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Temi caldi - Famiglia
Le riforme necessarie a sostegno della famiglia Stampa E-mail
L’importanza di promuovere specifiche politiche familiari
      Scritto da Giovanni Martino
10/05/07
Ultimo Aggiornamento: 25/03/13

famigliaLa cronaca sembra far emergere principalmente un aspetto della ‘questione’ famiglia: la necessità di difenderla da ingiustificate aggressioni. Ma la posta in palio è ancora più grande: mettere la famiglia in condizione di esercitare il suo insostituibile ruolo sociale, superando le discriminazioni di cui è oggetto, elaborando nuove e specifiche politiche familiari. Sono le politiche di cui parla l'art.31 della Costituzione: "La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose".

Le politiche familiari possono essere di carattere generale (politica fiscale basata sulla capacità contributiva) o di carattere particolare (politiche di sostegno attivo alla famiglia in compiti o emergenze specifici). 
Non sono politiche di lotta alla povertà (che debbono naturalmente esserci); non hanno come scopo la redistribuzione del reddito (a questi scopi provvedono altri strumenti, come la progressività delle imposte); non possono, quindi, essere legate al reddito. Sono politiche universalistiche, in quanto ogni famiglia è un bene comune.
Sono politiche mirate alla famiglia fondata sul matrimonio, quella tutelata dalla Costituzione e che sola è in grado di esercitare un'efficace funzione sociale.


Per una riforma fiscale complessiva: quoziente familiare o "Fattore famiglia"

Nell’articolo sulle Discriminazioni contro la famiglia italiana evidenziamo che la principale stortura del nostro sistema socio-economico è il modello di imposizione fiscale, che non tiene in conto i carichi familiari. La famiglia, oltre che di servizi sociali (di cui parleremo più avanti), ha bisogno che lo Stato le restituisca risorse economiche: la famiglia sceglierà liberamente come impiegarle.

Una riforma fiscale, dunque, è la prima e più urgente riforma da intraprendere, necessaria per realizzare una politica familiare ‘generale’, basata sulla capacità contributiva.

Ciò consente di perseguire più obiettivi. Innanzitutto un obiettivo di equità, che liberi le famiglie dalle discriminazioni di cui sono oggetto. Quindi, esiste l’esigenza di non scoraggiare la formazione di nuove famiglie, perché possano adempiere i loro peculiari compiti sociali. Infine, bisogna permettere (non arriviamo neanche a dire “agevolare”, come chiede la Costituzione) il formarsi di famiglie numerose (con più di tre figli), che sono quella minoranza in grado di assicurare l’equilibrio generale, visto che la media è abbassata da chi non ha figli o sceglie il figlio unico.

Qual è lo strumento migliore per raggiungere tali risultati?

Il metodo dei trasferimenti (assegni) ha molti inconvenienti: non aiuta la famiglia a responsabilizzarsi, la rende dipendente dal sistema pubblico. Senza contare che gli assegni debbono essere rivalutati ogni anno.

Il metodo che prevede la modulazione di detrazioni o deduzioni, pur essendo uno strumento più propriamente fiscale (e non una forma di assistenza diretta), presenta gli stessi inconvenienti degli assegni quanto alla necessità di aggiornamento periodico (che in Italia non viene fatto quasi mai; o viene fatto – come nella Finanziaria per il 2007 – con complicatissimi meccanismi per nascondere che alla fine si tratta di un rimescolamento di carte a somma zero).

Uno dei metodi migliori appare quello del quoziente familiare, sperimentato in maniera completa in Francia, dove ha consentito un nuovo boom demografico. Uno strumento chiaro, trasparente, che svolge il suo ruolo in maniera costante nel tempo, senza essere soggetto a continue ed estenuanti contrattazioni. Secondo questo metodo, le entrate (una o più) della famiglia devono essere sommate e poi divise per il numero dei componenti della famiglia stessa (per la precisione: per la somma dei coefficienti attribuiti ad ogni componente; tale somma costituisce, appunto, il “quoziente familiare”), in modo da tassare non tanto il reddito unitario percepito, quanto il reddito disponibile per ogni familiare. Il vantaggio è che ad ogni porzione di reddito si applicherebbe l’aliquota relativa, evidentemente più bassa di quella che si sarebbe applicata al reddito complessivo.

