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Libri - Recensioni e Profili
"Dieci anni di illusioni. Storia del Sessantotto" Stampa E-mail
Gli anni della contestazione, l’eredità ai giorni nostri.
      Scritto da Giovanni Martino
02/06/08

Michele Brambilla
Dieci anni di illusioni. Storia del Sessantotto
ed. Rizzoli, Milano 1994

Sono passati quarant’anni dal maggio del 1968: il “maggio francese”, i giorni degli scontri di piazza a Parigi divenuti emblema della ribellione giovanile di quegli anni. Una ribellione che nei principali Paesi europei (Italia compresa) era iniziata alcuni mesi prima; e negli Stati Uniti (da cui spesso nascono le tendenze che segnano le nostre società) già da qualche anno.

Che cosa è stato il “Sessantotto”? Si è trattato davvero di un evento che ha cambiato il volto delle nostre società?

Molti libri sono stati scritti su quegli anni. Alcuni, di romantica esaltazione, ritraggono quel periodo nella prospettiva ideologica di chi ne è stato protagonista (emblematico Formidabili quegli anni, di Mario Capanna). Altri libri (negli ultimi anni) hanno un’impronta più critica, e più aderente alla realtà.

La ricostruzione a nostro avviso più interessante, e che meglio permette di comprendere cosa è effettivamente accaduto, è offerta da Michele Brambilla in un volume rigoroso e documentatissimo, che ricrea tangibilmente l’atmosfera di un’epoca. La recensione di questo libro è anche l'occasione che vogliamo cogliere per una nostra riflessione complessiva sul Sessantotto.

L’autore di Dieci anni di illusioni inizia con l’osservazione che, nella metà degli anni ’60, “l’Occidente era la parte più ricca e più libera del mondo. Quasi tutti potevano mangiare tre volte al giorno. Quasi ovunque c’erano diritto di voto e libertà di espressione. La possibilità di studiare era di gran lunga cresciuta, e anche per i figli degli operai si erano aperte, finalmente, le porte dell’università. Sembra dunque che mai l’uomo fosse stato così bene come in quel periodo, e in quella parte del mondo.
Eppure, fu proprio in quel periodo – 1965 o giù di lì – e proprio in quella parte del mondo che fermentò la grande rivolta che sarebbe esplosa poco dopo. Dagli Usa alla Francia, dalla Germania all’Italia, un’intera generazione mostrò di non accontentarsi affatto di quel mondo, “così libero e così ricco”, che i genitori avevano preparato per loro. (...) Nacquero, e dilagarono in tutto l’Occidente, i movimenti dei beat, degli hippies, dei provos e dei “figli dei fiori”. Contestavano l’autorità della famiglia e della scuola, il servizio militare, l’esistenza delle carceri, l’integrazione nel mondo del lavoro”.

Rispetto agli altri Paesi, però, “solo in Italia il Sessantotto durò dieci anni, fino al settembre del 1977, ed ebbe poi, ancora per molto tempo una tragica appendice con la lotta armata. Il perché di questo record di durata è di difficile comprensione…"

I diversi “movimenti” che nacquero nel clima della “contestazione” avevano la matrice comune di una critica al “sistema” sociale, politico, ed economico.

Negli Stati Uniti, si saldarono la protesta contro l’escalation della guerra in Vietnam (per la quale c’era la coscrizione obbligatoria) e la lotta per i diritti civili dei neri americani.
Eppure, la lotta per i diritti civili trovava ascolto nell’élite politica, nei presidenti democratici Kennedy e Johnson. Gli stessi presidenti che aumentavano la presenza militare USA nel Vietnam...

Più in generale, si era soliti puntare l’indice sulle società occidentali, che si fondavano su valori difesi in maniera – si diceva (non a torto) - ottusa ed ipocrita.
Eppure, come ricorda Brambilla, queste società sembravano divenire insopportabili proprio quando offrivano il massimo del benessere e della libertà...

