Un alpino italiano distribuisce aiuti a Kabul
Come agire nello scenario mediorientale, i cui fuochi sembrano non spegnersi? E in particolare, quale atteggiamento deve assumere l’Italia? Ogni presa di posizione sull’atteggiamento da tenere in Medio Oriente (Afghanistan, Iran, Iraq) dovrebbe anzitutto presupporre un’esatta comprensione della tragedia dell’11 settembre 2001, quella degli attacchi terroristici alle Twin Towers di New York.
Molti ragionano come se l’11 settembre fosse stata una parentesi che si è aperta e si è chiusa con la successiva spedizione in Afghanistan, per rovesciare il regime talebano che proteggeva Al Qaida. “Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scurdammose ’u passato” ….
Si tratta di un grave sbaglio, che non permette di comprendere la situazione attuale.
Quel che sfugge a molti è che gli Stati Uniti (e noi con loro, nonostante qualcuno fatichi a comprenderlo anche dopo gli attentati di Madrid e Londra) sono in guerra. Una guerra che non hanno dichiarato, ma hanno subìto. L’11 settembre è stato l’acme di un attacco all’Occidente che ha radici lontane, e che è stato mosso dalla galassia del terrorismo islamista.
L’attacco alle Torri Gemelle è stato più grave dell’attacco dei Giapponesi a Pearl Harbor (che - è il caso di ricordarlo - portò all’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra mondiale). Essere colpiti nelle loro città ha generato negli Americani un profondo senso di insicurezza, per cui il primo punto dell’agenda del Governo statunitense (se vi fosse stato un democratico alla Casa Bianca, sarebbe stata la stessa identica cosa) è divenuto garantire la sicurezza nazionale.
L’azione militare degli Stati Uniti non si è conclusa con la spedizione in Afghanistan del 2002, per due semplici ragioni.
La prima – come purtroppo constatiamo in questi giorni - è che i talebani non sono stati ancora sconfitti, ma sono presenti in larghe parti del territorio afghano.
La seconda è che il nemico non è uno Stato nazionale, né si può ridurre ai soli talebani. Il nemico è il terrorismo islamista, che ha numerose facce e articolazioni. E’ presente in numerose regioni, dalla Somalia alle Filippine, ed anche in gruppi di immigrati dei Paesi occidentali. E’ finanziato da potenti gruppi economici. Alcuni governi sono loro stessi sostenitori di una politica terroristica (pensiamo ad Hamas in Palestina, alla Siria, all’Iran, il cui Presidente dice che Israele deve essere cancellato dalla faccia della terra).
Il nemico di cui parliamo resta pericoloso: oltre agli attentati che hanno fatto centinaia di vittime (nei treni di Madrid, nella metro di Londra, nelle discoteche di Bali, negli alberghi di Sharm El Sheik, ecc.), numerosi sono stati gli attentati sventati, tra cui uno all’ambasciata americana a Roma. Proprio di questi giorni è la notizia che il numero tre di Al Qaida, Khaled Sheikh Mohammed, ideatore degli attentati a New York e Washington, ha confessato di averne pianificati numerosi altri non andati a buon fine, tra cui quello a Giovanni Paolo II a Manila, nelle Filippine, in occasione della giornata mondiale della gioventù del 1995.
Oltre al rischio attentati, abbiamo di fronte altri rischi enormi: quello della bomba atomica che vuole costruire l’Iran, quello di nuovi attacchi missilistici contro Israele da parte degli Hezbollah libanesi...
Quindi, è ovvio che la guerra in Afghanistan non poteva essere che la prima fase di una più generale e vasta controffensiva volta a smantellare l’organizzazione terroristica internazionale. Bush parlò sin dall’inizio di una guerra che sarebbe durata “molti anni”.
Prendere atto di questa realtà non significa approvare ogni singola mossa dell’amministrazione U.S.A., che certamente ha fatto molti errori. Ma i ragionamenti devono partire dai fatti, e non dai paraocchi di un’antiamericanismo ottuso (del tipo “l’imperialismo americano è il principale ostacolo alla pace nel mondo, per cui bisogna sostenere chiunque, con qualsiasi mezzo, aggredisca gli U.S.A.”).