In Francia il coefficiente del capofamiglia è 1, quello del coniuge anch’esso 1, quello di ogni figlio 0,5 (il coefficiente dei figli è ridotto per tener conto dei vantaggi che le economie di scala consentono ad una famiglia), ad eccezione del terzo figlio (oggetto di un’incentivazione particolare) che ha un coefficiente 1. Ad ogni componenete disabile si applica un’ulteriore maggiorazione di 0,5. Per fare un esempio concreto: in una famiglia di moglie, marito e tre figli, il quoziente complessivo sarebbe 4 (1+1+0,5+0,5+1); il reddito complessivo (ad esempio 50.000 euro) dovrebbe essere diviso per quattro, e ad ogni porzione risultante (12.500) dovrebbe essere applicata l’aliquota fiscale relativa, inferiore a quella che sarebbe stata applicata ai 50.000 euro.
I coefficienti potrebbero essere modulati anche in maniera diversa da quella francese: sia per garantire – eventualmente – una fase di passaggio più morbida per le casse dello Stato, sia per mirare gli incentivi (ad esempio, abbassando un po’ il quoziente del coniuge, e accrescendo quello del secondo figlio, si favorisce la procreazione nelle coppie che potrebbero fermarsi al figlio unico).

In altri Paesi c’è un sistema ‘intermedio’: lo splitting (divisione applicata solo al coniuge) abbinato con detrazioni o deduzioni per i figli molto elevate (in Germania la deduzione può arrivare a 15.000 euro l’anno).

Tornando al sistema del quoziente, aggiungiamo per completezza che quanti rientrano nello scaglione di reddito più basso non trarrebbero giovamento dalla divisione (come anche da deduzioni o detrazioni), poiché pagano già poche tasse o sono addirittura esenti. In questi casi sarebbe necessaria un’integrazione con assegni familiari di robusta consistenza.

Al sistema del quoziente familiare vengono rivolte sovente due obiezioni.

La prima è che avvantaggia tanto i redditi bassi quanto quelli alti. Anzi, essendo l'imposta progressiva, il quoziente avvantaggia proporzionalmente di più i redditi alti.
Si tratta di un'obiezione che, se volesse escludere i redditi più alti da ogni beneficio, sarebbe da rigettare, perché non terrebbe conto di quanto abbiamo sottolineato inizialmente, cioè che le politiche familiari sono una cosa diversa dalle politiche - senz'altro importanti - di lotta alla povertà o di redistribuzione del reddito.
L'obiezione diviene però sensata nella misura in cui evidenzia che un principio come il favor familiae può dirsi davvero universalistico (slegato dal reddito) non solo se è declinato in modo da non penalizzare i redditi alti, ma anche se non scade nell'effetto contrario, quello di avvantaggiarli. Servirebbero dunque fattori correttivi del quoziente in proporzione al reddito.

La seconda obiezione al quoziente familiare è che un coefficiente per il coniuge troppo alto potrebbe disincentivare l'impegno lavorativo delle donne, rendendo praticabile il lavoro domestico.
Ebbene, a parte il fatto che tutto dipende - eventualmente - da un'attenta definizione di quel coefficiente, nel caso francese il 'pericolo' non si è verificato.
Ma - quel che è più importante - questa obiezione rivela una discutibile ipoteca ideologica. Chi la pone dice di non voler "disincentivare" il lavoro femminile: in sostanza vuole incentivarlo, ovvero costringere la donna a questa opzione. A noi - come vedremo nell'ultimo paragrafo - sembra più liberale, ed anche economicamente e socialmente più produttivo, creare le condizioni di sostegno e di flessibilità che lascino alla donna la libertà di scelta, e le consentano di conciliare i suoi ruoli.