Più che una lotta all’ipocrisia, si ebbe una lotta ai valori stessi, come ci ricordano gli slogan un po’ bislacchi e un po’ folli che echeggiavano in quegli anni:

-  “Sesso, droga e rock and roll”, “peace and love”, “l’utero è mio e lo gestisco io”, nonché la smania per fare “esperienze” o per tutto ciò che era considerato “alternativo”. Si coltivava l’illusione che la vita sia solo “divertimento”, abbandono ai piaceri immediati; la convinzione ingenua e utopica che basti una canzone, uno slogan o un corteo a cambiare il mondo (senza sapere però in che direzione). Si capovolge l'idea stessa di natura umana e di società, teorizzando che l'uomo sia un coacervo di istinti e passioni, e che sia possibile soddisfarle integralmente.
La conseguenza era una lotta contro l’idea di responsabilità, la quale ci ricorda che le nostre azioni hanno conseguenze sulla nostra vita e su quella degli altri, e di queste azioni siamo chiamati a rispondere; l’indulgenza verso i comportamenti antisociali, che dovevano essere sempre affrontati con la “prevenzione” (guai a parlare di “repressione”); il rifiuto delle idee di ‘progetto’ e di ‘significato’ della vita. Così venivano costruite sempre nuove illusioni (fonte inevitabile di delusioni, di cui la colpa era però sempre degli altri, del “sistema”); venivano ricercati in fattori esterni (droghe) quei piaceri che la vita non sapeva regalare.
Si afferma l’idea di libertà senza responsabilità, libertà di fare tutto ciò che si vuole, anziché libertà per il bene. Questa idea di libertà si estese alla vita affettiva. Il sesso (grazie anche alla diffusione della pillola anticoncezionale) veniva slegato dall’amore, dalla procreazione, da un progetto di vita familiare (e persino dal più elementare rispetto della persona, visto che riemerge in alcuni ideologi sessantottini la legittimazione della pedofilia). Il femminismo riteneva l’identità femminile una “schiavitù biologica”, da cui emanciparsi imitando i modelli maschili. Si ebbero anche curiosi (e falliti) esperimenti, come le “coppie aperte” o le “comuni”, in cui si condivideva tutto, anche il partner, e la gelosia era bandita come sentimento borghese (nessuna “comune” è durata più di qualche anno...).

 “Vogliamo tutto e subito”. La lotta era anche contro la consapevolezza che ai diritti si accompagnano i doveri (dovrebbe essere evidente che il mio diritto può essere soddisfatto solo se qualcun altro adempie il corrispondente dovere nei miei confronti, e viceversa). Il rifiuto dell'ipocrisia divenne rifiuto delle regole, la morale venne confusa col moralismo, scadendo in un anticonformismo di maniera, nella confusa ricerca di uno stile di vita "alternativo".

-  “L’immaginazione al potere”, il salario “variabile indipendente”, il “sei politico” a scuola (o il diciotto all’università). Lotta contro il merito, contro il principio elementare di giustizia per cui ognuno raccoglie i frutti di quello che semina, contro la consapevolezza che una società di superficiali, svogliati e impreparati è una società destinata ad implodere. Senza contare che il merito è l’unica possibilità di riscatto sociale per i figli delle classi meno abbienti. La lotta contro il merito esprime anche il rifiuto della qualità: l’odio per la qualità è figlio dell’odio del sacrificio necessario a raggiungere una meta.

