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Temi caldi - Famiglia
Il ruolo sociale della famiglia Stampa E-mail
Le funzioni di utilitą sociale che la rendono meritevole di particolari tutele
      Scritto da Giovanni Martino
05/03/07
Ultimo Aggiornamento: 25/03/13

famiglia_felice3.jpgChi parla di difesa o promozione della famiglia vuole forse imporre un’ideologia, una morale, una fede, un modello? Oppure si preoccupa del bene comune e della stabilità sociale?

Da uno sguardo attento e privo di pregiudizi emerge la grande importanza della famiglia per la società tutta. Anzi: un’analisi seria ci fa capire che la famiglia è la questione principale da cui dipende la stabilità sociale. Una questione da affrontare con urgenza, perché ricostruire un tessuto sociale e culturale compromesso è un compito che richiede decenni...

Senza questa consapevolezza, diventerà tragicamente attuale l’ammonimento di Charles Péguy: “l’umanità è un bambino che corre cantando verso il precipizio”.

La famiglia esercita numerose funzioni di utilità sociale. Proprio queste funzioni la rendono meritevole delle particolari tutele che l’ordinamento giuridico le accorda. Si tratta di funzioni che nel linguaggio economico vengono definite esternalità positive: cioè ricadute benefiche esterne al sistema che le produce, non misurabili con meccanismi di prezzo, poiché non è individuabile l’uso che ne fanno le singole persone (altri esempi sono le strade, la difesa nazionale, la protezione civile, la pubblica sicurezza, ecc.). Il mercato, perciò, non può remunerare le esternalità, e non riesce ad incentivarne la produzione. Spetta alla società nel suo complesso, alla politica (con le tutele giuridiche e con particolari politiche familiari: ricorso alla fiscalità generale, con incentivi appositi, con leggi, ecc.) garantire la produzione di esternalità positive (e disincentivare la produzione di esternalità negative: inquinamento, tassi di risparmio troppo bassi, disgregazione del tessuto familiare, ecc.).

Quali sono, dunque, le funzioni di utilità sociale esercitate dalla famiglia?

a) Innanzitutto, la famiglia è la realtà grazie alla quale la società realizza la propria continuità. Pensiamo che nessun essere vivente o corpo sociale possa porsi l’obiettivo di estinguersi; ed anche ammesso che vi sia qualcuno tanto cinico da guardare con indifferenza al collasso di nazioni o sistemi socioculturali, dovrebbe meditare sul fatto che non si tratterebbe di una dolce eutanasia, ma di un’esplosione di dilanianti conflitti sociali.

La famiglia è il luogo della procreazione e dell’educazione umana; il luogo dove non solo viene data la vita a nuovi esseri umani, ma anche dove questi vengono cresciuti affinché divengano persone equilibrate e cittadini responsabili. I figli sono la più importante esternalità positiva della famiglia. Nei riguardi dei figli è necessario un impegno affettivo ed educativo intensissimo; un impegno, bisogna aggiungere, a lungo termine. Qualcuno potrà rilevare che non sempre questo impegno è esercitato in maniera adeguata; ma ciò non autorizza a negare che l’istituto familiare sia la sede naturale (salvo indesiderabili disgrazie) in cui è possibile la migliore crescita umana. Sarebbe come concludere che, poiché la medicina a volte commette errori, tanto vale non curarsi!

Per crescere e sviluppare correttamente tutti gli aspetti della propria personalità, per acquisire la necessaria autostima, un bambino non ha solo “bisogno di amore” (espressione generica e superficiale), ma di una famiglia vera e propria, la famiglia tradizionale, la sola in grado di esercitare efficacemente le funzioni sociali che andiamo descrivendo.

b) La famiglia è il luogo dove, oltre ad acquisire un equilibrio affettivo, sviluppiamo qualità importanti per la vita sociale (ancor meglio in presenza di fratelli: come continuare a invocare il valore della "fratellanza" di fronte a figli unici che non ne hanno fatto esperienza?) : apprendiamo che nella vita sono importanti collaborazione e solidarietà, sviluppiamo le capacità relazionali; ed infine - non sembri sdolcinato - impariamo ad amare. I Romani definivano la famiglia “seminarium rei publicae”, vale a dire “vivaio” di cittadini responsabili.
L’istituzione familiare era tenuta in grande considerazione, come luogo che educa all’equilibrio tra i diritti e i doveri, anche dalla cultura "laica" (e a tratti anticlericale) più tradizionale, la quale - ad esempio - era contraria al divorzio. Erano consapevoli di questo ruolo del nucleo familiare, sia pure in chiave critica, quegli stessi “sessantottini” che contestavano la famiglia, credendo possibile e sensata una società di soli diritti. Se però abbiamo la consapevolezza che i diritti esistono solo se vi corrispondono i doveri, sappiamo che questo compito può essere realizzato in maniera liberale (senza ricorrere allo Stato moralizzatore) solo dalle famiglie.
La democrazia, d’altronde, non è un sistema che garantisce automaticamente libertà e giustizia; è un meccanismo delicato, che funziona solo se ha la ‘benzina’ giusta: una diffusa presenza di cultura e virtù civiche. Il rapporto su Il collasso della famiglia in Inghilterra, pubblicato nel 2006 dal Social Justice Policy Group, attesta come nei Paesi occidentali il degrado sociale sia diretta conseguenza del degrado della famiglia tradizionale.