Recentemente, il Forum delle Associazioni familiari ha lanciato la proposta del "Fattore famiglia", che si ispira al quoziente familiare, apportando però modifiche che vorrebbero per certi versi migliorarlo e per altri renderne meno onerosa e più concreta l'attuazione. 

In particolare, il Fattore famiglia introduce una deduzione - ”No tax area familiare” -, determinata dai costi di mantenimento ed accrescimento dei singoli componenti del nucleo familiare.

La No tax area si calcola moltiplicando il costo di mantenimento del singolo per un coefficiente definito dal numero dei componenti e dalle problematiche del nucleo familiare (disabili, ecc.).

I costi di mantenimento sono calcolati secondo criterî oggettivi e aggiornati automaticamente anno per anno, sottraendo così la No tax area familiare ad una perenne contrattazione politica: in specie, il riferimento è la soglia di povertà relativa misurata dall’Istat (nel 2010, circa 7.000 euro per persona sola).

Il Fattore famiglia, inoltre, adotta il criterio della quota fissa: la quota di reddito è esente dalla tassazione dell’aliquota più bassa (oggi il 23%). In tal modo si garantisce equità di vantaggio tra redditi bassi, medi e alti.

Ovviamente anche il sistema del Fattore famiglia - come il quoziente familiare e come ogni agevolazione basata su sgravi fiscali - non fornisce sufficiente giovamento a quanti rientrano nello scaglione di reddito più basso o sono esenti da imposte, rendendo per costoro necessaria l’integrazione con gli assegni familiari.


Interventi fiscali mirati

Ad un intervento di revisione generale devono affiancarsi interventi fiscali su aspetti specifici della vita familiare:

a) ai fini del calcolo dell’imponibile per le addizionali Irpef degli enti locali, applicazione di una no-tax area pari ad Euro 10.000 per ogni figlio;

b) deducibilità dall’imponibile IRPEF dei canoni di locazione pagati, entro un importo massimo;

c) abbattimento dell’ICI sugli immobili dati in affitto a famiglie (il che non solo ridurrebbe il problema degli alloggi sfitti, ma contribuirebbe anche ad abbassare i canoni di locazione, riducendo i costi che gravano sul locatore); aggravio dell’ICI sugli alloggi sfitti;

d) deducibilità dei mutui per l’acquisto della prima casa, delle spese per l’aggiornamento professionale, di quelle per l’educazione dei figli, nonché di quelle per previdenza e assistenza sanitaria integrative di cui siano beneficiarî tutti i familiari (in alternativa al sistema dei “buoni”, di cui parleremo più avanti);

e) deducibilità dei versamenti che i genitori o i nonni fanno su un conto patrimoniale intangibile intestato ai figli al momento della nascita (Family Saving Account).

(Accanto agli interventi da effettuare, bisogna evidenziare che un primo intervento significativo è stato adottato dal governo Berlusconi nel 2008: l'abolizione dell'ICI sulla prima casa.)


Le risorse per le politiche familiari

Dove trovare, nel bilancio dello Stato, i soldi per correggere le distorsioni e le insufficienze del nostro sistema?

Le risorse necessarie non sono enormi. Per l’introduzione del quoziente familiare, le stime parlano di circa 9 miliardi di euro: l'ammontare di una "manovra" correttiva del bilancio pubblico.

Si potrebbe discutere della possibilità di una fase transitoria, in cui da alcuni benefici siano esclusi i redditi più alti. Ma si tratterebbe di una forzatura, perché – ribadiamolo – le politiche familiari sono politiche universalistiche.

Il ministro del Welfare, Sacconi, durante la Conferenza nazionale sulla famiglia del novembre 2010, ha ricordato che esistono già ingenti risorse pubbliche impiegate a fini sociali ("37 miliardi di prestazioni Inps al netto delle pensioni: solo per la non autosufficienza le prestazioni valgono 16 miliardi, 10 in senso stretto per la famiglia; e le agevolazioni fiscali in senso stretto per la famiglia ammontano a 18 miliardi"), che però "devono essere riallocate e riorganizzate".