 “È vietato vietare”. Soprattutto, la lotta di quegli anni era contro l’autorità, contro la tradizione, contro tutte quelle istituzioni che con l’autorità o con l’educazione trasmettono i valori: Stato, Chiesa, scuola, famiglia.
Quindi, lo Stato era per definizione “fascista” (tranne quando doveva garantire prestazioni sociali a tutti); la semplice presenza delle forze dell’ordine una “provocazione”.
La Chiesa fondata da Cristo doveva essere sostituita dalle “comunità di base”, che riscrivevano ogni giorno fede e liturgie; veniva inventato uno “spirito” del Concilio Vaticano II, che avrebbe voluto novità diverse da quelle effettivamente insegnate; la “morte di Dio” divenne uno slogan di moda tra chi voleva innalzare al suo posto i nuovi idoli mondani, recidendo il legame tra l'uomo e il suo Creatore.
La scuola non doveva fare educazione civica, né “nozionismo”, ma doveva essere luogo di “socialità” (come il cortile sotto casa).
La famiglia era una “istituzione borghese” da abbattere; i genitori dovevano diventare “amici” dei figli (per di più, amici di quella terribile specie sempre accondiscendente su tutto); la figura del padre, poi, riciclando in maniera insulsa le teorie freudiane, doveva essere “uccisa”.
Gli anziani erano "matusa", la loro esperienza inservibile, il giovanilismo divenne la parola d'ordine.
Il rifiuto delle istituzioni si estendeva anche al criterio della rappresentanza democratica: tutto doveva essere deciso in interminabili, confuse e inconcludenti assemblee, in cui poi prevaleva l’opinione del più prepotente.
Alcune autorità (i famigerati "baroni" universitarî) erano effettivamente bolse e arroganti. Ma la critica non fu all'arroganza, bensì al principio stesso d'autorità.

Più in generale, la visione capovolta della natura umana e della società, il rifiuto di regole e verità, esprimevano un complessivo rifiuto psicologico (prima ancora che culturale) della realtà, dando origine al relativismo.


Le cause della contestazione. La posizione del mondo cattolico

A questo punto, forse possiamo trovare una prima spiegazione a quella protesta generazionale: non dobbiamo pensare che avvenne nonostante la libertà e il benessere di quella società (cercando chissà quali motivazioni), ma proprio grazie a quella libertà e a quel benessere. Infatti, l’animo umano è portato - per fortuna (o per grazia di Dio...) - a guardare sempre oltre, a non accontentarsi: ha una sete d’infinito. Ma ha anche la tendenza – purtroppo - a non apprezzare fino in fondo ciò che non ha conquistato con fatica; ha spesso la tentazione di cercare la via che sembra più facile, senza preoccuparsi se sia anche la via migliore.

Insomma, benessere e libertà per quei giovani erano doni scontati, mentre per i loro padri erano valori conquistati col sudore (del lavoro) e col sangue (delle guerre). Quei giovani erano, come li definì Pasolini, “figli di papà”, borghesucci annoiati che giocavano a fare i rivoluzionarî. Anziché proporsi di migliorare le cose, si proponevano di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Alla fatica della riforma, preferivano l’ebbrezza della rivoluzione.
Rivoluzione: l'idea di un capovolgimento totale della società esprime, ancora, il rifiuto della realtà.

Alla contestazione va però data anche una spiegazione più profonda: la crisi della modernità illuminista (di cui abbiamo disegnato il percorso in Relativismo e verità). Il positivismo illuminista si era presentato come progressismo secolarista, nel senso che aveva promesso un indefinito miglioramento delle condizioni sociali se solo l'uomo avesse reciso i suoi legami con Dio. Ai progressi economici (che non furono certo merito di quel pensiero) si accompagnava però una grande crisi morale, oggetto della contestazione dei giovani: due guerre mondiali, degrado ambientale, scomparsa dei lavori artigianali e "alienazione" nel lavoro dipendente, mercificazione di tutti gli aspetti della vita (il sesso in primis), persuasione pubblicitaria, affermarsi del "potere dei consumi" (come lo definiva Pasolini), accademismo della cultura.

Eppure il "movimento" continuò a prendere in prestito le parole d'ordine del progressismo secolarista, cercando di addebitarne i guasti a quella che invece ne era il bersaglio e la vittima: la civiltà cristiana.

All'alba della contestazione c'era stata addirittura una componente cattolica. Il prologo si era avuto infatti nel novembre 1967, presso l'Università Cattolica di Milano (dove era attivo Mario Capanna). Si trattava di giovani che avevano la carica ideale e la voglia di cambiamento propria dei cristiani, ma una fede confusa. Infatti, avevano scambiato la profezia (cristiana) con l'utopia (umana); avevano avuto la presunzione di realizzare il Paradiso sulla terra; avevano preso in prestito dal marxismo materialista gli strumenti di analisi sociale, l'idea di "rivoluzione" (cha aveva anche portato a travisare il significato del Concilio Vaticano II). Avevano insomma sostenuto la contestazione della religione nella quale erano cresciuti. E si erano quindi votati al fallimento.

