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Temi caldi - Eutanasia
Il vero volto dell’eutanasia Stampa E-mail
Gesto pietoso o abbandono del malato? Le spinte psicologiche, culturali ed economiche
      Scritto da Giovanni Martino
29/12/08
Ultimo Aggiornamento: 30/12/10

Il desiderio di morire è figlio dell'abbandonoIl dibattito sull’eutanasia è inquinato da una serie di luoghi comuni e ipocrisie, che bisognerebbe sfatare.

Innanzitutto, conviene capire di che cosa stiamo parlando, perché gli equivoci sulle parole, se sono sulla pelle delle persone, sono alquanto pericolosi... Troppo spesso si cerca di far accettare l’eutanasia spacciandola per qualcosa di diverso da quello che è in realtà.

Cos’è dunque l’eutanasia, la “dolce morte”? È un gesto pietoso o un irresponsabile abbandono del malato?

Eutanasia significa provocare intenzionalmente la morte di una persona malata. Significa cioè eseguire un’azione nociva per il fisico, la quale abbia lo scopo preciso e diretto di provocare la morte, e che solitamente consiste in un comportamento attivo (c.d. eutanasia attiva): un’iniezione letale, ma anche soffocamento, avvelenamento, ecc. L’azione che ha lo scopo preciso e diretto di provocare la morte può però essere anche un comportamento omissivo (c.d. eutanasia passiva), come l’interruzione al paziente dell’alimentazione o dell’idratazione o di cure necessarie.

Non è un semplice suicidio, perché interviene la collaborazione di una terza persona.

In una prima ipotesi, questa persona "aiuta" nella pratica eutanasica il malato “incurabile” che la richiede, di solito a motivo di gravi sofferenze. I sostenitori dell'eutanasia parlano, in questi casi, di eutanasia "volontaria".

O addirittura, in una seconda ipotesi, la terza persona si sostituisce alla decisione del malato, se questo non è in grado di esprimere chiaramente la sua volontà.


L'eutanasia "volontaria" non esprime la vera volontà del malato

Anche nella prima ipotesi descritta, quando cioè si è di fronte all'esplicita richiesta di un malato incurabile, bisogna sottolineare che la morte non è l’unica via d’uscita nei casi in cui la sofferenza appaia insopportabile.

Il problema emerge piuttosto quando la sofferenza non è adeguatamente affrontata, quando il malato è lasciato solo o viene indotto a sentirsi come un peso per gli altri. Una ricerca condotta nello stato di New York nel 1994, spiega che “come gli altri suicidi, i pazienti che desiderano il suicidio o una morte anticipata durante una malattia terminale soffrono solitamente di una patologia depressiva, che può essere trattata”  (New York State Task Force on Life and the Law, When Death is Sought: Assisted Suicide and Euthanasia in the Medical Context, Albany (New York) 1994, pp. 12-13). Quasi sempre la richiesta di eutanasia è in realtà una richiesta di aiuto, un ultimo disperato  modo per attirare l'attenzione. Insomma: il malato che soffre ha bisogno innanzitutto di provare l’affetto delle persone care, dovrebbe essere sostenuto psicologicamente e moralmente. Di sostegno psicologico, probabilmente, hanno bisogno anche quei familiari che si ritraggono di fronte alla sofferenza di una persona cara, non riuscendo a gestirla e non capendone più il senso. Se non li sorregge la fede.

