarezza sul tema.

La laicità è generalmente riconosciuta come attributo necessario delle istituzioni,  sia dai cristiani sia dai non credenti (si tenga conto che in alcune religioni, come l’islam, il concetto di laicità è invece assente). Solo che al termine vengono dati spesso significati diversi.

In una certa vulgata corrente i termini “laico” e “laicità” sono intesi in contrapposizione al fenomeno religioso.

Per cui la parola “laico”, riferita alle persone, indicherebbe i non credenti.

Riferita ad un modo di pensare, indicherebbe quello “aperto”, “moderno”, “razionale”, “non dogmatico” (sottintendendo che la fede produce un modo di pensare chiuso, sorpassato, irrazionale, dogmatico).

Riferita ad una realtà umana, ad un’istituzione, indicherebbe che essa è libera da ogni influsso religioso (il quale, s’intende, sarebbe dannoso e lesivo della libertà di tutti).

Per chi propone accezioni diverse, suggerendo che è possibile pensare ad una rilevanza pubblica della religione, è subito pronta la scomunica: “integralista!”. Tie'.

Così si produce un sillogismo perverso: a) lo Stato e le istituzioni devono essere “laici” (e sin qui si potrebbe essere d’accordo, se fosse chiaro cosa si intende per “laici”); b) i “laici” sono coloro che non hanno fede religiosa (e qui c’è già una forzatura, che – utilizzando un’accezione parziale del termine - fa venire meno l’accordo sul punto precedente); c) quindi (conseguenza falsa, perché le due premesse non sono coerenti tra loro), solo chi non ha fede religiosa – o si comporta come se non l’avesse – può essere capace di rispettare le istituzioni.

La confusione nasce dal fatto che si sovrappongono spesso due significati dei termini ‘laico’ e ‘laicità’. Oltre a quello - antireligioso - che abbiamo visto, esiste un’altro significato che possiamo considerare più corretto, poiché rispecchia quello originario.


Il vero significato di ‘laicità’. Le realtà temporali e quelle religiose.

Il termine laico nasce nel linguaggio della Chiesa dei primi secoli. Viene dal greco laikós, che significa ‘membro del láos’, cioè del popolo di Dio: indica – tutt’ora - il battezzato che non è stato ordinato e non ha preso i voti. Laici, quindi, distinti da “chierici” e “religiosi” (o “consacrati”).

Questi ultimi sono chiamati primariamente (ma non esclusivamente) a costruire le realtà umane sovrannaturali (ovvero trascendenti, sacre, religiose): vivere una vita che anticipi profeticamente il Regno di Dio, amministrare - se ordinati - i sacramenti, occuparsi dell’apostolato, ecc., seguendo fedelmente la legge divina.

Il laico cristiano, invece, è chiamato propriamente ad occuparsi delle realtà umane naturali (o temporali, secolari, profane): lavoro, economia, politica, scienze fisiche e naturali, arti, ecc.
Il termine “laico”, riferito alle persone, non è dunque sinonimo di non credente, ateo, agnostico o simili.

E il termine laicità? Indica innanzitutto la vocazione del laico - distinta da quella di chierici e religiosi – ad animare le realtà temporali. Per esteso, quindi, laicità indica anche il modo in cui tali realtà devono essere vissute e animate. Qual è questo modo?

Si tratta di una domanda fondamentale, perché le realtà temporali sono quelle in cui convivono e si confrontano tutti gli uomini, credenti e non credenti. Intendere correttamente la laicità – sia nella prospettiva cristiana, sia in quella del non credente - è la condizione perché il confronto sia anche incontro.

Iniziamo dalla prospettiva cristiana (che può avere valore esemplare anche rispetto ad altre prospettive religiose, le quali non abbiano affinato il tema della laicità).

Un tratto essenziale del pensiero cristiano è, come accennavamo, l’individuazione nella realtà umana di due piani: soprannaturale e naturale. Cristo ha proclamato: “Rendete a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio” (Mc 12,17; cfr. Ef 1,10; Col 1,20). Papa Gelasio I, alla fine del V secolo, affermò il principio della distinzione dei poteri (ecclesiale e temporale; sia pure distinguendo tra la dignità dell' "auctoritas" pontificia e quella della "potestas" regale). Nella dottrina di San Tommaso d’Aquino, fatta propria dalla Chiesa cattolica, “Gratia supponit naturam, et perficit eam” (“la Grazia presuppone la natura, e la eleva a perfezione”).

Il piano soprannaturale è quello in cui l’uomo, animato dalla sua fede, entra in rapporto con Dio e col progetto di salvezza che Dio gli riserva: corrisponde al piano della Redenzione, all’interno del quale il fedele cristiano agisce avendo come fine ultimo la vita eterna, seguendo le leggi di Dio - contenute nella Rivelazione - e quelle della Chiesa.
Questo piano non è solo il piano della spiritualità: la fede cristiana investe l'uomo nella sua interezza, quindi anche nella sua materialità, perché "il Verbo si è fatto carne" (Gv 1,14).
Le leggi del piano della redenzione possono essere conosciute con la ragione (Rm 1,17), perché Dio è Lógos (Gv 1,1), parola e ragione. Il metodo del discorso sulla religione, dunque, non è un sentimentalismo irrazionale, ma si vale della ragione (come evidenzia Benedetto XVI nel suo discorso di Ratisbona e come approfondisce l'enciclica di Giovanni Paolo II Fides et Ratio), per rendere a Dio una logiké latréia (un "culto ragionevole", quale sarebbe la traduzione letterale di Rm 12,1). Tuttavia, la ragione umana ha un rapporto di analogia con quella divina, e la Rivelazione completa il linguaggio razionale con quello dell'amore di Cristo, "che sorpassa ogni conoscenza" (Ef 3,19); per cui le leggi del piano della redenzione sono con più certezza accolte con atto di fede, cioè con fiduciosa apertura al contenuto della Rivelazione.

Il piano naturale, invece, è quello della creazione, che vede l’uomo agire come membro della città terrena, della comunità umana, mirando a costruire le realtà secolari (lavoro, economia, politica, scienze fisiche e naturali, arti, ecc.) nella loro pienezza. Seguendo quali leggi? Il Concilio Vaticano II afferma che “le cose create e le stesse società hanno leggi e valori proprî, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare” (Conc. Vat. II, Gaudium et Spes, 36,2). Sono leggi e valori naturali (il fondamento) che consentono lo sviluppo di queste realtà, ne fondano l’autonomia, e possono essere scoperte dalla ragione umana (il metodo specifico). Scoprirle, usarle e ordinarle è quindi una vocazione – laicità! - non solo dei laici cristiani, ma di tutti gli uomini in quanto tali, credenti – in tutte le religioni - e non credenti.

E siamo dunque arrivati ad una prima generale definizione di laicità, intesa come lo sforzo della ragione di scoprire le leggi e i valori proprî delle realtà naturali, per garantirne lo sviluppo pieno.

È però necessaria una precisazione.
La distinzione tra "piani" o "dimensioni" (naturale e soprannaturale) ha un significato puramente logico-conoscitivo, identifica aspetti di un'unica realtà complessa in cui i diversi piani sono profondamente intrecciati. La natura umana - dell'individuo e delle realtà sociali da lui realizzate - è unica, e comprende anche la dimensione soprannaturale (benché questa possa essere vissuta con diversa consapevolezza da credente e non credente). 
La distinzione è utile a guidare una conoscenza umana più chiara e completa, ed un agire capace di soddisfare in pienezza le esigenze del'individuo e della società. Ma pretendere che, in qualsiasi ambito, la distinzione diventi dualismo, separazione, significa - come vedremo - pretendere di amputare la natura umana.


L’integralismo.

Vivere la laicità, riconoscere l’autonomia del piano temporale, significa per il cristiano sottrarsi alla tentazione dell’integralismo religioso, che ha una visione monolitica della realtà umana.