Ma anche il restante mondo cattolico, che non aveva sposato apertamente la contestazione,  non seppe denunciare con la necessaria forza che le cause del malcontento erano esterne al cristianesimo (il che non vuol dire che il modo di vivere la fede cristiana non debba essere continuamente purificato).
Il desiderio di "essere vicini" alle istanze di chi protestava; la ricerca di un "dialogo" in cui c'era solo l'ascolto e mai l'annuncio; lo sforzo di "comprensione" che sfociava spesso in un sentimentalismo privo di significato (e di vero amore); una prematura svalutazione del pensiero filosofico cristiano; un'infondata esaltazione della "scientificità" del metodo marxista; la ricerca estenuante della "mediazione", anche quando questa significava sacrificare l'identità; la colpevole marginalizzazione della dimensione spirituale della fede rispetto all' "impegno"; un ingenuo ottimismo sulla possibilità di declinare in chiave positiva il pensiero secolarista: l'insieme di queste debolezze indusse molti cattolici ad assimilare alcune analisi inconsistenti del pensiero laico, facendo propria la crisi di quello. Finché Paolo VI, il 29 giugno 1972, dovette denunciare di avere la sensazione che "da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio".

Il Sessantotto, dunque (a livello mondiale: gli "anni Sessanta"), segnò il processo di secolarizzazione delle società occidentali, che si rivelò come una vera rivoluzione culturale. La crisi della Chiesa, peraltro, significò l'indebolimento della sua voce profetica, e quindi un pessimo servizio alla società intera.


L'ideologia della contestazione

Descrivendo i tratti di quegli anni, abbiamo incontrato qualche elemento particolare: lo Stato “fascista”, la famiglia “borghese”, la “rivoluzione”... il linguaggio dell’ideologia comunista, insomma. Con i suoi derivati: violenza e politicizzazione esasperata.

L’ideologia comunista – con le sue innumerevoli declinazioni settarie sempre in lotta tra loro: marxisti-leninisti, stalinisti ortodossi, trotzkysti, maoisti, ecc. – riuscì ad egemonizzare il Sessantotto europeo, e quello italiano in particolare.

Negli Stati Uniti gli hippies erano davvero pacifici; i “pacifisti” nostrani, invece, inneggiavano a Lenin, Mao, "Che" Guevara, ed erano ovviamente antiamericani.

L’ideologia comunista fornì un alibi alla deresponsabilizzazione di cui abbiamo parlato. Il materialismo marxista individuava il motore della società non nella creatività e nella libera volontà dell'individuo (che erano considerate "sovrastrutture"), ma nei rapporti economici di classe. Una visione deterministica e pseudoscientifica della storia faceva degli uomini solo ingranaggi (vittime) del "sistema". Tutti i problemi sarebbero stati magicamente risolti dall’avvento della società comunista.

L’ideologia comunista giustificava poi l’uso della violenza, e la violenza ipotecò ben presto il “movimento”. Tanto è vero che molti ritengono che il vero Sessantotto italiano inizi il 1° marzo di quell’anno (e non nel novembre '67), con gli scontri avvenuti a Roma, a Valle Giulia.