Laddove l’eutanasia fosse accolta come possibile, ne conseguirebbe un indebolimento dello sforzo teso a ridurre la sofferenza, ad esempio mediante lo sviluppo delle cure "palliative" (antidolorifiche). Il rischio di indebolire gli sforzi in favore del malato è alto soprattutto per i gruppi socialmente ed economicamente più deboli, per i quali il ricorso all’eutanasia diventerebbe la soluzione più “ovvia” ed economica: un altro studio americano del 1994 ha documentato che la richiesta di eutanasia era maggiore tra i malati di cancro appartenenti a minoranze etniche, poiché questi avevano possibilità tre volte minori - rispetto agli altri pazienti - di ricevere terapie della sofferenza adeguate (Charles S. Cleeland et al., Pain and its Treatment in Outpatients with Metastic Cancer, in The New England Journal of Medicine, vol. 330 (9), marzo 1994, pp. 592-596. Il campione totale dello studio fu costituito da 1308 pazienti). Jacques Attali, già “consigliere speciale” del presidente francese François Mitterrand, ha scritto nel suo L’avenir de la vie: “Quando si sorpassano i 60-65 anni, l’uomo vive più a lungo di quanto non produca e costa caro alla società… L’eutanasia sarà uno degli strumenti essenziali delle società future… Macchine per sopprimere permetteranno di eliminare la vita allorché essa sarà insopportabile o economicamente troppo costosa”. In Italia, il dottor Ivan Villa ha lanciato un allarme: “I rimborsi regionali per questo tipo di malati sono sempre modesti, non sono remunerativi, e molti ospedali tendono a liberarsene” (Corriere della Sera del 18-12-2004).

Questi dati ci segnalano che la lesione di un diritto individuale, quello alla vita, finisce inevitabilmente per avere risvolti sociali devastanti.

Inoltre, la pubblicizzazione di casi di "atroci sofferenze" come "casi umani", che avrebbero nella soppressione volontaria della vita l'unica soluzione "ragionevole e pietosa", si rivela una speculazione artificiosa effettuata per i propri fini dai fautori del'eutanasia. Infatti, se si va a ben guardare, si tratta in genere di casi che non riguardano l'eutanasia: o perché si può intervenire efficacemente a lenire il dolore o a garantire maggiore assistenza e sostegno psicologico; oppure perché si tratta semplicemente di accanimento terapeutico (il cui esatto significato chiariremo più avanti), che può essere interrotto senza che ciò significhi uccidere intenzionalmente una persona.
Perché, dunque, alcuni creano volontariamente confusione, invocando l'eutanasia quando non è la soluzione di un problema? Quali interessi - oltre quelli economici che abbiamo appena descritti - spingono con tanta insistenza verso questo obiettivo? Per capirlo, dobbiamo affrontare qualche ulteriore chiarimento.


L'eutanasia non è un "diritto"

I promotori dell’eutanasia utilizzano a volte un'altro tipo di argomentazione, sostenendo che, anche senza scendere nel merito di quando sia 'opportuno' richiederla, la rinuncia spontanea alla propria vita è espressione di un diritto insindacabile dell’individuo. Negare tale possibilità significherebbe consentire allo Stato, o alla religione, un’inammissibile ingerenza. Questo ragionamento parte da presupposti discutibili: trasforma il diritto a vivere in diritto a morire (e non è proprio la stessa cosa...); considera il diritto alla vita come un diritto disponibile.

Chi è contro l’eutanasia sostiene, invece, che vietarla non costituisce un’ingerenza dello Stato nella sfera di libertà del singolo, ma l’esatto contrario: una protezione di tale sfera di libertà. Il diritto alla vita è infatti un diritto indisponibile. Non può essere ritenuta davvero libera una 'scelta' come la richiesta dell'eutanasia, visto che:
a) è senza ritorno, comporta una menomazione gravissima ed irrimediabile (similmente, potremmo definire "libera" la richiesta di una donna africana di mutilare i propri genitali, in ossequio alla tradizione? Un medico dovrebbe soddisfarla?);
b) comporta la rinuncia ad ogni libertà futura;
c)
 è fatta in condizioni di paura e debolezza; oppure, se fatta in anticipo  - c.d. "testamento biologico" -, potrebbe non essere revocabile, formulata in termini ambigui (nell'impossibilità di prevedere la situazione che si verificherà) e poco consapevoli: chi può sapere come comportarsi in una situazione che non ha mai sperimentato? Si sono verificati, infatti, casi di clamorosi ripensamenti (resi possibili solo per circostanze fortuite).

(Per inciso: è fuori luogo il paragone con l’eroe o il martire, che dispone della propria vita a favore degli altri: in questi casi, infatti, si tratta dell’accettazione di un sacrificio subìto, violento, al quale non si dà consenso pieno, ma che sino all’ultimo si sarebbe volentieri evitato).