Le risorse potrebbero essere reperite anche in altre direzioni.

Nel suo volume Sussidiarietà fiscale. La frontiera della democrazia (ed. Guerini e Associati, Milano 2005) il prof. Luca Antonini ricorda che qualche anno fa fu approvata una delega per eliminare tutte le agevolazioni fiscali non corrispondenti ad un valore costituzionale. La delega rimase inattuata, ma l'indagine preparatoria stimò che nel giro di cinque anni si potevano recuperare 30 mila miliardi di lire (oltre 15 milardi di euro). È un calcolo al ribasso. Dunque il sistema abbonda di rendite, di favori a pioggia elargiti a corporazioni e clientele: eliminarli richiede solo la cosiddetta "volontà politica" (sorretta da un po' di coraggio e di senso di giustizia della nostra classe dirigente).

Inoltre, tutti invocano una riduzione della pressione fiscale complessiva, considerata eccessiva. Ebbene, tale riduzione deve passare anche attraverso un riequilibrio. Infatti, se l’attuale pressione su alcuni contribuenti è tutto sommato sostenibile, per altri è tale da spingerli sull’orlo della povertà o del fallimento economico. La riduzione dei carichi fiscali, dunque, dovrebbe essere selettiva: prima ancora che su una riduzione generale delle aliquote, dovrebbe fondarsi sull’eliminazione delle iniquità fiscali che gravano sulle famiglie, nonché su altre misure mirate (come la detassazione degli utili d’impresa reinvestiti nell’innovazione industriale; o agevolazioni connesse alla stabilizzazione dei contratti di lavoro dei dipendenti).


Le politiche di sostegno attivo alla famiglia in compiti o emergenze specifici.

Ai provvedimenti generali di riforma fiscale devono affiancarsi politiche familiari 'particolari'. Tali politiche devono essere erogate in chiave sussidiaria, cioè il sostegno dev’essere alla famiglia in quanto tale. La famiglia, infatti, come spieghiamo più a fondo nell’ultimo paragrafo dell’articolo sulle campagne antifamiliari, è dotata di un’autonoma soggettività: Ogni seria battaglia contro le disuguaglianze sociali dovrebbe accorgersi che queste nascono anzitutto da disuguaglianze familiari; la famiglia non è causa di ingiustizie, ma è il luogo principale per sconfiggerle.

Lo Stato, quindi, deve consentire alle famiglie l’autonomo svolgimento dei proprî compiti, secondo le modalità che decidono, senza sostituirsi ad esse: solo in questo modo i componenti del nucleo familiare potranno moltiplicare le risorse pubbliche dispiegando quel di più di gratuità, di solidarietà, di affetto.

Ad esempio: incoraggiare l’educazione dei giovani non significa garantire scuole a tempo pieno, ma aiutare i genitori a trascorrere più tempo con i proprî figli; dare spazio alle famiglie nella definizione degli indirizzi scolastici; ecc. Pretendere di sostituirsi ai compiti educativi della famiglia sarebbe oltretutto pericoloso: i figli cresciuti dallo Stato vedono violati i loro diritti fondamentali.

E ancora: un assegno erogato direttamente ad un malato è certamente necessario, gli garantisce una componente di autonomia di cui quella persona ha bisogno. Ma non si possono esaurire lì le politiche di sostegno alle persone malate: è essenziale anche una politica che aiuti le famiglie disposte a prendersi cura dei propri membri in difficoltà, ad esempio tramite specifiche detrazioni sul reddito, maggiorazione del coefficiente individuale nel quoziente familiare o nel "Fattore famiglia", assegni familiari maggiorati, ecc.
In effetti, un malato (o un anziano) che dovesse valersi di un’assistenza fornita esclusivamente a pagamento (cure mediche, assistenza infermieristica, assistenza domestica, alloggio, ecc.) avrebbe bisogno del reddito di un manager, impensabile per le casse pubbliche di qualsiasi Stato! E il risultato sarebbe in ogni caso freddo e disumano: la solitudine è il disagio più grande per chi soffre. Invece, un impiego di risorse pubbliche più ridotto, ma destinato direttamente alla famiglia che si fa carico dei soggetti deboli che ne fanno parte (anche se – lo ripetiamo – non alternativo all’aiuto di cui gode la persona), consentirebbe l’erogazione di un’assistenza più completa e qualitativamente molto più efficace, oltre a garantire una maggiore equità.

