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Teorie e "scuole" nella psicoterapia Stampa E-mail
Le grandi differenze che attraversano i labili confini tra scienza ed esperienze umane
      Scritto da Redazione
11/12/06

psicoterapia.jpgMolti di noi sanno – o hanno sentito – che esistono diverse metodologie per affrontare i problemi di carattere psicologico. E questo a volte genera, comprensibilmente, un certo smarrimento: chi ha ragione? Chi adotta la metodologia più sicura ed efficace? Che cosa dice la “scienza” in materia? Non basta una “pillola”?

In linea generale, un disagio psichico può essere affrontato o per via farmacologica o mediante psicoterapia. Precisiamo subito che col termine “psicoterapia” si intende quell’intervento clinico continuato nel tempo che si propone di “alleviare il disagio e l'infermità psicologica mediante mezzi psicologici, di solito le parole” (Frankl).
La scelta tra via farmacologica e psicoterapia dipende sia dal tipo di disturbo sia dalla gravità dello stesso; i due percorsi si possono integrare, ed essere portati avanti in collaborazione da professionisti diversi.

Per poter fare una scelta corretta, la persona che deve sottoporsi a una cura (o i suoi familiari) ha bisogno ovviamente del consiglio di un professionista qualificato. Ma la serietà del professionista non significa – soprattutto nel campo della psicoterapia – uniformità di metodologia: come stiamo per vedere, esistono diverse metodologie, diverse scuole di pensiero. È importante allora da parte del paziente, anche ai fini di un “consenso informato”, non soltanto la scelta di un professionista “qualificato”, ma la consapevolezza del tipo di metodologia proposta.

Esistono infatti terapie (soprattutto quelle di tipo psicoanalitico) che si basano su principî antropologici ben precisi, i quali possono non essere gli stessi che hanno costruito l’esperienza di vita del paziente, formando il suo sistema di valori. In questo caso, si potrebbe creare nel paziente un conflitto interno, tale da non aiutarlo a raggiungere quella forma di equilibrio che possiamo definire “guarigione”. Se, ad esempio, una persona sentisse definire una propria convinzione profonda – ideale, religiosa – come un “tabù” da rimuovere, o come semplice compensazione di un istinto represso, questa ‘via d’uscita’ potrebbe creargli confusione ulteriore.

A meno che il paziente non accetti - consapevolmente e preventivamente - di aprirsi ad un mutamento della propria prospettiva di vita, del proprio sistema di valori, vissuto come atto di libertà e di rinnovamento. Ma se questa scelta di cambiamento non fosse consapevole, se il terapeuta lasciasse sorgere l’equivoco che si tratta dell’unica via d’uscita “scientifica e clinicamente corretta”, saremmo di fronte, più che a un intervento clinico di sostegno, a un intervento di “riprogrammazione mentale”…

I rischi evidenziati, lo ripetiamo, sono connessi ai principî stessi che fondano alcune scuole di psicoterapia, e possono presentarsi anche con il più prudente e rispettoso degli psicoterapeuti, che cercasse di “adattarsi” per quanto possibile al profilo del paziente.
Ben più grave, naturalmente, sarebbe il caso di un terapeuta che (qualunque sia la "scuola" cui si ispira) fosse talmente presuntuoso – o inesperto - da considerare “sana” solo la propria visione della vita, e talmente avventato da tentare di sovrapporre questa visione a quella del paziente, per “curarne” idee o situazioni di vita considerate “patologiche”…

È in ballo la libertà della persona umana: nessuno può sostenere “scientificamente” che esistano idee “sane” ed idee “malate” (casomai la nevrosi risiede nella dissociazione tra idee e comportamenti). Possiamo parlare di idee “giuste” o “sbagliate”, ma questo è un discorso che non è di carattere medico-scientifico.
Se volgiamo un istante lo sguardo al dibattito culturale e politico, anche lì non è rara la tentazione di sovrapporre indebitamente i due piani (etico e medico): ad esempio, etichettando come “fobìe” idee differenti dalle proprie…

A questo punto cerchiamo di illustrare, sia pure con un tratto velocissimo, i diversi indirizzi nel campo della psicoterapia (o, declinando al plurale, le diverse psicoterapie).