La volontà del paziente viene invocata da alcuni per ricordare come non siano leciti i trattamenti sanitari obbligatori.
Bisogna aver ben chiaro, però, che questo giusto principio nasce dall'esigenza di evitare tutte quelle cure che violino la dignità della persona, e può essere di sostegno anche nella decisione di rinunciare all'accanimento terapeutico (di cui parleremo oltre). 
Ma non lo si può invocare per legittimare l'eutanasia passiva: non si può chiedere ad un medico di omettere la pratica delle cure minime vitali, venendo meno al proprio dovere professionale e rendendosi complice di un omicidio.
Soprattutto quando la volontà del paziente non è chiara ed attuale, come in alcune proposte di cosiddetto "testamento biologico".

Sotto il profilo giuridico, conviene ricordare che, nel nostro ordinamento, l'art. 5 cod. civ., in tema di atti dispositivi del proprio corpo, e gli artt. 575, 576, 577, 579, 580 cod. pen., in tema di omicidio, esplicitano un principio ispiratore di fondo che è quello della indisponibilità del bene della vita (tutelato dall'art. 2 della Costituzione, gerarchicamente preminente rispetto all'art. 32). 

La vita umana, dunque, deve fare il suo corso naturale, senza accelerarne la fine (con l’eutanasia) o prolungarne artificialmente il tramonto (con l’accanimento terapeutico).

Quest'analisi chiarisce - ci sembra - un altro equivoco: chi contrasta l’eutanasia non sostiene una posizione religiosa, non difende la vita solo quale dono di Dio 1. I cristiani e i non cristiani impegnati su questo fronte difendono il diritto naturale e laicissimo alla vita, fondamento di ogni consesso civile. Per cui le decisioni in materia di eutanasia non possono essere oggetto di scelte private: la libertà e la vita devono essere difese dalla legge.

I sostenitori dell'eutanasia usano a volte un artificio logico, sostenendo che chi vuole vivere può farlo, mentre a chi vuole morire è negata uguale libertà.
Si tratta di un vero capovolgimento della realtà.
Chi vuole vivere, benché giuridicamente legittimato a farlo (meno male!), è in realtà abbandonato a se stesso, in una società che rifiuta di esercitare concretamente i doveri di solidarietà: le cure costano, l'assistenza è impegnativa... Con la stessa logica di disimpegno, si arriva a chiedere che la società garantisca formalmente ai malati la "libertà" di... togliere il disturbo!


Nessuno può disporre della vita altrui

Poiché il malato deve essere “assistito” nella sua drastica decisione da chi lo aiuta a morire, la disponibilità del diritto diventa anche delega (una distinzione un po' farisaica parla di "suicidio assistito", anziché di eutanasia, quando il medico si 'limita' (?) a fornire i medicinali fatali, le istruzioni su come assumerli, e a presenziare nel momento finale).

Il concetto di delega del diritto alla vita apre ulteriori problemi nella seconda ipotesi "tipica" in cui viene invocata l'eutanasia: quella dei malati non coscienti, che si trovano in coma profondo o nel cosiddetto SVP (stato vegetativo persistente; parliamo di "cosiddetto" stato vegetativo persistente perché tale definizione, benché ancora usata con frequenza, è molto discutibile sia dal punto di vista etico sia da quello medico-scientifico), i quali malati non possono chiedere l’eutanasia né ritirare una richiesta eventualmente fatta in precedenza. In questi casi - in cui l'eutanasia non può essere considerata "volontaria" nemmeno nominalmente - la delega a disporre della propria vita si dovrebbe presumere, sulla base di criterî rimessi all'arbitrio di persone "interessate", o allo Stato, che si fa giudice della vita e della morte, travalicando - in questo caso davvero - i suoi compiti. Non si legittima più una semplice assistenza al suicidio, ma un vero e proprio omicidio.

A volte - non si capisce se per semplice ignoranza o con l'intento di confondere le acque - chi difende l'eutanasia sostiene che "staccare la spina" ai malati in coma, perfino sospendere alimentazione e idratazione di quelli in SVP, sia semplicemente un modo per non cadere nel cosiddetto "accanimento terapeutico".