Diciamo subito che anche il termine “integralista” è spesso oggetto di un uso ambiguo. Coloro che esercitano la polemica antireligiosa spesso utilizzano questo vocabolo per etichettare spregiativamente chiunque difenda un ruolo pubblico della fede. Secondo costoro, per non essere integralisti, bisognerebbe ripudiare radicalmente il piano religioso, aderire in sostanza all’ideologia secolarista (di cui parleremo più avanti).

In realtà, l’integralismo in senso proprio è quella prospettiva che non conosce la distinzione dei due piani (religioso e secolare), finendo col sovrapporli. Può condizionare le diverse attività temporali (arte, lavoro, scienza). E può aspirare a plasmare anche le istituzioni politiche: come integralismo reazionario, quando sogna (magari invocando un passato idealizzato) di introdurre uno Stato confessionale; come integralismo utopico, quando pretende di costruire un sistema politico perfetto (si pensi all’idea di imporre il perdono cristiano, negando la legittimità dei tribunali e della giustizia umani; o all’idea – alla Savonarola – di imporre i consigli evangelici della povertà, della castità, dell’obbedienza); come ierocrazia, quando subentra la tentazione di affidare alle autorità religiose il governo della società, pensata in una fusione organicistica tra sacro e profano.

Fenomeni diversi sono il clericalismo, che indica l’errore di esaltare nella Chiesa (o in un’altra comunità religiosa) solo il ruolo del clero, magari sottraendo all’autonoma responsabilità dei laici l’attuazione concreta dei principî dettati dal Magistero per l’impegno secolare. O il fondamentalismo, che vive la fede in maniera limitativa e assolutizzante, spesso dando un'interpretazione letterale di alcune parti di testi sacri.

L’integralismo, in generale, ha una visione negativa del mondo e della storia, ritiene che debbano essere posti sotto tutela della fede. La quale fede, dunque, dovrebbe avere un contenuto essenzialmente politico, tradursi in un ordinamento sociale ben determinato. Costruire il Regno di Dio significherebbe costruire un regno umano.

Ebbene, quest’idea schiaccia la libertà, tanto dei credenti (i principî strettamente religiosi, condivisibili solo in forza di un atto di fede, debbono essere sempre oggetto di una libera scelta), quanto – evidentemente - dei non credenti; nuoce allo sviluppo delle realtà naturali; e nemmeno appartiene alla fede cristiana, la quale ha introdotto proprio l’idea di laicità, il dinamismo tra sfera politica e religiosa. Cristo stesso ha deluso quanti si aspettavano da Lui che svolgesse un ruolo prettamente politico, che instaurasse un regno mondano.

Se nell’ottica della fede la prospettiva religiosa è ovviamente preminente (la salvezza delle anime essendo il bene assoluto), questa non può soffocare l’autonomia e la razionalità delle realtà naturali, perché – per la legge della bontà della creazione (Gen 1,31; 1 Tim 4,4) - anche queste sono di per sé ordinate alla salvezza.

Le Chiese cristiane hanno assunto in passato posizioni integralistiche e ierocratiche? Si sono verificati nella cristianità casi di dogmatismo o di intolleranza? In parte sì, anche se un’analisi storica approfondita (che lo spazio non ci consente) potrebbe attestare come tale fenomeno abbia avuto dimensioni molto più circoscritte di quanto affermino certe “leggende nere”.

Dobbiamo altresì osservare che nel Magistero della Chiesa cattolica il principio della distinzione dei piani è sempre stato proclamato. Quella che si è evoluta è la sintesi tra i due piani, che in passato era soprattutto sintesi – difficile – tra due poteri (civile ed ecclesiastico).
In un contesto storico politico dove erano di là da venire le libertà politiche individuali, la Chiesa cattolica ritenne di doversi far carico direttamente, rispetto al potere politico, di difendere l'autonomia della sfera religiosa. Questa assunzione diretta di responsabilità portò ad una sorta di "tutela" dell'autonomia politica dell'individuo.

A questo ruolo di tutela - va detto - la Chiesa faticò a rinunciare, allorché il problema delle libertà individuali si pose con forza nell'Ottocento; anche per il timore - non sempre infondato - che la legittima richiesta di nuove libertà fosse strumentalmente agitata per negare il ruolo della verità morale e religiosa, o per restringere il ruolo pubblico della Chiesa (fattori che, come vedremo, restano centrali anche in un contesto pluralista).

Bisognerà attendere il Concilio Vaticano II perché il tradizionale principio della distinzione dei piani (che non costituisce certo una novità) fosse sottratto al rapporto diretto ed esclusivo tra poteri (civile ed ecclesiastico), e ricondotto a quello tra diritti individuali, doveri della coscienza rettamente formata, autorità morale della Chiesa.

Qualcuno ha visto nella Riforma protestante un importante fattore di laicizzazione e superamento degli integralismi; dimenticando che gran parte delle Chiese Riformate, abbracciando il principio del “cuius regio, eius religio” (obbligo di seguire la fede professata dal Principe), hanno piuttosto rafforzato le spinte integralistiche…

Gli errori che vengono denunciati, dunque, non sono stati commessi applicando i principî che andiamo enunciando, ma contro tali principî; i quali, dunque, non perdono per questo valore.

Tornando al presente, non ci sembra davvero si possa sostenere che oggi la Chiesa cattolica (e il mondo cristiano più in generale) si caratterizzino per posizioni integraliste nel senso che abbiamo delineato.

Inoltre, se è vero che possiamo ritenere fondate alcune delle critiche mosse in passato al modo in cui la Chiesa ha concretizzato il principio di laicità, è anche vero che gli autori di tali critiche non erano mossi da una visione più "moderna" di tale principio, ma semplicemente da un'opposto integralismo antireligioso. Insomma, l'elaborazione culturale della Chiesa cattolica resta più "avanzata" (per il valore che può assumere questo termine...) rispetto a quella dei cosiddetti "laici", tanto sussieguosi quanto poco attenti ad approfondire la tematica.


A questo punto, il confronto tra credenti e non credenti ha bisogno di due chiarificazioni.

La prima è che la laicità non può essere intesa solo - in negativo, semplicisticamente - come autonomia delle realtà terrene da quelle celesti, rifiuto degli integralismi; dev’essere intesa anche - in positivo – come sforzo di costruire in pienezza quelle realtà. Pertanto, la libertà di definire le leggi della convivenza non può fare a meno – come visto - della ragione umana, principale strumento di conoscenza e di dialogo tra gli uomini. Ma la ragione non va confusa né col dogmatismo (l’imposizione violenta di una propria verità) né col relativismo, col rifiuto aprioristico dell’idea di verità e delle leggi di natura (questa è la deformazione prodotta dalla ragione 'soggettiva', di cui abbiamo parlato in Relativismo e verità).
Una libertà che miri solo all’autoaffermazione di sé, che voglia andare contro la ragione piena, contro la natura, contro il principio di realtà, è una libertà che non solo è destinata a far naufragare lo sviluppo delle realtà umane, ma non offre neanche ancoraggi ai diritti umani fondamentali: è mero arbitrio, prevaricazione.

In secondo luogo, la laicità intesa come autonomia delle realtà naturali non implica l’irrilevanza di quelle religiose. Non implica una separazione - comse visto, artificiosa - tra aspetti di una realtà unica e indivisibile.

Nella prospettiva cristiana può emergere la tentazione (opposta a quella integralista) di separare drasticamente – e non solo distinguere – il piano religioso da quello mondano.

Questa separazione può essere dettata dal rifiuto netto delle realtà secolari, considerate corrotte e inutili ai fini della salvezza; o dal rifiuto del ruolo della ragione umana nello sviluppo di queste realtà, come anche nel discorso religioso. Questi rifiuti comportano il rischio di uno spiritualismo disincarnato, della fuga mundi.


Secolarismo e laicismo.

Oppure – ed è un rischio che accomuna molti credenti e non credenti – la separazione tra piano religioso e mondano può essere dettata dal rifiuto o dalla sottovalutazione della dimensione religiosa, ignorata o confinata nel privato del singolo individuo. Si può giungere così all’assolutizzazione delle realtà secolari, al secolarismo. Per cui Dio, o anche solo il senso religioso di una persona, non avrebbe nulla da dire nella creazione di un’opera d’arte, nell’applicazione al proprio lavoro, nello sforzo di porre la scienza al servizio dell’uomo.