Questa pluralità nasce di solito da una differente valutazione delle cause che conducono ai disturbi mentali; ne consegue, dunque, una differente valutazione dei rimedi da adottare. Le diverse scuole cercano sovente di porsi come discipline “scientifiche”; ma esistono evidentemente numerose difficoltà – rispetto ad altre scienze naturali – a seguire un metodo scientifico oggettivo e rigoroso; difficoltà dovute anche alla grande complessità dell’ “oggetto” di studio e intervento: la psiche umana.

Tra le numerose scuole di psicoterapia, possiamo individuare alcuni filoni principali (che al loro interno, a loro volta, possono conoscere numerose diversificazioni).


Il primo filone ha un’impostazione medico-psichiatrica (con metodo diagnostico-nosografico a logica nomologico-deduttiva): si sforza di individuare oggettivamente – con metodo scientifico sperimentale - il caso clinico, e di curarlo sulla base di terapie di cui si è verificata una reale efficacia nella letteratura medica.
All’interno di questo filone, “la Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale (Cognitive-Behaviour Therapy, CBT) è attualmente considerata a livello internazionale uno dei più affidabili ed efficaci modelli per la comprensione ed il trattamento dei disturbi psicopatologici. La teoria di fondo (…) sottolinea che non sarebbero gli eventi a creare e mantenere i problemi psicologici, emotivi e di comportamento, ma questi verrebbero piuttosto largamente influenzati dalle strutture e costruzioni cognitive dell'individuo. La psicoterapia cognitivo-comportamentale si propone, di conseguenza, di aiutare i pazienti ad individuare i pensieri ricorrenti e gli schemi disfunzionali di ragionamento e d'interpretazione della realtà, al fine di sostituirli e/o integrarli con convinzioni più funzionali” (www.apc.it).
La Psicoterapia Cognitiva, basandosi - come detto - su uno sforzo di oggettività e di valutazione dell'efficacia dell'intervento, normalmente ha una durata di breve-medio periodo (da poche sedute a sei mesi / un anno), e si presta a sinergie con il trattamento farmacologico.


Un’attenzione minore all’esigenza di rigore scientifico (che non significa necessariamente inefficacia della terapia) la si ritrova nelle discipline ad impostazione ermeneutica (con metodo clinico-interpretativo, basato sulla circolarità del comprendere), le quali cercano di cogliere la complessità dell’esistenza, andando oltre i limiti “riduzionistici” cui può portare una visione dell’uomo (e del paziente) troppo materiale e ricondotta a casi clinici definiti.
Questa impostazione è tipica della “psichiatria (e psicoterapia) c.d. fenomenologica”. In essa, in primo luogo, si cerca di comprendere la persona aprendosi ai contributi delle altre discipline e scienze umanistiche (filosofia, sociologia, antropologia, religione). In secondo luogo, la comprensione del paziente e della sua patologia può avvenire solo nella dimensione della relazione antropologica, dell’intersoggettività, mirate a cogliere la singolarità e l’unicità della persona. La “terapia” si traduce non necessariamente in un “fare”, che vuole condurre il paziente da uno stato (“patologico”) ad un altro (“sano”); ma prima ancora in uno “stare insieme”, che aiuti il paziente ad una comprensione maggiore di sé e della sua dimensione esistenziale (fisica, relazionale, trascendentale).
Un tale approccio terapeutico si traduce, più che in un metodo, in un atteggiamento; un approccio che richiede – lo si capisce bene – terapeuti di solida formazione (non solo specifica, ma anche culturale), grande esperienza, profonda umiltà nel guardare la realtà della persona che si ha di fronte, capacità anche di utilizzare criterî di valutazione dell’efficacia dell’intervento (per evitare il rischio di ricorrere a strumenti di autovalidazione, inquadrando le reazioni del paziente solo nelle proprie teorie). Non è facile, naturalmente, trovare professionisti di tale spessore: per cui l’approccio fenomenologico (che può essere utilizzato anche come integrazione e stimolo critico di altri metodi), fortemente innovativo, non è altrettanto diffuso.