c) La famiglia esercita un compito preziosissimo nel cosiddetto “lavoro di cura”: assistenza ai malati, agli anziani, ai bambini. Un compito che non solo è svolto in maniera molto più economica di quanto possa fare lo Stato (si pensi che un posto letto di lungodegenza o riabilitazione costa circa 300 euro al giorno), ma è caratterizzato dall’insostituibile attenzione e carica affettiva portata da un familiare.

d) La presenza di figli aiuta le persone a progettare il futuro, permette di realizzare quella solidarietà tra generazioni che impedisca lo sfruttamento sconsiderato di risorse naturali, l'accumularsi di debito pubblico, ecc.

e) La famiglia assolve anche numerosi compiti economici, rivelandosi in molti casi un insostituibile “ammortizzatore sociale”, capace di colmare i vuoti del mercato:
- integrazione e redistribuzione dei redditi; assorbimento dei periodi di disoccupazione di suoi componenti;
- possibilità per i giovani e le donne di determinare in maniera elastica e fluttuante il proprio impegno lavorativo;
- gestione comune dei risparmi e degli investimenti; aumento della propensione media al risparmio (per la necessità dei genitori di pensare all’avvenire dei proprî figli);
- capacità di produrre economie di scala legate alla crescita della dimensione familiare, in grado di aumentare il benessere sociale a parità di reddito prodotto. Negli ultimi venti anni il tenore di vita non è aumentato in maniera rilevante, nonostante il notevole aumento del reddito pro capite, a causa del calo della dimensione media della famiglia. Specularmente, la rottura di un vincolo familiare ha altissimi costi sociali, che negli USA sono stati calcolati tra i 50 e i 100 mila dollari.

Ricordiamo, infine, che lo sviluppo economico di un Paese si basa sulla qualità del lavoro (“capitale umano”) e sul capitale industriale: entrambe queste realtà sono fortemente influenzate dalle famiglie.
Il capitale umano dipende, come visto, dall’attenzione che i genitori dedicano ai figli (ma anche dal numero di giovani capaci che un sistema-Paese riesce ad esprimere). Molti Paesi in cui vige l’economia di mercato restano poveri, finché non si sviluppa un ceto di operatori economici intraprendenti, responsabili, onesti, affidabili, disposti al sacrificio e al risparmio: un insieme di “virtù economiche” che richiedono un cura lunga e paziente quale solo la famiglia riesce a prestare. Nei Paesi più avanzati, secondo alcune stime, il capitale umano compone l’80% della ricchezza.
Quanto al capitale industriale, esso, come si sa, è finanziato dai risparmi delle famiglie.

f) Oltre alla qualità dell’educazione dei figli, è importante anche l’aspetto del loro numero: c’è bisogno di famiglie numerose. Non si tratta, come potrebbe pensare qualche polemista superficiale e disinformato, di tornare a logiche per cui “il numero è forza”. Si tratta, lo abbiamo appena detto, della necessità di potenziare il capitale umano, compensando i casi di scarsa propensione alla procreazione (persone che scelgono o non possono avere figli).
Facendo pochi figli le famiglie producono un’esternalità negativa, innescando le gravi conseguenze di un calo demografico.


Famiglie e calo demografico

Bisogna ricordare, infatti, che la paura della "bomba" demografica (amplificata per decenni da esponenti di ideologie antiumaniste) ha perso ormai ogni fondamento. La curva di accrescimento della popolazione tende verso la stabilizzazione anche nei Paesi in via di sviluppo, mentre in quelli più avanzati è ormai diventata una curva di decremento. 

Il problema del calo demografico, presente in tutta Europa, è drammatico in Italia, dove il tasso di fecondità medio era, nel 2008, di 1,4 figli per coppia: in lieve risalita (anche grazie alla fecondità delle donne immigrate) rispetto agli anni precedenti, ma largamente inferiore alla cifra (2,1) necessaria per garantire almeno l’equilibrio demografico (anche se non la costanza della struttura per età, che - nella situazione attuale - continuerebbe a peggiorare).
Anche Paesi come Irlanda, Francia, Gran Bretagna, Svezia, Finlandia fanno molto meglio di noi, attestandosi sui 2 figli per coppia (pur sempre inferiore, però, al minimo di 2,1).

