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Temi caldi - Pace, terrorismo
Pace (e pacifismo) Stampa E-mail
C’è differenza tra una pace giusta e l’arrendevolezza alla prepotenza
      Scritto da Giovanni Martino
01/12/08
Ultimo Aggiornamento: 22/06/11
 
 Un uomo di pace (Gandhi)...

...e un simbolo "pacifista"

I termini pace e pacifismo sono spesso usati indifferentemente. Chi però sottolinea che esiste una differenza tra pace e pacifismo lo fa perché afferma che la vera pace, quella che tutti sogniamo, non è – a differenza di quello che possiamo definire pacifismo - debolezza, non è acquiescenza verso le prepotenze.

I pacifisti sostengono in linea di massima che, se si crea un dissidio, basta che una parte sola rinunci all’uso della forza, perché anche l’altra rinunci alla tentazione di approfittarne e sia possibile raggiungere un accordo basato sul dialogo. Oppure sostengono che la violenza è inevitabile (quindi va subita?) se non si vogliono rimuovere le "vere cause" che la alimentano.

Ciò che accomuna le diverse correnti del pacifismo è un’utopia astratta, l’illusione che tutti gli uomini siano fondamentalmente buoni, e che la violenza nel mondo sia portata dall’ingordigia di pochi o da fattori “esterni”: il denaro, la proprietà, il potere, le diversità culturali, la religione. Basterebbe isolare i pochi “cattivi”, eliminare i fattori “esterni” di divisione, puntare sul dialogo e sulla ragione, perché il mondo trovi automaticamente la pace. Ma le utopie, come sappiamo, non guardano in faccia la realtà (su utopie e distopie cfr. la recensione di Il Mondo nuovo).

Il primo errore di queste teorie è sulla natura umana. L’uomo, in realtà, non è essenzialmente buono (come pretendeva Rousseau), ma è un impasto di bene e di male. Lo impariamo guardando non solo la diffusione di violenze atroci, ma anche le liti ai semafori o le riunioni condominiali… Un materialista potrebbe spiegarlo evidenziando l’istinto di conservazione e gli impulsi aggressivi che risiedono nel tronco encefalico; un cristiano ricorderebbe il peccato originale. Fatto sta che “fare la pace” non è mai una cosa automatica, ma bisogna essere in due; esiste la tentazione della sopraffazione, e non opporsi a quella tentazione finisce per incoraggiarla. Lo sperimentiamo nella vita quotidiana: non si potrebbe fare a meno delle forze di pubblica sicurezza. Lo ha sperimentato più volte l’umanità: esemplare resta il ricordo della debolezza europea nel contrastare le prime manifestazioni del disegno di potenza nazista; anziché contrastare Hitler quando si stava ancora rafforzando, si è “dialogato” con gli accordi di Monaco, sino alla tragedia immensa della Seconda Guerra mondiale. Non bisogna dimenticare che la legittima difesa è un diritto inalienabile dell’uomo. Ed anche che la pace non è solo l’assenza momentanea di violenza (che si può avere anche sotto il tallone di un oppressore), ma, come dice già Isaia, è “opera della giustizia”.

Naturalmente, le ingiustizie contro le quali è ammissibile l’uso della forza sono bene delimitate: sono i casi di legittima difesa rispetto ad oppressioni violente, e non le “ingiustizie sociali”, termine generico che rischia di giustificare un uso indiscriminato della violenza per risolvere i conflitti. Ci sembra ovvio, in questa sede, che non possiamo considerare "ingiustizia" ogni situazione che non condividiamo, per avere un comodo alibi ai nostri desideri di sopraffazione (tutti i violenti si sentono vittime di ingiustizie...). E ci sembra doveroso ribadire che anche la maggior parte delle ingiustizie reali non sono di gravità tale da giustificare un rimedio (la violenza) peggiore del male che si vuole sanare.

Insomma: serve il dialogo, serve la persuasione, ma serve anche la possibilità di una giusta sanzione, la capacità di individuare e la tenacia nel difendere i diritti fondamentali (proprî e di chi è troppo debole per difendersi da sé). Questo perché difendere con fermezza i diritti dell’uomo non significa ammettere un ricorso facile alla forza o addirittura alla guerra (soluzione terribile ed estrema). Significa piuttosto avere maggiori possibilità di evitarla, la guerra. Non possiamo rinunciare ai sogni, ai progetti, ma sempre misurandoci con i fatti, con un sano realismo.