I filoni di psicoterapia di tipo “analitico” si differenziano dai precedenti perché danno importanza prevalente all’indagine (“analisi”) dell’ “inconscio”, cioè della sfera della personalità più intima e inconsapevole, che il terapeuta deve aiutare a far emergere. Quest’approccio apre nuove prospettive, ma anche un doppio ordine di perplessità: sia in ordine alla libera volontà dell’individuo (che in alcune impostazioni rischia di essere limitata – o annullata - dalle pulsioni inconsce, che produrrebbero effetti deterministici); sia in ordine alla “scientificità” rivendicata da alcune scuole, soprattutto dalla psicanalisi freudiana.
La questione della scientificità non è irrilevante, non è materia riservata agli specialisti: nel senso comune popolare (che non ha esatta percezione dei limiti delle scienze...) "scientificità" equivale ad "attendibilità", efficacia, verità. Per una disciplina, potersi fregiare della qualifica di "scientifica" vuol dire possibilità di attrarre le persone, di avere influenza culturale, riconoscimenti accademici, ecc.

Psicanalisi” (o “psicoanalisi”) in senso stretto è la teoria – elaborata da Sigmund Freud - che propone un modello di funzionamento della mente e dei comportamenti dell'uomo in dipendenza dall'inconscio, dai sogni, dalla sessualità infantile; da questa teoria discende anche un metodo terapeutico per la cura delle nevrosi, la "psicoterapia psicoanalitica" (che illustreremo tra poco).
Sulla “scientificità” della psicanalisi si è svolto un aspro dibattito. La pretesa di scientificità fu avanzata dallo stesso Freud, soprattutto perché – sotto l’influsso del positivismo - aveva una visione abbastanza meccanicistica del funzionamento della psiche (anche se introdusse elementi simbolici che costituirono un grande passo avanti rispetto ad una visione puramente chimico-organica dei processi mentali). La “scientificità” della psicanalisi continuano a sostenerla gran parte dei suoi fautori, anche se poi, molti di essi, parlano di criterî di scientificità “specifici”, “peculiari”; insomma, diversi dal “metodo” richiesto dalla comunità scientifica internazionale. Grandi epistemologi come Popper hanno negato in assoluto la scientificità della psicanalisi, evidenziando ad esempio come essa non risponda al criterio fondamentale della “falsificabilità”: i criterî di validazione che la psicanalisi si è data sono talmente articolati da divenire criterî di autovalidazione, che non consentono mai di individuare se una terapia è sbagliata, e quindi la sua reale efficacia.
Le perplessità suscitate dal metodo adottato nelle terapie, nonché quelle relative a molti aspetti teorici, non negano naturalmente gli apporti innovativi e determinanti - l’approfondimento della dimensione dell’ “inconscio” - forniti dalla psicanalisi agli studi sulla psiche umana.
Perplessità ancora maggiori, però, ha suscitato la pretesa di Freud, e di alcuni suoi discepoli, di un'applicazione della psicanalisi ai fenomeni culturali: arte, etica, religione. La pretesa, insomma, di non essere solo teoria della nevrosi, ma di farsi anche teoria generale della cultura (metapsicologia): interpretando la sfera dei "valori" sociali, spirituali, religiosi, come semplici "sintomi" clinici, manifestazioni di nevrosi, compensazioni per i sacrifici istintuali che la convivenza sociale (il Super-Io) impone. Leonardo da Vinci, per fare solo un esempio, avrebbe "superato con la forza dell'arte l'infelicità della sua vita amorosa, creando figure in cui la beata fusione della natura maschile con quella femminile rappresenta l'appagamento dei desideri del fanciullo infatuato della propria madre" (!) (da Opere, vol. VI, p.258). Un tentativo simile di farsi teoria generale della cultura fu quello del materialismo storico e dialettico marxista, che interpretava la sfera dei valori come "sovrastruttura" dei rapporti economici di classe. Le conseguenze per la libertà umana - come abbiamo evidenziato in precedenza - sono terribili: viene negata sia la capacità creativa, sia la capacità di riconoscere e accettare l'altro-da-sé (umano e trascendente). La storia dell'uomo viene reinterpretata svalutando proprio ciò che lo contraddistingue in quanto uomo...
Si è trattato di un tentativo di "invasione di campo" non sorretto da alcun metodo oggettivo, ma solo da analogie e congetture; un tentativo, dunque, abbandonato anche dalla maggior parte di coloro che, dopo Freud, hanno sviluppato la teoria psicanalitica. Eppure le suggestioni create nel costume sociale, in una certa cultura "orecchiata", sono state molto importanti, e permangono anche oltre la sconfessione dei presupposti teorici. Un approfondimento di questi aspetti, però, ci porterebbe oltre il campo d'indagine - una breve carrellata nel mondo della psicoterapia - che ci siamo proposti con questo articolo.
Veniamo dunque alla "psicoterapia psicanalitica": essa si fonda su un percorso di consapevolezza che mira a far emergere alla coscienza emozioni, pulsioni, fatti, che sono stati “rimossi”, sepolti e dimenticati nell’inconscio, producendo le nevrosi. L'obiettivo è quello di rielaborare tali "rimozioni", nella convinzione che ciò sia sufficiente a risolvere il problema, o a convivere con esso. Una terapia psicanalitica richiede una notevole assiduità (più volte a settimana) e una lunga durata (diversi anni; con costi economici notevoli…).
Nel corso del tempo si sono sviluppate scuole "neofreudiane" che hanno messo in discussione numerosi punti definiti dal fondatore: in particolare il primato assegnato alle pulsioni sessuali nello sviluppo della personalità, e alla “repressione” di tali pulsioni quale causa di nevrosi. Inoltre, queste nuove scuole hanno assegnato maggior rilevanza agli aspetti socio-culturali (qualche volta cadendo nell'eccesso opposto, ossia sostituendo il determinismo biologico freudiano con un determinismo sociologico).