Negli ultimi tre secoli l’esperienza storica ha conosciuto lo sforzo di costruire una “modernità” intesa come emancipazione dalla religione. Alcuni uomini hanno esaltato se stessi pretendendo di sostituirsi a Dio, confidando esclusivamente nella propria capacità; ma contemporaneamente amputando la propria dimensione spirituale, per ridursi ad una prospettiva materialista ed economicista.

Peraltro, la prospettiva esclusivamente materialista ha finito con l'impoverire e svuotare il metodo di conoscenza invocato come infallibile, la ragione. La "ragione soggettiva" ha prodotto innumerevoli e contrastanti forme di razionalismo (relativismo, scetticismo, costruttivismo, utilitarismo, ecc.), asservite sovente ad interessi particolari o alla volontà di potenza, incapaci di costruire un'antropologia condivisa.

Il risultato sembra confermare la considerazione di Karl Barth: “quando il cielo si vuota di Dio, la terra si popola di idoli”. Alcuni valori sono stati elevati a miti (ragione, libertà, scienza, progresso), capovolgendosi nel loro contrario: la ragione soggettiva e relativista è sfociata nell’irrazionalismo; la libertà assoluta e senza responsabilità si è tradotta in libertinismo prevaricatorio e autodistruttivo; lo scientismo si è asservito all’applicazione tecnologica e commerciale (mentre la scienza pura scopre ogni giorno nuovi limiti); il “progresso” non ha eliminato il dolore e il male, ma anzi ne ha introdotto nuove forme, e si è convertito in paura del futuro.
Quegli uomini hanno cercato semplicemente di fabbricare nuovi miti: la razza, lo Stato, la classe, il partito, la psicanalisi …

Il secolarismo ignora i limiti dell’essere umano, nega che la persona sia un impasto di bene e male. Secondo Rousseau, il male non risiede nell’uomo, ma nelle strutture sociali (viene da chiedersi: realizzate da chi?), che però possono essere rifondate dalla libera espressione degli istinti umani, o dalla ragione ‘liberata’. Ma la realtà contraddice puntualmente questo disegno di onnipotenza; e allora bisogna identificare e combattere (persino uccidere: rivoluzioni, aborti…) il “nemico” che ne impedisce la realizzazione: l’utopia di un uomo irreale uccide l’uomo reale.

La prospettiva secolarista, calata in quella particolare realtà terrena che è la politica, assume anche il nome di laicismo.

L’uso del termine 'laicità' per indicare la contrapposizione al fenomeno religioso costituisce - come abbiamo evidenziato inizialmente - un uso distorto e ambiguo (spesso malizioso), nato in Francia agli albori dell'illuminismo. In quel clima culturale, parzialmente esportato negli altri Paesi latini a prevalenza cattolica, la rivendicazione dele libertà sociali e politiche è stata sovrapposta alla richiesta di emancipazione dalla religione. L'esigenza storica concreta, a volte legittima, di superare alcuni privilegi ecclesiastici fu indebitamente trasferita sul piano ideale e assolutizzata, facendosi ideologia secolarista.

Parzialmente diversa fu l'evoluzione del concetto di laicità nei Paesi protestanti. In quelli europei, le libertà politiche venivano identificate con l'autonomia degli Stati-nazione rispetto ai poteri sovranazionali (Chiesa cattolica e Impero). Le Chiese di Stato non sembravano di ostacolo a tali rivendicazioni nazionalistiche, anzi venivano considerate un importante cemento culturale (con il corollario delle persecuzioni delle minoranze religiose). Il problema della "laicità" in chiave antireligiosa, insomma, non veniva posto.
Il ruolo assunto dalla religione quale "religione civile", instrumentum regni, è stato però un ruolo subalterno, che ha portanto allo svuotamento della sua capacità di farsi sorgente autonoma e feconda di valori.

Un'eccezione divenne quella degli Stati Uniti, fondati proprio dalle comunità protestanti che costituivano una confessione di minoranza nei Paesi protestanti europei di provenienza, e che erano fuggite alle persecuzioni che subivano. Per queste comunità (fondate dai "Pilgrim Fathers") le libertà sociali e politiche non si costituivano contro la fede religiosa, ma avevano nella libertà religiosa uno dei cardini.
Gli Stati Uniti, dunque, non sono Stati il Paese della "laicità", ma della "libertà religiosa" ("religious freedom"). La separazione tra potere politico e potere religioso (il "wall of separation" evocato da Thomas Jefferson) aveva il senso - prima ancora che di proteggere lo Stato dalle ingerenze della Chiesa - di proteggere la religione dalle ingerenze dello Stato (e delle Chiese di Stato), proprio secondo l'ispirazione iniziale di Papa Gelasio I.
(Peraltro, sarebbe il caso di ricordare che la menzionata definizione di Jefferson è rinvenibile solo in una sua lettera privata, e che tra i Padri costituenti erano diffuse anche visioni meno rigide della separazione tra potere politico e religioso, come quelle di Hamilton e Madison).

Per indicare la contrapposizione al fenomeno religioso, dunque, superando equivoci, usi maliziosi e siutazioni storiche contingenti, è più appropriato il termine laicismo. Il laicismo (sostenuto dai ‘laicisti’, che possono essere in alcuni casi persino credenti), proclama l’autosufficienza delle istituzioni politiche, l’espulsione dalla vita pubblica del fenomeno religioso (che però è fenomeno pienamente umano, sia pure non prodotto dall’uomo). Quando il laicismo si manifesta con politiche aggressive verso il clero e le istituzioni religiose, si ha l’anticlericalismo.

Volgendo lo sguardo all’esito storico delle spinte secolariste e laiciste, se guardiamo quel tipo di “modernità” per come si è concretamente realizzata (e non per come voleva essere), non si può ignorare che il secolo scorso ha conosciuto i totalitarismi, regimi nati contro Dio che hanno prodotto le più grandi umiliazioni alla dignità umana conosciute dalla storia.

Senza voler giungere ad alcuna apologia della religione, ci limitiamo a constatare che la libertà religiosa costituisce uno dei fondamenti della libertà umana; che l'ispirazione religiosa ha animato le battaglie per la libertà e la giustizia sociale nei Paesi occidentali.
Per fare solo un esempio moderno, bisogna esser grati al reverendo Martin Luther King per non aver confinato la sua fede in una dimensione privata quando ha intrapreso le battaglie contro le discriminazioni razziali, quando ha proclamato, nel suo celebre discorso del 28 agosto 1963:
"Oggi ho un sogno!
Sogno che un giorno ogni valle sarà elevata, ed ogni collina e montagna sarà spianata. I luoghi asperi saranno piani ed i luoghi tortuosi saranno diritti, e la gloria del Signore sarà rivelata ed il genere umano sarà riunito. (...) il giorno in cui tutti i figli di Dio, uomo Negro e uomo Bianco, Ebreo e Cristiano, Protestante e Cattolico, potremo unire le nostre mani a cantare le parole del vecchio spiritual Negro: 'Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo finalmente liberi'."

Inoltre, l’espulsione del sacro non produce alcun beneficio storico e sociale. Tant’è che le disillusioni della “modernità” hanno portato all’elaborazione di una “postmodernità”. La quale corre però il rischio di ripiegarsi nell’istintualità; di sostituire i miti sociali precedenti con idoli materiali niente affatto nuovi  (denaro, potere, successo, sesso), che riducono l’uomo in una schiavitù molto più stretta di quella attribuita alla fede.

In definitiva, ciò che caratterizza il secolarismo è l’antirealismo, la pretesa di ignorare la complessità della natura umana, i suoi limiti, la sua dimensione trascendente.

Ribadiamolo: denunciare il secolarismo non significa condannare le realtà secolari e i beni che contengono, ma solo la loro assolutizzazione. L’apertura alla dimensione soprannaturale può evitare questo rischio. L’espulsione aprioristica del sacro dalla vita pubblica esprime un dogmatismo (anche se mascherato da relativismo) non molto diverso da quello integralista che vorrebbe condannare: un vero e proprio integralismo laicista. Non sembri un paradosso che oggi proprio la Chiesa sia impegnata a difendere - nel loro senso più pieno - la razionalità, la libertà, la scienza, lo sviluppo, per costruire una modernità a misura d’uomo.