Riporta Brambilla:
“Ecco (dal libro L’Orda d’oro, di Nanni Balestrini e Primo Moroni) il racconto di una fonte insospettabile, Oreste Scalzone, che partecipò alla “battaglia di Valle Giulia” e che sarebbe diventato, in seguito, un leader di Autonomia Operaia:
«Avevano serrato la facoltà di Architettura, che era dunque in mano alla polizia. La sera, la notte, alla riunione del comitato d’agitazione dell’università, decidemmo che saremmo andati a riprenderla. Ci svegliammo presto e andammo, orgogliosi di aver messo in piedi un embrione di servizio d’ordine... Arrivammo sotto quella scarpata erbosa e cominciammo a tirare uova contro i poliziotti infagottati, impreparati, abituati a spazzar via le manifestazioni senza incontrare resistenza. Quando caricarono, non scappammo. Ci ritiravamo e contrattaccavamo, sassi contro granate lacrimogene, su e giù per i vialetti e i prati della zona, armati di oggetti occasionali, sassi, stecche delle panchine e roba simile. Qualche ‘gippone’ finì incendiato, ci furono fermi e botte da orbi...».
Alla fine della battaglia, si registrarono 148 feriti fra gli agenti di polizia e 47 fra i dimostranti. Quattro gli arresti, duecento le denunce. Certo non si era ancora alla violenza organizzata, ai servizi d'ordine ben armati e addestrati, né tantomeno alle P38: ma Valle Giulia, come ricorda Scalzone, fu una tappa importante perché per la prima volta, in quel 1968 costellato da occupazioni e sgomberi, furono gli studenti a prendere l'iniziativa dell'attacco. E se - sempre come rammenta Scalzone - «qualche ‘gippone’ finì incendiato», evidentemente le bottiglie molotov avevano già fatto la loro comparsa.”

La violenza si allargò ben presto. Al “movimento” comunisteggiante se ne contrappose, per reazione, uno – numericamente ben più esiguo – ispirato alla destra neofascista. I giovani si scontravano per la semplice appartenenza politica, o per i segni esteriori (il modo di vestire!) che potevano essere ricondotti a quell’appartenenza. Nelle università non era consentito volantinare o tenere manifestazioni a chi non fosse di sinistra.

E se l'utopia non si realizza, forse è perché non si è usata una dose di violenza sufficiente... ecco il passaggio di molti alla “lotta armata”, il terrorismo comunista delle Brigate Rosse, di Prima Linea, dei Gruppi Armati Proletarî, di tante altre sigle (ma anche quello fascista dei Nuclei Armati Rivoluzionarî). Sull’Italia si stese ben presto un’opprimente cappa di piombo (non a caso gli anni Settanta sono stati definiti gli “Anni di Piombo”): oltre 360 morti (politici importanti o semplici militanti, magistrati, poliziotti e carabinieri, giornalisti, dirigenti d’azienda, operai “scomodi”), 180 feriti gravi, decine di migliaia di agguati e azioni di guerriglia urbana.

La lunghezza (dieci anni) e la virulenza di questo fenomeno sono stati una caratteristica italiana. All’estero il fenomeno terrorista fu presente - e con proporzioni ben più limitate - solo in Belgio (CCC) e Germania (RAF). A cosa fu dovuta questa particolarità italiana?

Alla debolezza della nostra classe dirigente, innanzitutto. In Francia il ’68 finì nel... ’68, quando De Gaulle – ridiamo la parola a Brambilla – “decise che era venuto il momento di ripristinare l'ordine («La chienlit c'est finie», la carnevalata è finita, disse): a Parigi arrivarono i carri armati. Undici organizzazioni politiche furono messe al bando, 115 stranieri fra cui il tedesco Daniel Cohn-Bendit detto «Dani il rosso», capo del «Movimento 22 Marzo» e fra gli ispiratori della rivolta, furono espulsi; il Parlamento venne sciolto per indire nuove elezioni, che si rivelarono un trionfo per «il generale»”

Un secondo motivo della persistenza del Sessantotto italiano fu la strumentalizzazione politica che del movimento fece il fortissimo (finanziato dall’Unione Sovietica) Partito Comunista Italiano, ma anche tutti coloro che da varie posizioni volevano indebolire i poteri costituiti. Si cavalcava l’onda. Il ragionamento era che la contestazione colpiva inevitabilmente chi in quel momento deteneva il potere, e a giovarsene doveva essere chi stava all’opposizione, e di quel potere (politico, economico, culturale) voleva appropriarsi. Non importava cosa dicessero o cosa volessero i manifestanti, l’importante era che vi fosse la protesta, che poi si riteneva di poter abilmente canalizzare. Quanti danni ha prodotto alla nostra società questo ragionamento cinico...