Dal tronco della psicanalisi si sono distinte più nettamente altre correnti importanti, due delle quali ci sembrano le più rilevanti.

La “psicologia analitica” fondata da Carl Gustav Jung, comunemente conosciuta come  “analisi junghiana”, è una tra le più diffuse psicoterapie di tipo analitico. L’inconscio, per Jung, non è solo il contenitore dei complessi e dei traumi rimossi, ma ha una sua fisionomia originaria che guida le esperienze individuali. Tale fisionomia comprende anche una dimensione spirituale, archetipi sociali ed universali, per cui - accanto all'inconscio personale - si può individuare un "inconscio collettivo". Jung rifiuta altresì un metodo troppo astratto, ritenendo che debba essere adattato alla singola persona. Scopo della terapia è – mediante il processo di “individuazione” – aiutare il paziente a scoprire la sua vera identità, e convivere con essa.

La “logoterapia” fondata da Victor Frankl ha assunto tratti ancora più originali. Frankl sottolinea l’esigenza di una maggiore apertura all’integrazione con altri metodi terapeutici, raccogliendo così alcuni spunti forniti dall’esperienza fenomenologica e dal metodo ermeneutico. La logoterapia, rifiutando una visione “deterministica”, nega che nella persona umana vi sia una dipendenza esclusiva dalle pulsioni istintive o dall'identità inconscia (e nega dunque che tali fattori siano l’origine delle nevrosi). Il bisogno fondamentale dell’uomo è il “bisogno di senso” della vita; la nevrosi principale (dovuta alla mancanza di esso) è il sentimento di “insignificanza”. La “terapia della parola” deve aiutare il paziente a riscoprire un suo senso dell’esistenza.



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