Si aggiunga che, in un'ottica cristiana, un fecondo rapporto tra piano religioso e mondano non è solo un'esigenza delle realtà secolari, del loro armonioso sviluppo. È anche un'esigenza della fede cristiana, che non è una fede disincarnata.


Il rapporto tra piano naturale e piano religioso nell’individuazione dei valori.

La separazione del piano religioso da quello secolare, dunque, non esprime correttamente il loro reciproco rapporto (come non lo esprime la sovrapposizione). In che modo va inteso tale rapporto, almeno nella prospettiva cristiana e della cultura occidentale che in essa si è sviluppata?

Per il cristiano la distinzione tra i piani, posta da Cristo e dalla Chiesa, non è separazione. Si tratta, come detto, di una distinzione che ha significato logico-conoscitivo: i due "piani" sono aspetti di una realtà umana unica e indivisibile.
Il laico è tenuto a “iscrivere la legge divina nella vita della città terrena” (Gaudium et Spes,  43,2), a “procurare l’animazione del mondo con lo spirito cristiano” (Gaudium et Spes,  43,4), a “illuminare e ordinare tutte le cose temporali (…) in modo che sempre siano fatte secondo Cristo” (Conc. Vat. II, Lumen Gentium, 31,2). L’autonomia delle realtà temporali non può essere intesa nel senso che “l’uomo può adoperarle così da non riferirle al Creatore”. Il cristiano sa che il fine delle realtà naturali è un fine intermedio, rispetto al fine ultimo che è la salvezza dell’anima e la costruzione del Regno di Dio; per cui il fine intermedio non può porsi in aperta contraddizione col fine ultimo.

La fede crisitana è Fede in un Dio incarnato, entrato con potenza nella storia. E una Fede che salva l'uomo nella sua interezza, anche nella sua dimensione sociale.
Con l'incarnazione e la redenzione in Cristo, peraltro, all'uomo viene donata anche dignità divina: l'uomo non è più solo "immagine di Dio", ma riceve lo Spirito di "figlio adottivo", viene "glorificato". Senza l'apertura alla Grazia, non si salva.

Il laico cristiano, dunque, è chiamato a realizzare quella che è stata definita una “unità dei distinti” (piano terreno e ultraterreno), una “sintesi sapienziale”. Dovrà agire nel piano temporale - secondo una distinzione introdotta da Maritain e ripresa dal Concilio - da cristiano (evitando di confinare nel privato la sua fede), ma non in quanto cristiano (perché non può imporre valori condivisibili solo in forza della fede, ma deve cercare di proporre i valori di cui rileva il carattere naturale, la luce razionale e l’utilità per il bene comune). Parlare di rilevanza della fede nel dibattito pubblico e nella scoperta dei valori, dunque, significa ammettere che i credenti possano a pieno titolo essere soggetti di questo dibattito, proponendo i proprî valori da cristiani.
Anche chi non ha fede (cioè non crede in Dio e nel piano della Rivelazione come lo abbiamo delineato) dovrebbe esaminare tali valori – nella loro evidenza razionale – senza pregiudizî.

Non si può immaginare, ad esempio, un’economia che – invocando la gratuità - ignori la necessità del tasso d’interesse per un efficace impiego del capitale. Ma se la gratuità non può essere la regola dell’economia, può aiutare a valorizzare esperienze economicamente qualificate, come quelle del settore “no profit”.

Proporre i proprî valori da cristiani significa utilizzare la ragione quale metodo di confronto nel dibattito pubblico, valendosi però della fede quale supporto per illuminare i valori materiali, per utilizzare correttamente la ragione (recta ratio) quale strumento di conoscenza della realtà, evitando le insidie dei molteplici e contraddittorî razionalismi.
La consapevolezza del peccato originale, infatti, ricorda all’uomo di non avere solo una grandezza inestimabile, ma anche limiti (natura lapsa) che gli impediscono di sentirsi onnipotente. Come ricorda Giovanni Paolo II, “questa dottrina [del peccato originale] non solo è parte integrante della rivelazione cristiana, ma ha anche un grande valore ermeneutico, in quanto aiuta a comprendere la realtà umana.” (Centesimus Annus, 25).
Il pensiero cristiano ha potuto - innestandosi sul pensiero greco-romano - creare un'antropologia razionalmente fondata, realista, aperta al soprannaturale, fondamento del dialogo tra culture e dello sviluppo sociale e tecnologico.

Distinzione dei piani, dunque.
In alcuni casi, per il cristiano, c’è una più diretta incidenza del piano religioso su quello naturale (Maritain parlava di “piano intermedio”): accade per quei valori - iscritti nell’ordine della creazione e quindi accessibili ai non cristiani mediante una retta ragione – che sono esplicitati chiaramente dalla Rivelazione (come accade nei Dieci Comandamenti) e dal Magistero della Chiesa. Trattandosi di principî naturali, necessarî alla convivenza civile (come abbiamo visto nell'articolo su pluralismo sociale e valori comuni) possiamo parlare di valori di ispirazione cristiana, cioè di valori cristiani che hanno dignità laica, ovvero - è la stessa cosa - di valori laici particolarmente cari ai cristiani. La difesa di tali principî è però vincolante per il cristiano in quanto tale: infatti, l’illuminazione religiosa assorbe la possibilità di individuarli anche con l’uso della prudenza; egli dovrà poi agire da cristiano, in quanto cittadino, al momento di dare concretezza a quei valori e di promuoverli, evidenziandone la natura razionale.

L’aborto, ad esempio, non è solo il rifiuto della vita quale dono divino, ma è anche e soprattutto la lesione del più importante tra i diritti dell’uomo.
“Non rubare” è un comandamento del Decalogo, ma anche una norma di convivenza civile; non è solo peccato, ma anche reato, e non per capriccio di qualche integralista. Non sarebbe ridicolo un ladro che si difenda contestando che gli viene imposto un precetto religioso?
(Contestazioni di questo stesso tipo, sia detto per inciso, le abbiamo sentite contro la recente legge che regolamenta la procreazione assistita).

Dunque: la tipologia generale del rapporto tra piano secolare e piano religioso è quella della “distinzione”. Abbiamo visto che esiste anche una tipologia particolare, di “diretta incidenza” (il piano intermedio).
Concludiamo evidenziando che esistono anche realtà umane (matrimonio, educazione, libertà di apostolato) in cui per il cristiano si verifica una sostanziale coincidenza tra i piani. Queste realtà - pur non potendo pretendere la fede di modellare per esse regole universalmente valide - richiedono alla società civile riconoscimento e protezione anche nella loro connotazione religiosa.

Ad esempio, in relazione al matrimonio, i cristiani in quanto tali sono illuminati nella comprensione della centralità sociale dell'istituto matrimoniale; ma sono anche vincolati a chiedere tutela giuridica per il matrimonio religioso.
Infatti, è ovvio che non può essere imposto a tutti il matrimonio religioso: da cristiani, quindi, difenderanno tale istituto anche nella sua semplice dimensione civile, evidenziandone la rilevanza naturale che prescinde dalla fede. 
Ma ciò non basta: in quanto cristiani, poiché il matrimonio è un sacramento che conforma la vita degli sposi e della famiglia da loro formata, dovranno anche esigere per le coppie di credenti il riconoscimento giuridico del matrimonio religioso quale norma di vita comune.

Similmente, in relazione al riposo domenicale, i cristiani in quanto tali sono illuminati nella comprensione dell'importanza sociale del riposo festivo; ma sono anche vincolati a chiedere tutela giuridica per il precetto religioso.
Non certo è immaginabile una legge che imponga a tutti l’obbligo di partecipare alla messa domenicale: da cristiani, si dovrà incoraggiare la legislazione a recepire (senza cedere ad un produttivismo esasperato) l’importanza di un giorno di festività settimanale: per riposarsi dal lavoro, per vivere la comunione familiare (un giorno – quindi – uguale per tutti) e, se si è credenti – per dedicarsi al Signore.
Al tempo stesso, però, quali che siano le forme regolatrici di tale festività, in quanto cristiani non potrà essere accettata nessuna limitazione all’esercizio del culto, neanche in funzione di particolari attività professionali svolte.