Insomma: oltre alle politiche del lavoro, della casa, della sanità, ecc. genericamente intese, bisogna individuare distinte politiche della casa per la famiglia, del lavoro per la famiglia, della sanità per la famiglia.

È opportuno prevedere un ventaglio ampio e flessibile di tali politiche. Pensiamo a:

a) mutui agevolati per l’acquisto della prima casa;

b) velocizzazione delle procedure che permettano (dopo sufficiente preavviso) ai proprietarî di case di rientrare in possesso dei proprî immobili affittati. Le attuali difficoltà a riavere il proprio immobile sono il motivo principale che invoglia a mantenere gli alloggi sfitti: la rimozione di tali difficoltà, unitamente ai già esaminati meccanismi di incentivo-disincentivo fiscale, farebbe rientrare sul mercato numerosi alloggi, calmierando i canoni d’affitto (l’imposizione di canoni fissi ottiene il risultato contrario), con beneficio degli inquilini e delle giovani coppie che cercano una casa;

c) programma serio di edilizia popolare o agevolata per famiglie indigenti nelle grandi città, con la massima trasparenza nei criterî di assegnazione degli alloggi o dei finanziamenti;

d) previsione di un “sussidio parentale di educazione” (previsto in Francia) per i primi due-tre anni di vita del bambino;

e) indennità per l’assistenza all’interno della famiglia (supportata da strutture di day-hospital) di tutti i malati e gli anziani (tali provvedimenti per lo Stato si tradurrebbero in un risparmio, visto che l’ospedalizzazione è molto più costosa);

f) promozione di contratti di solidarietà, che privilegino chi ha carichi di famiglia nell’accesso al lavoro e nella soluzione del problema occupazione;

g) incentivi per la stabilizzazione lavorativa dei giovani che abbiano già maturato esperienze di lavoro a tempo determinato e abbiano superato l’età di ventisei anni;

h) istituzione ai diversi livelli - nazionale, locale - delle Consulte per la famiglia, che si facciano promotrici di politiche familiari ed esprimano parere obbligatorio sulle iniziative degli organi competenti;

i) coinvolgimento con ruolo prevalente di rappresentanti delle associazioni familiari nelle Consulte, nonché nelle commissioni di studio e nei comitati di controllo relativi a problematiche familiari, con riferimento soprattutto alla tutela dei minori (es.: giurì della pubblicità, commissione per le valutazioni cinematografiche, comitati di vigilanza sull’applicazione delle norme a tutela dei minori in TV, commissioni per la definizione dei programmi o l’approvazione di iniziative di educazione sessuale all’interno della scuola, ecc.);

j) assegnazione di “buoni” finanziarî vincolati all’impiego in alcune funzioni primarie della famiglia, che potrà così scegliere liberamente quale struttura (pubblica o privata) soddisfi meglio le sue esigenze: buono-scuola (asilo), buono-casa (o buono-affitto), buono-previdenza, buono-sanità. Rispetto alle deduzioni fiscali, questo meccanismo copre interamente i costi standard predefiniti (chi vuole spendere di più può autonomamente integrare la spesa), venendo incontro pienamente alle esigenze delle famiglie, ma anche delle strutture eroganti i servizi (messe in concorrenza paritaria e quindi invogliate a migliorare sempre la qualità della propria offerta);

k) battaglia contro le droghe, che distruggono le famiglie colpite;

l) reimpostazione dell’attività dei consultorî, per farne dei centri di consulenza familiare globale, capaci di prevenire le crisi familiari (non dando per scontato che la separazione sia la soluzione migliore e inevitabile) e di aiuto alla vita nascente;