Abbiamo visto che il calo della dimensione media della famiglia produce anche un calo del tenore di vita. Dal punto di vista della crescita economica, poi, chi lo desidera può facilmente rilevare, confrontando tassi di sviluppo e d’incremento demografico delle diverse nazioni, che alla stagnazione demografica si accompagna la stagnazione economica, sostenibile solo finché non si bruciano completamente le risorse accumulate nei decenni di sviluppo. Il problema di alcuni Paesi - essenzialmente quelli africani più arretrati - non è la sovrappopolazione (la densità è molto inferiore a quella europea), ma solo lo sfasamento tra tasso d’incremento demografico e tasso di sviluppo, all’interno di un sistema culturale e produttivo troppo arretrato per valorizzare in pieno le risorse umane.

Qualche numero eloquente: in Italia, nel 2000, le persone in età produttiva erano il 61,7% della popolazione. Tale percentuale scenderà al 55% nel 2025 e al 46,2% nel 2050...

Possiamo aggiungere, a sostegno dell’urgenza di una ripresa demografica, che l’invecchiamento della popolazione diminuisce l’attitudine al rischio imprenditoriale, che è propria dei giovani. Inoltre, gli imprenditori investono oltre il loro orizzonte di vita se sanno di avere eredi in grado di proseguirne l'opera.

La distorsione più evidente è quella che investirà il sistema di protezione sociale (pensionistica e sanitaria): su pochi giovani in età lavorativa graverà il peso di numerosi anziani.
Le riforme pensionistiche sin qui approvate, pur importanti per garantire la pensione a tutti (cosa che non era possibile con età pensionabili troppo basse o calcoli delle pensioni secondo il sistema a ripartizione), non sono purtroppo sufficienti a garantire stabilità sociale.
I giovani che già sono entrati nel sistema a “capitalizzazione” dovranno versare ancora a lungo, oltre ai contributi per la propria pensione (che sarà di importo esiguo), i soldi per pagare le pensioni già erogate, ed anche per sostenere i servizi sociali (assistenza, sanità) necessarî ad una popolazione sempre più anziana.

Né sembra facile pensare di aggirare il problema dando impulso all’immigrazione, soluzione semplicistica da molti immaginata. 
Molti immigrati lavorano in nero, e quelli in regola esercitano attività scarsamente remunerative, versando di conseguenza contributi esigui; si porrà anzi il problema del loro trattamento pensionistico. Quand’anche si arrivasse ad una generazione di giovani lavoratori immigrati che abbia acquisito un importante peso politico e sociale, non è da trascurare il fatto che essi, probabilmente, si lamenteranno di essere “sfruttati” se si chiederà loro di “mantenere” gli italiani anziani.

Inoltre, molte delle esigenze di stabilità sociale che abbiamo descritte sono legate non alla semplice presenza di "giovani" (immigrati o meno), ma a quella di "figli": sono i figli che possono garantire la cura domestica dei genitori; sono i figli che possono stimolare nei genitori quel "di più" di senso di responsabilità per un utilizzo equilibrato delle risorse ("che mondo lascerò ai miei figli?"); sono i figli che inducono a creare attività imprenditoriali di ampio respiro; e così via. 

La gravità dei fenomeni connessi al calo demografico può essere attenuata solo, in prospettiva, da una veloce ripresa demografica imperniata sulla procreazione nelle famiglie.


Alcune delle funzioni sociali che abbiamo descritto sono esercitate dalla famiglia in maniera più efficiente di quanto saprebbe fare un organo pubblico. Molte altre sono funzioni assolutamente uniche ed infungibili.

Insomma, i motivi per difendere la struttura della famiglia – da un lato – e per sostenerla nelle sue funzioni – dall’altro – ci sembra che non manchino, e non hanno nulla a che vedere con imposizioni religiose o morali. 

Disconoscere queste esigenze sarebbe, su un piano generale, semplicemente un suicidio sociale.

Dal punto di vista individuale, poi, non si può parlare di "discriminazione" verso chi non gode delle stesse tutele riconosciute ai componenti della famiglia. Una reale "discriminazione" contro la famiglia, il riconoscimento di un privilegio, l'imposizione di un'etica antifamiliare di Stato, si avrebbero piuttosto se tali tutele fossero estese a chi non si assume corrispondenti doveri e non esercita funzioni di utilità sociale.


(quest’articolo è una stesura riveduta ed ampliata di parte del documento predisposto per il meeting di Vallombrosa del 26-28 giugno 1998)



Giudizio Utente: / 48

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