È importante infine sottolineare che i valori di ispirazione cristiana possono essere correttamente compresi se sono espressione di una cultura dei valori.


I termini in cui abbiamo posto il rapporto tra piano secolare e piano religioso sono quelli di una tendenziale armonia. Il dibattito democratico fondato su una ragione aperta dovrebbe consentire la collaborazione tra diverse fedi e diverse visioni della società, per trovare l’accordo sui valori più importanti. Ma come regolarsi se ciò non accade, se il metodo esposto non è applicato correttamente, se prevalgono pregiudizî o interessi? Soprattutto in quella particolare realtà naturale che è la politica, ove i valori fondano norme che hanno carattere vincolante?

La teoria del positivismo giuridico sostiene che – anche qualora si ritengano violati principî di giustizia sostanziale – deve prevalere sempre l’applicazione della legge formale.
Anche una visione dell’ordinamento non esclusivamente formalistica, come quella che abbiamo tratteggiato evidenziando l’Attualità del diritto naturale, ammette la prevalenza della norma positiva; il cristiano, in particolare, è tenuto ad obbedire alle autorità secolari anche quando non ne condivide pienamente l’azione (Rm 13,1; 1 Tim 2,1 4). Ma questo principio resta valido solo finché la lesione della giustizia sostanziale non raggiunga estremi intollerabili.

È il caso della lesione dei diritti fondamentali della persona umana: ogni cittadino (e ogni credente) ha il diritto/dovere di impegnarsi in ogni modo per cambiare tali norme, nonché di praticare l’obiezione di coscienza.

È anche il caso di quelli che Papa Benedetto XVI ha definito “principî non negoziabili”, cioè valori che esprimono beni intangibili sia nella dimensione naturale sia in quella religiosa. Nei casi di conflitto aperto tra la Legge "positiva" (rivelata) di Dio e quella degli uomini, come dice San Pietro, “magis oportet parere Deo quam hominibus” (At 5,29): “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”.

Qualcuno è spaventato dall’idea che sia ammissibile per i cittadini una “doppia obbedienza”. Ebbene, se ci riflettiamo, tutti gli uomini sono chiamati almeno ad una doppia obbedienza: quella alla comunità politica, ma anche alla propria coscienza (che può essere o meno religiosamente formata). Dovrebbe spaventarci piuttosto la pretesa che sia richiesta un’unica obbedienza: quella allo Stato, che proprio quando ha questa pretesa è definito ‘totalitario’.

L’autonomia della politica, dunque, è un’autonomia relativa - al suo fine intermedio, il bene comune, che comprende anche le esigenze spirituali dell’uomo - e non assoluta: non può pretendere di escludere (la tentazione laicista) il fine ultimo, collocato sul piano religioso.

Esiste, in questo senso, un "relativismo" cristiano, quello che - contro ogni integralismo - si rifiuta di assolutizzare le realtà terrene e i problemi politici.
"Assoluto" è il termine di riferimento costituito dalle leggi e valori naturali, oltre che da quelli trascendenti; cosicché costituisce un relativismo irrazionale quello che rifiuta ogni riferimento oggettivo, l'idea stessa di verità.
"Relativi" - al contesto storico e sociale, al fine limitato che è proprio della sfera politica - sono invece i problemi politici concreti, le soluzioni proposte; e ciò deve mettere in guardia da ogni tentazione di imporli con la forza.


Utilizzare i termini ‘laicismo’ e ‘laicista’ ci aiuta a delimitare quel significato di contrapposizione (in campo politico) al fenomeno religioso che – come abbiamo visto inizialmente – viene impropriamente attribuito (peraltro, solo in Italia e in Francia) ai termini “laicità” e “laico”.
È necessario, per eliminare ogni malevola ambiguità linguistica, restituire al termine laicità il significato che abbiamo invece individuato come più corretto: sforzo della ragione di scoprire le leggi e i valori proprî delle diverse realtà naturali (anche della politica), per garantirne lo sviluppo pieno. Senza integralismi religiosi, ma anche senza preclusioni per il fenomeno religioso (che anzi, come vedremo, ha una valenza costitutiva). 
È quella che Benedetto XVI ha definito "sana laicità" (per rimarcare la distinzione rispetto agli usi ambigui del termine).
Laici sono tutti quelli - credenti e non credenti - uniti in questo sforzo.

Il sistema politico, infatti, deve guardarsi pure dagli integralismi ideologici: non può produrre interamente da sé ed imporre la verità che lo sostiene, altrimenti avremmo il totalitarismo. La democrazia riprende dalla società il tessuto etico e culturale - ancorato ai valori naturali - di cui ha in ogni caso bisogno. Ed ha bisogno anche, come vedremo più avanti, di un sostrato religioso.

Pertanto, se in alcune circostanze appare proprio necessario adoperare il termine “laico” in un’accezione antireligiosa, magari per citare l’altrui pensiero, si abbia almeno l’accortezza di usare le virgolette...


L'impegno nel piano secolare: laici cattolici e gerarchia ecclesiastica.

Abbiamo visto inizialmente – cercando di scoprire il significato corretto del termine ‘laico’ – la differenza che nella Chiesa cattolica esiste tra laici e chierici.
Abbiamo chiarito che la vocazione ad animare le realtà temporali è propria dei laici, per cui la modalità con cui questa animazione deve avvenire è detta proprio ‘laicità’.

Ciò significa che il clero – e in particolare la gerarchia ecclesiastica: i vescovi, le Conferenze episcopali, gli organi della Santa Sede, il Papa – non ha voce in capitolo nelle questioni sociali e politiche?

Non è così. Quanto alle realtà secolari, il ruolo della gerarchia è quello di definire col suo Magistero i principî generali e i criterî di giudizio in base ai quali la fede illumina l’azione politica e sociale. Ciò avviene innanzitutto con la dottrina sociale della Chiesa, la quale vincola il cristiano perché fa parte della teologia morale (Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, § 41). Essa, però, è formulata nei termini di una filosofia civile, e come tale si segnala all’attenzione laica delle nazioni; l’insegnamento sociale della Chiesa, infatti, si è costituito come dottrina valendosi “delle risorse della sapienza e della scienza umane” (Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede Libertatis conscentia, § 27), e rimanda espressamente alla competenza e alla responsabilità dei laici al momento delle modalità d’azione concreta. Anche il non credente, pensiamo, lungi dall’archiviare frettolosamente questo insegnamento come espressione di mero dogmatismo, saprà apprezzarlo per la lucidità dell’argomentazione razionale, al pari di teorie provenienti da qualsiasi altra fonte.

La gerarchia può anche sentire l’esigenza di un intervento diretto su questioni concrete. A volte nelle forme dell’esortazione pastorale, per chiarire punti su cui può sorgere confusione. Più raramente nelle forme dell’indicazione vincolante (come la Nota C.E.I. sui Di.Co.), quando si è di fronte alla violazione concreta di principî definiti (leggi contro la vita, contro la famiglia, ecc.), o perché si è di fronte a gravi aggressioni alla dignità delle persone (denuncia delle guerre, delle dittature, ecc.).

C’è il rischio che esponenti della gerarchia entrino troppo direttamente nella definizione concreta delle modalità d’azione politica, che è il campo proprio dei laici? Teoricamente sì, anche se il problema che vive oggi la Chiesa non è quello di uno ‘sconfinamento’ del clero, ma quello – opposto – di una scarsa consapevolezza dei laici rispetto ai principî che dovrebbero regolare il loro impegno.

In ogni caso, bisogna sottolineare con chiarezza che si tratta di una questione esclusivamente infraecclesiale: saranno i laici cristiani a dover domandare ai proprî pastori chiarezza nella definizione degli ambiti della propria autonomia (che non può essere - è evidente – autonomia dai principî).