m) revisione della legge sulle adozioni, per consentire la rapida adozione, da parte di giovani coppie di coniugi, di bambini a rischio di aborto (la domanda di adozioni è in numero largamente superiore a quello degli adottandi);

n) rettifica redditometri (ISEE), aumentando il coefficiente (portandolo a 1) per ogni membro familiare;

o) istituzione della family card (per famiglie con almeno due figli o famiglie monoreddito con un figlio), che riconosca scontistica sui servizi pubblici (trasporti, tariffe utenze, ecc.) e consenta l’accesso a convenzioni stipulate da Stato ed enti locali con grandi operatori privati nella distribuzione di beni e servizi. Scontistica e agevolazioni devono crescere in ragione del numero di figli, soprattutto per il terzo.


Il riconoscimento del ruolo della donna.

Sostenere la famiglia nella sua soggettività, diversa da quella dei singoli familiari, non significa rinunciare a comprendere il ruolo specifico che all’interno di questa comunità intermedia svolgono i suoi componenti. Ciò consente di capire se, in funzione del bene familiare, sono necessarie forme d’intervento mirate a sostenere il ruolo particolare di alcuni componenti, e in specie quello della donna-moglie-madre. Si tratta del ruolo probabilmente più importante all’interno della famiglia, capace di dare equilibrio grazie alla praticità, alla sensibilità e alla carica affettiva della donna (quello che è indicato come “genio femminile”); un ruolo insostituibile soprattutto in relazione alla cura dei figli. Tale ruolo deve essere letto anche alla luce dei mutamenti socioculturali che hanno investito la famiglia, non ultimi la maggiore scolarizzazione della donna, il suo ingresso nel mondo del lavoro, il suo contributo al bilancio familiare.

La donna si trova oggi in grave difficoltà nello svolgere con soddisfazione i suoi ruoli familiari e sociali. Scegliere di dedicarsi interamente alla famiglia, visto l’attuale regime fiscale, per molte risulta un lusso. La scelta di realizzarsi anche nel lavoro, di converso, risulta difficile da conciliare con il lavoro domestico, vista l’attuale rigidità del mercato del lavoro - ancora ritagliato su un modello prettamente maschile - e la carenza di strutture di servizio; senza contare che spesso di scelta non si tratta, poiché capita a molte donne di essere costrette a lavorare dai problemi economici. Tutti questi elementi influiscono pesantemente sulla serenità familiare, sulla salute della donna, sottoposta a notevoli stress, e sul suo desiderio di maternità, che pure, come confermano le ricerche, resta alto.

In queste condizioni, come i dati mostrano chiaramente, l’occupazione della donna influisce negativamente sul numero dei figli (le donne che lavorano sono il 36% nelle famiglie con un figlio, il 20% con tre figli). Aggiungiamo i costi indiretti (assistenza, spostamenti, ecc.) che in Italia, più che nelle altre nazioni dell’Europa, gravano sulle donne. Non da ultimo, la procreazione è sentita sovente come una responsabilità troppo gravosa, a causa dell’insicurezza sulle condizioni sociali, della confusione sulle prospettive per il futuro, dei costi determinati dalla prolungata permanenza dei figli nelle famiglie. Diventa quindi improcrastinabile soddisfare l’esigenza di condizioni più favorevoli alla procreazione.


In primo luogo, al fine di favorire la conciliazione dei ruoli della madre che lavora, lo stesso Consiglio europeo raccomanda come linea guida quella di favorire:

a) Una politica del lavoro che garantisca la donna nella scelta della maternità, incentivandola tramite: assicurazioni di reintegrazione nel mondo del lavoro e nell’accesso alla carriera anche dopo aver usufruito di periodi di aspettativa nei primi anni di vita dei figli; diffusione e reale accesso a modelli di lavoro parziale, anche con flessibilità del passaggio dal full-time al part-time (modelli diffusi in tutta Europa e ostacolati in Italia); estensione dei tempi di congedo parentale retribuito (anche qui in molti Paesi si fa meglio di noi).