La strumentalizzazione politica, ed anche il conformismo verso quella che sembrava una marea culturale inarrestabile, crearono un clima di consenso verso le teorie sessantottine, e inducevano a chiudere un occhio verso le violenze. La violenza doveva venire sempre, necessariamente, dai “servizi segreti deviati”, o da terroristi di destra mascherati da sinistra (si parlava di “sedicenti” Brigate Rosse). Servitori dello Stato integerrimi come il commissario Calabresi furono sottoposti ad un vero linciaggio mediatico (con raccolte di firme tra gli “intellettuali”), creando le basi per il loro assassinio.

Questo clima creò anche una simpatia verso il terrorismo stesso. Qualcuno diceva: “né con lo Stato, né con le BR”. Una simpatia largamente minoritaria nel Paese, ma sufficientemente estesa per costituire una base di reclutamento e una copertura omertosa.


Il '68 come ribellione borghese?

Tra gli ambienti che alimentarono un clima di consenso intorno al movimento vi furono anche quelli che avevano una prospettiva puramente economicistica; ma non nel senso dell'emancipazione delle classi più deboli.

In effetti, molte delle istituzioni oggetto di contestazione (famiglia, scuola) erano istituzioni che esercitavano un contrappeso sociale all'egemonia del mercato.

Se è risultata velleitaria la pretesa dei comunisti di utilizzare il Sessantotto come “rivoluzione” antiborghese e anticapitalista, ha prevalso invece la strumentalizzazione di quanti sono riusciti a farne una ribellione di costume borghese, destinata semplicemente a garantire una maggiore flessibilità degli assetti sociali rispetto a quelli produttivi.

Uno dei pochi che ebbe questa consapevolezza fu Pier Paolo Pasolini, che compose una poesia rivolta agli studenti protagonisti della battaglia di Valle Giulia:

Adesso i giornalisti di tutto il mondo
(compresi quelli delle televisioni)
vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio goliardico) il culo.
Io no, cari.
Avete facce di figli di papà.
Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Siete pavidi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:
prerogative piccolo-borghesi, cari.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di essere stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo
 anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità (...)

Pasolini, del resto, fu uno dei pochi che, nelle élites, non portarono il cervello all’ammasso, o ebbero il coraggio di manifestare il proprio dissenso; scandalizzando il mondo della cultura (e della sinistra), proprio perché egli stesso comunista.

La nostra critica all'assolutizzazione del consumismo (anche quello sessuale...), e all’omologazione sociale che ne deriva, non vuole essere – ovviamente – un elogio della povertà e della civiltà agricola.
Semplicemente, dobbiamo sottolineare che quello che si impone non è il modello più efficiente, capace di produrre maggior benessere, ma semplicemente quello più attraente nel breve termine: è la cultura del guadagno immediato, che trascura l’importanza di una coesione sociale (garantita dalla famiglia, dal genio femminile) capace di formare e custodire il capitale umano necessario al futuro delle moderne civiltà.


La politicizzazione esasperata del privato

Il clima di consenso veniva costruito anche, in maniera intimidatoria, con l’esasperata politicizzazione della vita quotidiana. “Il personale è politico”, si diceva. La scelta del modo di parlare, del taglio di capelli, dei vestiti e degli accessorî da indossare, di ogni libro da leggere, di ogni film, di ogni disco: tutto doveva essere “impegnato” (a sinistra ovviamente), a prescindere dalla qualità. Per cui bisognava farsi piacere cantautori rivoluzionarî da due soldi, e si potevano ascoltare solo di nascosto le cassette di Lucio Battisti (che era considerato “di destra”).