In nessun modo cittadini di altre fedi religiose, non credenti, laicisti di varia appartenenza, possono accusare la Chiesa di “ingerenza”. Anche nella - discutibile - prospettiva "privatistica" della fede propugnata da alcuni laicisti, i vescovi restano cittadini come tutti, con gli stessi diritti civili e politici; la Chiesa sarebbe una libera associazione (qualcuno, se ne ha piacere, potrebbe anche chiamarla lobby), che non può essere soggetta a nessuna limitazione per causa della propria natura religiosa (come ribadisce l'art. 20 della nostra Carta costituzionale). Chi ha argomenti validi da contrapporre alle posizioni della Chiesa dovrebbe farlo senza pretendere di imporle censure o bavagli.


Il rapporto del piano naturale con il linguaggio e i simboli religiosi.

A noi pare che la piena agibilità politica dei credenti sin qui difesa, la facoltà di evidenziare l’importanza di determinati valori nel dibattito pubblico, dovrebbero essere ovvie in ogni Stato che abbia un minimo di senso liberale, laddove non possono esserci cittadini di serie B.

Aggiungiamo però un ulteriore elemento: riconoscere il ruolo della fede nel piano politico non significa solo ammettere la sua capacità di illuminare i valori naturali; significa anche ammettere il discorso religioso in quanto tale, e la rilevanza dei simboli e dei servizi religiosi che lo richiamano (crocefisso, presepe, festività religiose, arte sacra, insegnamento della religione a scuola, assistenza religiosa nei luoghi di lavoro, nelle carceri e negli ospedali, ecc.).

Questa rilevanza deriva innanzitutto dal carattere non ideologico e democratico dello Stato liberale, il quale - come ricordavamo - riprende dalla società il tessuto etico e culturale (anche nella sua dimensione religiosa) di cui ha bisogno. Riconoscere che esiste un fenomeno così rilevante come quello religioso non significa affermare che esiste Dio, e non significa imporre una fede a chi non crede (così come non dev’essere imposta alcuna ideologia); vuol dire semplicemente rifarsi ad un dato di realtà. Altrimenti dovremmo negare allo Stato ogni tipo di intervento culturale, economico, sociale, perché sempre ‘condizionante’…
Sarebbe un’insopportabile censura, al contrario, proprio quella che volesse negare l’esistenza della dimensione spirituale e religiosa.

Detto in termini giuridici: "l'attitudine laica dello Stato-comunità (...) risponde non a postulati ideologizzati ed astratti di estraneità, ostilità o confessione dello Stato-persona o dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla religione o ad un particolare credo, ma si pone a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini" (Corte costituzionale, sent. n. 203/1989).

Il legame tra politica e piano religioso, posto anche solo nei termini minimi del rispetto della realtà sociale e dei diritti umani, consente anche di ricavare un ulteriore, fondamentale elemento costitutivo della laicità: la libertà religiosa.
Infatti, la definizione che ci siamo sin qui sforzati di dare della laicità (sforzo della ragione di scoprire le leggi e i valori proprî delle diverse realtà naturali - anche della politica -, per garantirne lo sviluppo pieno) è evidentemente una definizione di ordine filosofico-politico. Ma la sua traduzione giuridica può aversi solo nell'individuazione dei diritti fondamentali meritevoli di tutela.
Ebbene, uno degli indicatori più significativi del pieno sviluppo delle realtà naturali, della loro autonomia da imposizioni integralistiche (ideologiche o religiose) è proprio il rispetto della libertà religiosa: la libertà di tutte le religioni di credere, praticare e professare la propria fede; ed anche la libertà di non credere.
Non esiste (se non nell'ordinamento costituzionale francese, con tutte le degenerazioni che ne sono derivate) una laicità quale principio autonomo cui debbono conformarsi le libertà. Esistono, al contrario, le libertà concrete che strutturano la laicità, la quale è chiamata a difenderle.

Anche il non credente dovrebbe ammettere che la realtà umana non è riducibile alla dimensione materiale, ma comprende una dimensione spirituale e religiosa (comunque venga letta).

Ma la rilevanza del discorso religioso non deriva solo da un necessario rispetto verso la cultura che essa esprime, verso i diritti in cui si manifesta. La rilevanza del discorso religioso è anche una necessità del piano secolare e della società. Lo stesso non credente può trovare legittimo ed utile il richiamo alla fede e ai suoi simboli, per tutta una serie di fattori.

La fede, come visto in precedenza, può guidare un corretto uso della ragione. Ma la fede può anche integrare la ragione quale strumento di conoscenza e comprensione della realtà, per evitare gli abbagli in cui la ragione incorre quando pretende di essere autosufficiente. Einstein amava ripetere: “la religione senza la scienza è zoppa; ma la scienza senza la religione è cieca”.

Il discorso religioso può altresì arginare sviamenti o tradimenti della ragione, come la deriva soggettiva o la sottomissione agli interessi. 
L’esistenza di un Giudice supremo è - per l’arbìtrio - una remora probabilmente maggiore che non l’ 'evidenza razionale' (non sempre così... evidente) del bene.
La fede ricorda all’uomo i suoi limiti (il suo status di creatura), affinché nelle sue conquiste sia guidato sempre dalla prudenza, dalla responsabilità, dalla tensione al bene (che non sempre coincide con desiderî e interessi), dal rispetto dell’altro. 

Nella figliolanza divina, peraltro, l’uomo non scopre solo i suoi limiti, ma anche la sua grandezza. Il non credente sente - dovrebbe sentire - dentro di sé la dignità della persona umana come qualcosa di sacro. L’ebreo ed il cristiano possono sostenerlo in questa consapevolezza, poiché per loro la particolare dignità dell’uomo è resa chiara dal suo essere “immagine e somiglianza" di Dio (Gen 1,26), nonché nel suo essere chiamato a divenire “conforme all’immagine del Figlio Suo” (Rm 8,29). Se l’uomo, ogni singolo uomo, è davvero fratello degli altri uomini in una figliolanza comune (essendo uno il Padre), allora acquista davvero un’altissima, eminente dignità, che non può essere sacrificata in nome di nessun traguardo storico, di nessun modello umano astratto. In nessuna ideologia il rispetto dell’altro ha un fondamento così forte, è incondizionato.

L’apertura al soprannaturale è fondamento anche della società politica liberale e ha forgiato il pensiero liberaldemocratico. Infatti, la libertà umana trova spazio nella società politica se quest'ultima sa di essere una societas imperfecta, di non poter trovare in sé, nelle proprie regole, nelle proprie strutture il fondamento ultimo. Solo se il fondamento della società è esterno alla politica, il potere di questa non può essere assoluto. L'utopia di una società con strutture perfette, in cui l'uomo è "liberato" dalla fatica di essere buono, di dover scegliere responsabilmente tra il bene e il male, in cui vien meno la necessità di un êthos collettivo, si traduce inevitabilmente nella "liberazione" per la tirannide perfetta.

Nel 1967 il giurista Ernst Wolfgang Böckenförde espresse la constatazione (denominata poi "teorema di Böckenförde", per altri versi anticipata da Romano Guardini, e restata un punto di riferimento della filosofia politica) per cui lo Stato liberale e secolarizzato si nutre di premesse normative che esso, da solo e autonomamente, non può garantire e non può rinnovare.

A tale constatazione si è rifatto il filosofo Jürgen Habermas (non credente), nel discorso tenuto nel gennaio 2004 all’Accademia Cattolica di Monaco di Baviera, confrontandosi con l’allora cardinale Ratzinger. Habermas denuncia quella che definisce “secolarizzazione distruttiva”, la quale non si preoccupa di interrogarsi sui fondamenti della solidarietà e dei diritti umani fondamentali di cui la società democratica ha bisogno, e produce così una "entropia delle scarse risorse concettuali e spirituali". Per superare questa deriva, "il non credente deve uscire dalle nebbie della laicizzazione. Deve rinunciare all' 'usufrutto' che, pur negando la Rivelazione, si appropria dei valori e delle forze che essa ha elaborato". La società democratica secolare deve attingere linfa dalla religione, che ha la capacità di "alimentare la coscienza normativa e la solidarietà dei cittadini". A questo scopo, la società secolare deve aprire un "dialogo a due" con la religione, riconoscendole dunque un ruolo pubblico.