b) Una rimodulazione degli orarî dei servizi cittadini (negozî, scuole, uffici), secondo criterî di flessibilità (in ogn caso rispettosi degli operatori di tali servizi), per venire incontro alle esigenze della madre divisa tra occupazioni diverse.

c) Una politica dei servizi che non lasci la donna solitaria protagonista della cura dei figli e degli anziani. I servizi devono rispondere a requisiti di qualità ben precisi (sviluppando, nel caso di bambini, un metodo pedagogico), devono essere economicamente vantaggiosi, accessibili in modo facile sul territorio, con flessibilità dell’orario legata al mondo del lavoro. Attualmente tali servizi sono disponibili per meno del 10% dei bambini e ragazzi sotto i 15 anni, ad eccezione di Svezia e Danimarca (dove ne usufruiscono i due terzi della popolazione); in Francia il 30% dei bambini tra i 6 e i 10 anni ha la possibilità di accedere a strutture che permettono custodia e ricreazione. Giova ribadire che le caratteristiche di queste strutture devono essere tali (ad esempio con modulazioni di costi e tetti d’orario) da assistere le madri in momenti particolari, e non da sostituirle, poiché non è un obiettivo di utilità sociale tenere un bambino tutto il giorno lontano da casa (si veda il caso degli asili nido, che devono essere disponibili come risposta a situazioni di necessità, ma che non costituiscono un valido modello educativo capace di sostituire la cura materna).

d) Incremento, a favore delle lavoratrici che sono state impegnate nella cura dei figli, del beneficio ai fini pensionistici (periodo valido come contribuzione o per la diminuzione dell’età di pensionamento): dagli attuali tre mesi per ogni figlio, previsti dalla riforma Dini, ad almeno due-tre anni (parallelamente all'equiparazione dell'età di riferimento a quella maschile).


Oltre alle politiche per la conciliazione dei ruoli, è necessario sviluppare una politica socio-previdenziale per la madre non lavoratrice, la casalinga, penalizzata gravemente ancora oggi dal sistema sociale italiano, che non riconosce il valore anche economico delle mansioni da lei svolte, negandole i diritti concessi alla madre lavoratrice (pensione, assicurazione contro gli infortunî; sia detto, al proposito, che la recente “assicurazione per le casalinghe” è poco più che una presa in giro). Secondo un caso di scuola, se un uomo sposa la sua domestica, abbassa il reddito nazionale: le stesse mansioni, infatti, svolte da una donna sposata non vengono più conteggiate nel PIL. Lo Stato, anzi, grava talvolta la madre di doveri di assistenza di supplenza rispetto al servizio pubblico (l’assistenza dei disagiati mentali e fisici gravi è di fatto, in Italia, a carico esclusivo delle famiglie).
Questa discriminazione nasce dal singolare incrocio tra una cultura di stampo patriarcale, che riteneva sufficiente tutelare i diritti del capofamiglia lavoratore perché fossero da ritenersi tutelati i diritti di tutta la famiglia; ed una cultura ultrafemminista, che riteneva alienante e umiliante, per una donna, dedicarsi esclusivamente al lavoro domestico. La concezione moderna e liberale dello Stato esclude che questo possa farsi portatore di un suo personale progetto etico; un progetto che, sotto le insegne di una presunta e forzata emancipazione femminile, finisce per imporre modelli di vita prestabiliti e contrastare le libere aspirazioni della persona. Anche la scelta delle donne - in Italia restano la maggioranza - che si dedicano interamente alla famiglia deve essere rispettata e tutelata.

Da questa breve panoramica risulta evidente che una politica sulla famiglia non può più prescindere da una riforma complessiva del Welfare. La maternità non si può considerare come una questione unicamente individuale e privata, o tipicamente femminile, ma come un evento che riguarda la sopravvivenza della nostra società; i problemi della famiglia si traducono infatti in problemi di noi tutti, sempre più gravi negli anni a venire.


(Il nucleo di quest’articolo - ora completamente riveduto ed ampliato - è stato parte del documento predisposto per il meeting di Vallombrosa del 26-28 giugno 1998)



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