“Però la non violenza di Gandhi ha funzionato”, potrebbe eccepire qualcuno. Certamente. Nella storia la resistenza non violenta (ben diversa dal pacifismo) ha funzionato spesso, e non solo con Gandhi. Non stiamo infatti dicendo che la resistenza alle ingiustizie debba passare subito e necessariamente per l'uso della forza. Ma è importante sottolineare che la non violenza è qualcosa di completamente diverso dal quieto vivere, dall'indifferenza rispetto alle violazioni dei diritti dell'uomo, dal voltare la testa per timore di "peggiorare le cose". E' una strada attiva, dura, di sacrificio; in ogni caso percorribile se l’avversario che si ha di fronte agisce in un orizzonte di umanità, se ha scrupoli morali. L’Inghilterra contro cui si ribellarono gli Indiani guidati da Gandhi era certo più cinica di quella odierna, ma aveva pur sempre limiti che non poteva oltrepassare, un’opinione pubblica cui rispondere. Un Saddam Hussein, un Pol Pot, un Hitler, uno Stalin hanno avuto meno rimorsi… Lo stesso Gandhi, di fronte ai sanguinosi scontri tra indù e musulmani che portarono alla separazione tra India e Pakistan, si sentì in dovere di invocare l'intervento dell'ultimo viceré dell'India, Lord Mountbatten, per sedare con le armi i disordini.

Il secondo errore dell’utopia pacifista, ancor più radicale, è il fatto che individua in fattori “esterni” - denaro, la proprietà, il potere, le diversità culturali, la religione - le cause che impedirebbero la pace. In realtà, si tratta di elementi interni all’uomo: sono le espressioni necessarie del suo animo, oppure le condizioni della convivenza. Ad esempio, non è realizzabile l’anarchia, una società senza l’esercizio di un potere; si tratta piuttosto di regolare - con fatica - questo esercizio. E soprattutto: non può esistere una società in cui gli uomini non abbiano fede in un’idea, una cultura, una religione, come pretenderebbe la celebre canzone Imagine di John Lennon. Non può esistere, ma, soprattutto, sarebbe terribile se esistesse: non avremmo uomini, ma entità amorfe dedite solo a sopravvivere, a evadere, a fuggire la realtà.

Il relativismo, il rifiuto dell'idea di verità, insomma, non è la condizione della pace.
Certo, esistono fedi diverse. Esistono idee di amore e idee di sopraffazione; ma questo comporta la necessità di difendere le prime e contrastare le seconde. Sia le manifestazioni della grandezza umana, sia le cause della violenza sono interne all’uomo: ciò significa anzitutto che non esistono comode scorciatoie, “riforme sociali” che non passino attraverso la responsabilità personale, la diffusione di una "cultura della vita".
Inoltre, se non si possono eliminare le diversità, non si può eliminare neanche il confronto (e a volte lo scontro) tra queste diversità, come vorrebbe una certa cultura new age, come esprime il simbolo un po’ equivoco della bandiera arcobaleno: “tutte le fedi sono uguali, convivano sterilizzate”. Eliminare le differenze e il confronto tra esse è possibile solo nello “sballo” onirico da stupefacenti, o sotto la cappa livellatrice di una grande dittatura.

Riprendendo l'esempio di Gandhi, egli fondò la sua dottrina della non violenza sul principio del satyāgraha, che significa "insistenza per la verità": ogni essere umano deve difendere le proprie concezioni morali e politiche fondamentali, anche se deve subire ingiustizie e violenze per questo. L'esatto contrario del pacifismo fondato sull'annacquamento dei valori... Anzi, ogni tentativo di mascherare la verità era per Gandhi un atto di violenza; da combattere, naturalmente, con fermezza non violenta. Similmente, per i cristiani, la prima manifestazione di amore è l'annuncio della Verità della Fede, sulla quale si può fondare una pace vera e non precaria.

All’interno del pacifismo esistono a dire il vero tre filoni principali.

Il primo, più spontaneo (e più circoscritto), è quello della cultura hippy, dei “figli dei fiori”, di un certo radicalismo cristiano (diverso dalla posizione della tradizione cristiana e della Chiesa, di simboli della fratellanza come S. Francesco d’Assisi). Questi pacifisti, coerentemente con la loro utopia, proclamano semplicemente che non bisogna usare la forza in nessun caso, neanche quando ciò significhi soccombere alle prepotenze e alle violenze altrui; questo perché “non si può mai raggiungere la pace con la violenza” (uno slogan molto suggestivo, apparentemente sensato). Però questa utopia non propone soluzioni concrete per risolvere i conflitti; non si preoccupa di trovare il terreno d'incontro, l'orizzonte di valori su cui si può costruire una pacifica convivenza. Per cui si scontra con i fatti, con le ingiustizie che un’arrendevolezza eccessiva provoca.
Neanche tra di loro questi pacifisti sono riusciti a realizzare i principî proclamati, come dimostra il fallimento di tutte le comuni hippies, presto degenerate nella violenza e infine chiuse. (Oppure, come la celebre “Christiania” in Danimarca, trasformata in meta turistica e acquistata dai residenti per 10 milioni di euro (!) frutto di proventi esentasse...).