L'idea che possa esistere un'etica "laica" totalmente autofondata, capace di fornire alla società democratica (oltre che al singolo) i valori comuni di cui ha bisogno, ricorda un po' il barone di Münchhausen, il bizzarro protagonista del romanzo di Rudolf Erich Raspe che si salvava dalle sabbie mobili tirandosi per i propri capelli...

“Rendete a Cesare quel che è di Cesare” fonda l’autonomia della società politica; ma “rendete a Dio quel che è di Dio” chiarisce che quell’autonomia non è un assoluto, che lo Stato non può avere la pretesa di essere unico soggetto legittimante nella vita umana.

Cediamo la parola ad uno dei padri del pensiero liberale, Alexis de Tocqueville (che peraltro non era fedele di una particolare confessione religiosa): "non ho mai visto popoli liberi la cui libertà non affondasse le sue radici nella fede religiosa"; "dubito che l'uomo possa mai sopportare contemporaneamente una completa indipendenza religiosa e una totale libertà politica; e sono incline a pensare che, se non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda".

L’apertura al discorso sul sacro non deve avere necessariamente un carattere confessionale, può significare richiamarsi a diverse tradizioni religiose (purché queste sappiano coniugarsi con la laicità). Ma questo richiamo, nel vissuto sociale, a volte ha anche bisogno del ricorso concreto ai simboli e alla cultura della tradizione religiosa di un Paese. Solo così simboli e cultura hanno anche il necessario valore di collante sociale.

Nella società occidentale, ad esempio, i principî naturali fondamentali sono stati definiti nell’incontro tra razionalità greco-romana e Rivelazione giudaico-cristiana. In Italia, in particolare, un ruolo decisivo lo ha avuto la tradizione cattolica (ma anche, in maniera non irrilevante, quella valdese e quella ebraica). L’attenzione ai dati e ai simboli della tradizione può evidenziare quei valori che hanno saputo dimostrare stabilità nel tempo, può impedire di recidere le radici che danno linfa ai valori.

Negare questa realtà, in nome di un finto neutralismo, è l'espediente con cui i laicisti conducono la loro battaglia per imporre la propria ideologia in chiave essenzialmente anticristiana.
Lo abbiamo visto nell'articolo che documenta le 'guerre' contro i simboli religiosi cristiani.
Lo constatiamo anche nell'ipocrita invocazione del “multiculturalismo”, in nome del quale i laicisti ammettono abusi molto peggiori (fatàwì – pl. di fatwà, ndr - di condanna a morte, attentati alla libertà d’opinione, scuole integraliste, omicidi di donne per motivi religiosi, sfruttamento del lavoro minorile, ecc.) di quelli che imputano al cristianesimo.

Naturalmente, bisogna ribadire che è essenziale un’accortezza: il richiamo pubblico ad una tradizione religiosa particolare deve avvenire in chiave essenzialmente culturale, senza voler attribuire ad una fede un carattere di ‘ufficialità’ che lederebbe il pluralismo religioso.

Ma è altrettanto importante ribadire che se la società riprendesse dalla cultura religiosa essenzialmente un "catalogo di valori", scelto arbitrariamente dalle élites non religiose, per formare una religione civile con l'unico scopo di garantire coesione sociale, si interromperebbe il fecondo e necessario rapporto tra piano secolare e piano religioso. 
I valori, privati della loro sorgente, diventerebbero ben presto aridi e facilmente strumentalizzabili dal potere. Il rapporto necessario è quello col linguaggio e i simboli religiosi, con l'autonomia del piano soprannaturale.


Il rapporto tra istituzioni civili e istituzioni religiose.

Come la comunità politica esprime le sue istituzioni (lo Stato, gli enti territoriali), così le comunità dei credenti esprimono istituzioni religiose (Chiese, comunità monastiche, assemblee, associazioni, ecc.). Qual è il corretto rapporto tra queste istituzioni?

Se – come visto - uno Stato liberale non può avere pretese assolutistiche, capiamo quanto sia poco liberale la celebre formula di Cavour “libera Chiesa in libero Stato”. La collocazione della Chiesa (e, per esteso, di ogni altro gruppo religioso) nello Stato rende la libertà che le è assegnata una mera concessione.

Viceversa, se vogliamo individuare in termini essenziali – e più corretti - il principio regolante i rapporti tra Stato e Chiesa, potremmo dire “libera Chiesa e libero Stato”; oppure, citando l’art.7 della nostra Carta costituzionale, “lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. Quali sono i termini concreti in cui si declina tale principio?

Se la Costituzione italiana parla di indipendenza di Stato e Chiesa “ciascuno nel proprio ordine”, certamente non intende affermare che l’ordine in cui la Chiesa è indipendente è quello del diritto privato, o l’intimità delle coscienze: la Costituzione – e più in generale il diritto – non regola le coscienze! Stiamo parlando di soggetti di diritto pubblico, per di più con un profilo di diritto internazionale (lo stesso articolo prosegue con la ricezione dei Patti Lateranensi).

Piuttosto, la Carta costituzionale si richiama alla dottrina della pluralità degli ordinamenti, secondo la quale (contrariamente a quanto sostiene il positivismo giuridico) la sfera del diritto non si esaurisce nell’ordinamento giuridico statale (anche di questo parliamo nell’articolo sull’Attualità del diritto naturale). Esistono altre forme associative capaci di produrre diritto, e potenzialmente meritevoli – quando tale diritto esprima una reale esigenza sociale – di veder riconosciuta la loro autonomia.

La legittimità delle pronunce non coattive delle autorità religiose, anche nella sfera pubblica, si basa non solo sul principio della libertà di espressione (che di per sé sarebbe sufficiente), ma anche sull'esigenza del corpo sociale di attingere ad insostituibili risorse di sapienza nell'individuazione dei valori che garantiscono il pieno sviluppo delle realtà secolari. Risorse che possono essere realmente messe a disposizione se espresse in piena autonomia.

Laicità, infatti, non significa solo autonomia del piano temporale e politico, ma anche autonomia del piano morale e religioso. Ma ciò è possibile solo se lo Stato ha di fronte un’autorità religiosa pienamente libera e pubblicamente riconosciuta.
Le autorità religiose sono pienamente libere - va da sé - se lo Stato non pretende di scegliere arbitrariamente i proprî interlocutori (così come, abbiamo visto, non può scegliere arbitrariamente il catalogo di valori che dovrebbe fondare una "religione civile"). Riconoscere la rilevanza del fenomeno religioso in quanto tale significa ammettere - in via di principio - che si tratti di fenomeno la cui autorità promana dall'Alto. Non è possibile imporre alle Chiese il metodo proprio della politica - il consenso democratico - e, conseguentemente, un modello "congregazionale" (che è stato, ad esempio, l'errore di un padre del pensiero liberale come Locke, per altri versi meritoriamente capace di evidenziare la necessità che l'ordinamento giuridico sia ancorato ad un diritto naturale di matrice divina).

La reciproca autonomia del piano politico e di quello religioso, di Stato e Chiesa, dunque, non può significare (in analogia a quanto detto sinora) separazione assoluta.

I Concordati (per confessioni religiose diverse dalla cattolica, in Italia, si parla di Intese) sono gli strumenti giuridici con cui in molti Paesi i due ordinamenti, Stato e Chiesa, definiscono i rispettivi ambiti. Va da sé che il contenuto dei singoli accordi non è sempre omogeneo e non raggiunge l’optimum. Le parti, naturalmente, debbono esigere il rispetto dei principî che giudicano irrinunciabili: i principî di ordine pubblico e i diritti fondamentali della persona, per lo Stato; le libertà religiose per la Chiesa. Ma, nella definizione di molti dettagli, debbono tener conto della situazione storico-culturale, nonché di considerazioni di realismo politico.