Allora bisogna chiarire che il cosiddetto “accanimento terapeutico”  consiste in cure mediche complesse e inefficaci, con pesanti effetti collaterali, utili solo a prolungare artificiosamente l’agonia di un malato terminale; interrompere tali cure, se non c’è speranza di guarigione, significa solo accettare la possibilità indiretta che possa sopravvenire una morte naturale. La rinuncia all'accanimento terapeutico è generalmente considerata una scelta ammissibile e rispettosa della dignità della persona che si avvia ad una morte naturale.

La rinuncia all'accanimento terapeutico è però cosa ben diversa dall'eutanasia, anche passiva, la quale ha lo scopo preciso e diretto di provocare la morte.

Il rifiuto dell'accanimento terapeutico, insomma, non può sconfinare in forme di eutanasia mascherata come l' "abbandono terapeutico", cioè la negazione al paziente del necessario sostegno vitale. Alimentazione e idratazione, infatti, non possono certamente essere considerate atti medici di accanimento, neanche quando è necessaria l’assistenza di altre persone: ne hanno bisogno anche il neonato e la maggior parte dei malati! Alimentazione e idratazione - così come le terapie mediche essenziali: disinfettare una ferita, somministrare un antibiotico, ecc. - sono piuttosto forme di assistenza di base, come ricordato anche dal Comitato nazionale di bioetica nel Documento del 30 settembre 2005; sospenderle significa procurare morte volontaria, praticare l'eutanasia (anche se la si vuole chiamare "passiva"), che è dunque - lo ripetiamo - cosa ben diversa dalla rinuncia all'accanimento terapeutico.
Il tentativo di introdurre forme di eutanasia passiva spacciandole per pietosa riunucia all'accanimento terapeutico è un'impostura.

Torniamo al nodo sulla delega a disporre della vita, che bisogna presumere per i malati non coscienti: chi può decidere quale vita non è più degna di essere vissuta? I parenti che debbono ereditare? I medici pressati perché prelevino organi da trapiantare? Siamo sicuri che non sia più vita degna quella di un paziente in coma giudicato “irreversibile” o in stato di “morte corticale”? Quanti casi Crisafulli (malati in coma considerato irreversibile o in stato vegetativo considerato persistente che si risvegliano) esistono? Quanto potere vogliamo assegnare alle nostre attuali (e sempre in via di correzione) conoscenze scientifiche?

Quando si abbattono i paletti dell'intangibilità della vita, si ricade inevitabilmente nei deliri eugenetici che la cultura della morte ha già fatto conoscere.

Il fatto è che l’eutanasia non nasce dall’esigenza di tutelare singoli "casi disperati" (malati in preda ad atroci sofferenze), invocati più che altro come specchietto per le allodole per far accettare tale pratica. Si tratta della cosiddetta “tecnica del salame”: si invoca l’eccezione al principio, quindi la moltiplicazione delle eccezioni, fino a far sparire – fetta dopo fetta – tutto il principio. Allora riaffermiamolo, questo principio: se la vita è indisponibile, non può mai esserci il rischio che qualcuno si arroghi l’autorità di disporre - nemmeno sulla base di una presunta richiesta - della vita di altri. Altrimenti nessuno di noi sarebbe al sicuro: per garantire un presunto diritto a morire, si metterebbe a rischio il diritto a vivere.


Il degrado sociale cui conduce la cultura dell'eutanasia

Purtroppo si stanno già diffondendo nel mondo casi in cui non solo l’eutanasia viene ammessa, ma le sue maglie si allargano, andando oltre le condizioni classiche poste dai sostenitori (malattia terminale, consenso pieno del malato); a dimostrazione che l'invocazione dei "casi disperati" finisce per essere solo un primo passo.