Per combattere il terrore, come abbiamo già avuto modo di analizzare in dettaglio, bisogna percorrere numerose vie, diverse dalle azioni militari. Servono, innanzitutto, una presa di coscienza e un’azione culturale che cerchi e sostenga interlocutori moderati, capaci di isolare gli integralisti. Serve un lavoro di intelligence. Serve una politica di promozione dello sviluppo (pur sapendo che non sono le “ingiustizie” la causa principale di questo conflitto). Serve un’azione diplomatica che non si basi solo sulla persuasione, ma anche sulla fermezza: bisogna costringere i Paesi (Iraq, Iran, Siria, Sudan ecc.) che finanziano, addestrano e ospitano i terroristi a mutare radicalmente la loro politica.
Qualcuno ha osservato: gli attacchi ad Afghanistan ed Iraq non hanno piegato il terrorismo, quindi la forza è inutile. Distinguiamo.
L’azione militare è sempre un'ipotesi estrema, ma in Afghanistan era assolutamente necessaria. E' stata voluta dall'ONU, e vi hanno partecipato tutti i Paesi occidentali. La base principale di Al Qaida è stata smantellata (anche se l'organizzazione è diffusa capillarmente in tutto il mondo), e dall’11 settembre gli Stati Uniti non hanno più subìto attentati sul proprio territorio. E' anche vero che l'Afghanistan è un territorio grande e ostico, che non può essere occupato militarmente. Di un sostegno militare ha però bisogno il Governo eletto, per impedire i ricatti dei talebani alla popolazione.
Quanto all'Iraq, invece, è discutibile se quell'azione fosse necessaria alla prevenzione del terrorismo. Ma bisogna anche dire che gli errori fatti - in un'ottica militare - sono stati errori di debolezza: la "dottrina Rumsfield" (l'ex Segretario di Stato USA) di una guerra 'leggera', con pochi uomini e senza presidiare il territorio, si è rivelata sbagliata.
Un conto è lavorare alacremente per evitare il ricorso alla forza (elaborando però alternative serie, non generici appelli al dialogo), altro conto è escludere la forza per principio: ciò indebolirebbe la stessa azione diplomatica, la quale ha bisogno di fermezza e rigore. Il pacifismo di Monaco 1938 non salvò la pace, ma portò alla Seconda Guerra mondiale. Essere accondiscendenti oggi con il regime di Teheran potrebbe portare a breve ad un conflitto atomico.
Le scelte opportunistiche (come quelle della Francia di Chirac), le ritirate precipitose dopo un attentato (come la Spagna di Zapatero), le concessioni ai terroristi (come l’Italia di Prodi) indeboliscono la posizione della comunità internazionale e allontanano proprio la possibilità di una soluzione pacifica.
Venendo alla posizione che dovrebbe assumere l’Italia, pensiamo che sia necessario evitare atteggiamenti che non sono utili ad affrontare il terrorismo e ci fanno perdere di credibilità sia rispetto agli interlocutori mediorientali sia rispetto agli alleati (al di là e al di qua dell’Atlantico: non si era mai verificato che ambasciatori di Paesi amici esprimessero pubblicamente e congiuntamente la loro preoccupazione). Non si tratta di scegliere tra “sudditanza” o “autonomia” dagli Stati Uniti. Il fatto è che, se non vogliamo rimanere ai margini della scena internazionale, se vogliamo contribuire alla costruzione della pace, dobbiamo dimostrare la volontà di collaborare con chi è in prima fila per garantire la nostra sicurezza.
In concreto: dobbiamo sostenere senza riserve i nostri militari laddove (Afghanistan) siamo impegnati in una missione ONU per difendere un Governo democraticamente eletto, ed impedire che la resistenza dei talebani restituisca entusiasmo ai terroristi. Una capacità di risposta militare seria (non possiamo stare in zona di guerra con le scacciacani...) è indispensabile per salvaguardare la stessa incolumità dei nostri soldati e degli operatori umanitari.
Dobbiamo anche – adesso che siamo nel Consiglio di sicurezza ONU – essere fermi nella linea delle sanzioni all’Iran (prima che sia troppo tardi).
Dimostrando che le nostre scelte non sono dettate da calcoli egoistici, saremo credibili anche proponendo eventualmente soluzioni diverse da quelle su cui sono orientati i nostri alleati.