Il sistema concordatario ci sembra uno degli strumenti più concreti ed efficaci per regolare il rapporto tra autorità civili ed autorità religiose. Qualche laicista considera le garanzie riconosciute dall’ordinamento statale a quello ecclesiastico come privilegi, oppure vi vede un cedimento di sovranità, cui dovrebbe corrispondere, da parte della Chiesa, la rinuncia ad ogni intervento anche indiretto nella sfera politica.

Bisogna chiarire, allora, che le garanzie riconosciute alla Chiesa dallo Stato non ledono principî generali dell’ordinamento, ma sono garanzie riconosciute – in via mediata – alla libertà religiosa dei suoi cittadini. Bisogna chiarire altresì che le agevolazioni di carattere economico sono un riconoscimento solo parziale dell’opera di carattere caritativo, sociale ed educativo condotta dalle comunità religiose (e non ci soffermiamo sugli esproprî di beni ecclesiastici che, storicamente, hanno prodotto danni economici ben maggiori).

Ipotizzare che alcuni cittadini (vescovi e sacerdoti), o gruppi di cittadini, debbano veder menomati i propri diritti di cittadinanza (libertà di espressione del pensiero) solo perché usufruiscono di prestazioni pubbliche, equivale a voler privare di questi diritti tutti i cittadini o gruppi di cittadini che ricevono qualsivoglia prestazione: pubblici dipendenti, professionisti a contratto con lo Stato, concessionari di pubblici servizî, imprese o associazioni di volontariato che godono di finanziamenti o agevolazioni fiscali, cittadini che usufruiscono di servizi sociali (casa, pensioni), testate giornalistiche che ottengono sovvenzioni: tutta Italia, insomma!
L’assurdità dell’assunto è palese, e dimentica altresì che le garanzie prestate sono reciproche: anche la Chiesa, per senso di opportunità, ha per esempio garantito che gli ecclesiastici nominati agli uffici di vescovo, abate, parroco siano di regola cittadini italiani.

Il sistema concordatario non comporta il rischio che il rapporto tra piano mondano e piano religioso venga relegato a rapporto tra potere civile ed ecclesiastico, riproponendo passati rischi integralistici?
Questi rischi possono essere esclusi se guardiamo al tenore dei moderni concordati, che non assegnano alle Chiese o alle confessioni religiose i privilegi di Chiese di Stato, ma si fanno innanzitutto garanti dei diritti di libertà individuale (anche religiosa) dei cittadini.
Inoltre, ogni moderna concezione del pluralismo sociale esclude che gli spazi di libertà possano ridursi al rapporto diretto ed esclusivo tra Stato e cittadino. La libertà del cittadino si manifesta anche nelle "formazioni sociali ove svolge la sua personalità" (art. 2 Cost.). Esistono diritti e garanzie da accordare anche alle formazioni sociali (famiglia, comunità locali, comunità educative, associazioni, Chiese) in quanto tali, in funzione della loro rilevanza.

Come si regolano i Paesi in cui non vige il sistema concordatario?

Un esempio spesso citato è quello della Francia, dove il concetto di laïcité (come definito dalle leggi del 1905) è considerato uno dei cardini della Repubblica. Diciamolo chiaramente: la laïcité francese non è altro che un laicismo molto spinto, di matrice giacobina e rivoluzionaria. È possibile definire liberale un sistema che impone ai parroci di comunicare ai prefetti gli orarî delle messe? Un sistema che vieta alla Chiesa di possedere gli edifici di culto, e che inizialmente pretendeva persino di dettare indirettamente alla Chiesa la sua organizzazione interna (stabilendo che la proprietà degli edifici fosse incamerata dallo Stato, e affidata gratuitamente ad “associazioni cultuali” a base democratica, cui doveva essere sottoposto il vescovo)? Jules Ferry, il grande architetto della laicizzazione del sistema scolastico francese, disse: “abbiamo promesso la neutralità religiosa, ma non abbiamo promesso la neutralità filosofica né quella politica”. Non laicità, dunque, intesa come garanzia delle libertà politiche e religiose; ma laicismo, inteso come ideologia antireligiosa imposta dall’alto.
Le leggi del 1905 erano così estremistiche che suscitarono ribellioni popolari e ne fu impossibile un’applicazione letterale. Una gran quantità di interpretazioni giurisprudenziali, modifiche legislative, accordi bilaterali ha modificato alcuni aspetti (tra cui quello della gestione delle chiese, affidata poi ad associazioni diocesane presiedute dal vescovo), e ne ha lasciati inapplicati altri.
In ogni caso, la riuscita infelice del laicismo francese ci sembra che non ne faccia un sistema da imitare. La pensa così anche il neo-presidente francese, Nicolas Sarkozy, che ha dedicato un  libro proprio al tema di una rinnovata laicità, aperta alle religioni.

Un altro modello senza concordati è quello dei Paesi nordici, nei quali (eredità del “cuius regio, eius religio”) si hanno le Chiese di Stato; con i pastori retribuiti quali funzionari pubblici, che avanzano rivendicazioni sindacali come il… riposo domenicale! (Cioè proprio il giorno in cui dovrebbero “lavorare”: è accaduto davvero, in Danimarca). Neanche questo ci sembra un modello di laicità.

Infine, c’è il modello degli Stati Uniti d’America, che, pur senza concordati, sono ugualmente riusciti a garantire efficacemente pluralismo e libertà religiosa.
Come ricordavamo in precedenza, gli Stati Uniti sono il Paese della religious freedom, più che della "laicità". La netta separazione istituzionale tra Stato e autorità religiose non ha significato negazione di un ruolo pubblico della fede. Il desiderio di costruire uno Stato in cui ognuno potesse professare liberamente la propria fede religiosa, del resto, è stata la molla che ha spinto i “Padri pellegrini” ad attraversare l’oceano.

Il Primo Emendamento alla Costituzione U.S.A. contiene la “not establishment clause”, il divieto di riconoscimento ufficiale di una religione, proprio al fine di consentire l'effettività della “free exercise clause” (contenuta nell'Emendamento stesso), che garantisce il libero culto e vuole consentire l'accesso paritario di tutte le confessioni nella sfera pubblica (la giurisprudenza della Corte Suprema, in verità, ha realizzato un bilanciamento tra i due principi che nel tempo è risultato ondivago).
Il fatto è che, nella visione laicista francese, il muro che separa il potere politico da quello religioso vuole riservare al primo il campo della sfera pubblica, e confinare il secondo nella sfera privata. Nella visione della religious freedom, invece, questo muro corre nello spazio pubblico, e separa - distingue - poteri (politico, religioso, ma anche scientifico, economico, ecc.) che hanno tutti una dimensione pubblica.
La religione conserva negli Stati Uniti un forte valore simbolico: il Thanksgiving Day (Giorno del Ringraziamento a Dio per rievocare il felice approdo dei Padri fondatori nel Nuovo Mondo) è la festa più sentita dagli Americani; la Dichiarazione di indipendenza si richiama alla “legge naturale e divina” e ai diritti inalienabili di cui gli uomini sono stati dotati dal loro Creatore; dal 1956 “In God We Trust” ("Confidiamo in Dio") è il motto ufficiale della nazione; ogni Presidente ha sempre invocato la protezione di Dio sul suo mandato (ed anche il neo-presidente Obama ha evidenziato, in maniera più esplicita di quanto fosse abituale nella cultura liberal, l'esigenza di un rapporto tra religione e politica).
Le religioni hanno negli USA anche una forte tutela legale: l’interpretazione consolidata del Primo emendamento, in merito all'incostituzionalità di leggi che limitino in qualsiasi modo l’esercizio del culto, comprende ogni forma di imposizione fiscale. Per cui negli Stati Uniti tutte le attività economiche condotte da confessioni religiose e le donazioni ad esse dirette sono esenti da tasse. Le loro attività caritative, poi, sono finanziate dal Governo federale e da quelli nazionali…

Concludendo. Per garantire un’autentica laicità (non un laicismo autoritario) e una piena libertà religiosa, il modello liberale statunitense potrebbe teoricamente costituire un’alternativa a quello concordatario. Anche se quest’ultimo, in ogni caso, ci sembra il più appropriato alla tradizione europea ed italiana.



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