L'Olanda è Paese drammaticamente all’ “avanguardia” in questo settore. E' stato il primo - nel 2002 - a legalizzarla ufficialmente: il tempo già consente di farne un primo bilancio, che sembra confermare le preoccupazioni degli oppositori. Un caso non infrequente: è stata autorizzata da una giuria la richiesta di essere aiutato a morire da parte del senatore Edward Brogersma, ottantaseienne non indigente, non gravemente malato, ma semplicemente stufo degli acciacchi, della solitudine e dei limiti imposti dalla tarda età. Di recente lo stesso parlamento olandese ha approvato una nuova, inquietante estensione della legge, che concede ai genitori il diritto di stabilire se una malattia dei figli debba ritenersi incurabile, autorizzando l’eutanasia!
In Svizzera, nel Canton Ticino, le associazioni a favore dell’eutanasia sono state autorizzate a fornire la loro assistenza anche a
depressi gravi, ansiosi o fobici sociali, purché… ne sia accertata la piena capacità di intendere e di volere (!).
In America è del 2005 il caso della povera Terri Schindler Schiavo: vissuta per quindici anni in stato ritenuto vegetativo, rispondendo agli stimoli esterni, sorridendo ai genitori che l'accudivano, è stata fatta morire di sete e di fame a seguito della decisione di un giudice che – in assenza di leggi specifiche - ha autorizzato la richiesta dell'ex marito (contro il parere dei genitori) di staccare il tubo dell’alimentazione.
(In Italia è del 2009 un caso pressoché identico, quello di Eluana Englaro: uccisa con la privazione di nutrimento e idratazione, grazie a pronunce di tribunale che volevano colmare un presunto vuoto legislativo (mentre in realtà contrastavano con l'ordinamento vigente). E usata come caso politico-culturale per tentare l'introduzione dell'eutanasia nel nostro Paese.)

Non mancano altri esempi di una deriva pericolosa: è forse inutile la vita dell’anziano, come sembrano ritenere quei sistemi sanitari del nord-Europa che negano le cure più costose ai pazienti che hanno un’aspettativa di vita ridotta? È giusto che ‑ accade anche in Italia ‑ le liste d’attesa dei trapianti siano fatte sulla base delle “aspettative” e della “qualità” della vita?

Ricordavamo inizialmente che l’eutanasia non è solo un problema individuale, ma ha anche drammatici risvolti sociali. E ci chiedevamo quali siano le motivazioni di fondo che animano molti tra coloro che la sostengono: perché si arriva a invocare l'eutanasia per casi che in realtà non hanno nulla a che fare con le motivazioni ufficialmente proclamate?
Oltre agli interessi economici che abbiamo tristemente descritto, entra in gioco 
‑ come per il sostegno alla droga libera ‑ il desiderio, più o meno cosciente, di disfarsi della fatica di assistere chi soffre. Non è dunque una forma di aiuto, ma di rifiuto e di discriminazione: abbiamo già visto che colpisce in primo luogo i gruppi più deboli. È l’espressione di una preoccupante cultura della morte che avanza, anche con connotati di utilitarismo economico. Chi insegue un modello fondato solo su una “qualità” della vita astratta, plastificata, finisce per fuggire dalla vita vera, con le sue gioie ed anche le sue sofferenze, rifugiandosi nell’anoressia, nella droga, nell’eutanasia. La malattia, la sofferenza, diventano "colpe" sociali; il messaggio che si lancia al malato è: "perché ti ostini a vivere?"

Naturalmente, non è che chiunque sostenga l’eutanasia sia portatore consapevole di un progetto culturale di questo tipo. Ma anche solo assecondare questa cultura può diventare un modo per lasciare sole le persone che si trovano ad affrontare il dramma di una malattia.


Riferimenti bibliografici

Eutanasia: sofferenza e dignità al crepuscolo della vita
AA.VV., Milano 2005, ed. Ares
Una raccolta di saggi che affronta i diversi aspetti della questione in un'ottica non confessionale

_____________

[1] Peraltro, la posizione della Chiesa sul tema dell'eutanasia è quanto mai ferma.
Giovanni Paolo II con l'Evangelium vitae approfondisce in dettaglio tutti gli aspetti del problema, dichiarando solennemente: "In conformità con il Magistero dei miei Predecessori e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale" (EV 62: uno dei rarissimi casi in cui un Papa si pronuncia con i crismi dell'infallibilità).



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