Nel suo libro Brambilla fa un esempio illuminante a proposito dello sport, tratto da una guida dell’epoca, Milano Alternativa.
“Spiegava la guida che «tutte le strutture dello sport milanese, dallo stadio dei 100 mila all'ultimo campetto parrocchiale, vivono all'ombra della gigantesca macchina che produce sport-spettacolo, alienante per chi lo produce come per chi lo consuma». Ogni sport, poi, aveva una precisa caratterizzazione ideologica: «Il nuoto, che potrebbe e dovrebbe essere popolare, è strangolato dalla mistica nazista... Il basket, relativamente recente, è per sua natura troppo spettacolare, è gioco già tutto creato per lo spettatore... Il tennis è bollato dallo snobismo manageriale... Le palestre, del trionfante neocapitalismo, sono più che spesso luoghi osceni, per la mistica e il culto della forza che ci si respira, e non a caso sono spesso covi di fascisti... Il ciclismo, anche lui popolare, è sempre stato troppo legato a un agonismo feroce, e ai sogni di Bartali e Coppi... I cosiddetti sport invernali costano troppo, e sono più che altro ricreazione sociale e snobistica della middle class, e spettacolo ...». E allora quali sport poteva praticare il giovane democratico degli anni Settanta? «Forse lo sport allo stesso tempo popolare e alternativo più d'ogni altro è quello delle bocce... (...)», suggeriva la guida”.

Questo clima "sessantottino" durò - almeno quanto a consenso generale - sino alla fine 1977. Iniziò ad essere minato nel ’76, quando il PCI iniziò la trattativa per entrare nell’area di governo e ritirò l’appoggio al “movimento”. Il ’77, poi, fu l’anno in cui si raggiunse l’acme della violenza di piazza, il che prosciugò ogni simpatia per un “movimento” che aveva perduto tutto della fantasiosa carica vitale iniziale.
Nel ’78, poi, con l’uccisione brutale di Aldo Moro e della sua scorta, raggiungeva il suo picco di ferocia un terrorismo ormai totalmente isolato, che lasciò una scia di sangue di altri tre-quattro anni di attentati.


Il lascito del '68

Che cosa resta di quel periodo quarant’anni dopo?

Dal punto di vista ideologico, quasi nulla. Questa ricorrenza cade ad un mese dalle elezioni politiche che per la prima volta hanno visto sparire dal Parlamento la sinistra radical-comunista...

Però l’influenza di quel clima culturale c’è stata ed è stata importante. Purtroppo, quasi solo in negativo.

Tanti lutti, come detto. Tanti giovani che hanno inseguito chimere, rovinando la propria vita. Una politica spendacciona che in quegli anni ha creato uno spaventoso debito pubblico, di cui ancora oggi paghiamo gli interessi (che costituiscono un grave freno allo sviluppo).

Soprattutto, sono restate pesanti scorie nella mentalità comune. Non c'è stata la rivoluzione politica, ma c'è stata quella del costume.

Da alcune scorie (l’idea che si potesse rinunciare al senso del dovere, al merito, al rispetto dell’autorità) iniziamo solo ora, faticosamente, a disintossicarci. Le donne hanno iniziato a sviluppare un “femminismo” che non sia scontro, che valorizzi la diversità, che cerchi l’uguaglianza delle opportunità e non lo scimmiottamento di modelli maschili.

Da altre scorie, invece, fatichiamo a liberarci. L’idea di libertà personale senza responsabilità sembra ancora ben radicata. Magari aggiornata con l’idea che sia possibile plasmare il mondo (la vita stessa - vedi le grandi questioni della bioetica -, l’identità sessuale) a proprio piacimento. Così come resiste l’idea che sia possibile cambiare la realtà manipolando il linguaggio.

Il guaio è che i sessantottini di ieri sono diventati i genitori di oggi, che hanno costruito famiglie disastrate, cresciuto (si fa per dire) i loro figli senza dare punti di riferimento. Ed oggi abbiamo molti giovani che non riescono, da soli, a trovare una strada; né ad unirsi, quando ce n’é davvero bisogno, per una mobilitazione generazionale costruttiva. Forse una delle maggiori colpe del Sessantotto è quella di aver ucciso la speranza dei giovani di poter essere protagonisti con proposte non velleitarie...

Infine, come visto, il Sessantotto ha finito per spianare la strada ad un modello di sviluppo sociale ed economico puramente consumista.

Una cosa va ricordata: i capi del “movimento” di allora hanno fatto strada, hanno raggiunto i vertici di quelle istituzioni (politiche, economiche, dell’informazione) che contestavano. Idealisti sulla pelle altrui.



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