Questi principî sembrano funzionare solo nelle comunità religiose, che però sono sostenute da una Fede comune molto forte e da precise regole disciplinari; e che non debbono misurarsi con la politica, cioè con la fatica di far convivere idee, morali, costumi diversi.

Il secondo filone pacifista è quello “antimperialista”. Usa le stesse parole d’ordine dei pacifisti assoluti, ma organizza cortei con le effigi di “Che” Guevara e le bandiere dell’Intifada palestinese. Questi “pacifisti”, insomma, sono in realtà antioccidentali; condannano alcune violenze (quelle vere o presunte dell’ “imperialismo capitalista”), ma ne esaltano altre (quelle delle “guerre di liberazione”, dei terroristi che diventano “resistenti”). Si indignano per le guerre che vedono coinvolti americani e israeliani, ma non parlano delle "guerre dimenticate" (che generano molte più sofferenze). Sono gli eredi di quei movimenti della pace che durante la Guerra Fredda erano finanziati dall’Unione Sovietica, che dicevano “meglio rossi che morti”. In questo caso, insomma, gli slogan pacifisti sono solo una copertura tattica, strumentale. Come i pacifisti assoluti, gli “antimperialisti” inseguono l’utopia astratta di una società perfetta, considerano “fattori inquinanti” i valori della società liberale. Ma il loro vero obiettivo non è la pace, bensì un progetto politico ben preciso (il comunismo ieri, una non meglio precisata “società antagonista” oggi) che combatte le libertà della nostra società.

Il terzo filone pacifista è meno ideologico, ma è quello in cui potenzialmente possiamo confluire tutti: è il pacifismo della paura o dell'indifferenza. Speriamo non sia necessario sottolineare quanto sia misera l'indifferenza verso chi soffre e subisce violenza. Quanto alla paura, è un sentimento umano legittimo, può essere anche un antidoto contro le euforie fanatiche e guerrafondaie. Ma deve sempre sposarsi con la ragione, e quando necessario deve saper cedere il posto al coraggio (che non è l’assenza di paura – quella è l’incoscienza -, ma la capacità di dominarla). La pace, la libertà, la giustizia, talvolta esigono un prezzo. Tornando all’esempio storico dell’arrendevolezza rispetto ad Hitler: vi contribuì la paura di una nuova guerra, quando era ancora vivo in moltissime famiglie il lutto dei caduti nella Prima Guerra Mondiale. Ma quella paura, ostacolando inizialmente un’azione di forza, aprì le porte a lutti nuovi e molto più estesi. L’esempio speculare è stato l’esito della Guerra Fredda: fu lo stesso Shevardnadze (ex Ministro degli Esteri sovietico ai tempi di Gorbaciov) ad ammettere che proprio la reazione decisa della Nato, con l’installazione degli “euromissili” (aspramente osteggiata dai pacifisti), a convincere l’Unione Sovietica dell’insostenibilità della propria politica di aggressione. Ancora Gandhi: “Se si deve scegliere tra vigliaccheria e violenza, è meglio la violenza” (in La non violenza spiegata ai giovani).

A volte si sentono persone ammettere che il pacifismo assoluto ed incondizionato, la rinuncia alla legittima difesa, è una via percorribile solo in chiave strettamente personale: può avere il valore di una testimonianza ideale, religiosa, "profetica". E' ben difficile sostenere che chi ha la responsabilità della sicurezza di altre persone (il genitore per i figli, l'uomo di governo per i cittadini) possa imporre ad esse una tale scelta personale. Ciò nonostante, le stesse persone che ammettono la distinzione di principio tra scelte personali e responsabilità verso altri, in concreto, di fronte a un'ingiustizia evidente, spesso svicolano: "sono ben altre le cause da affrontare e da rimuovere"; "se si interviene in un caso bisognerebbe intervenire in tutti"; "ci sono interessi 'sporchi' dietro certe pretese di difendere le vittime di ingiustizie"; e così via...  Sono affermazioni a volte anche fondate; ma che diventano ipocrite se usate per giustificare alcune violenze. Forse perché sono la copertura volontaria del pacifismo ideologico, o quella involontaria del pacifismo un po' vile...

In definitiva: i migliori costruttori di pace non sono quelli che urlano di più, che ritengono sufficienti slogan, cortei e bandiere, che sognano un mondo in cui sia facile andare d’accordo, senza fatiche e responsabilità. I costruttori di pace sono quelli disposti a caricarsi sulle spalle, ogni giorno, la fatica di costruire un mondo più giusto. Sono quelli che coltivano la virtù della prudenza, che si sforzano ogni volta di calare i proprî principî in una realtà complessa e mutevole, cercando di capire se possono essere valori condivisi.

 

Nella pagina delle lettere il commento di un lettore a quest'articolo.



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