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Libri - Recensioni e Profili
"Il reduce" (dai CCCP a Ratzinger...) Stampa E-mail
Lo storico leader del gruppo musicale di estrema sinistra, Giovanni Lindo Ferretti, si racconta
      Scritto da Jacopo Guerriero
01/12/06
ferretti_giovanni_lindo_canta_cccp.jpg
Ferretti sul palco ai tempi dei CCCP

Giovanni Lindo Ferretti, Il reduce
ed. Mondadori, Milano 2006

Giovanni Lindo Ferretti era il leader dei CCCP, celebre complesso punk-rock nato negli anni ’80, di ispirazione dichiaratamente comunista (CCCP, lo ricorderete, era l’acronimo – in caratteri cirillici – dell’Unione Sovietica…). Il suo percorso artistico è passato - negli anni ’90 - per i CSI (altra sigla che ricorda l’aggregazione delle repubbliche post-sovietiche - il motto era "fedeli alla linea" -, ma anche l'inizio di uno smarrimento ideologico conseguente alla fine di quel mondo); per poi approdare, con molti componenti della vecchia band, ai PGR (Per Grazia Ricevuta). Un percorso artistico intrecciato con un percorso umano di riavvicinamento al cristianesimo che egli stesso racconta in un libro, la cui recensione è apparsa su Avvenire del 1 dicembre 2006.


È, dall'inizio, un percorso di conversione. E' anche storia che spiega la correlazione stretta tra mistica e punk. C'era un tempo in cui il nostro protagonista cantava allucinato corse veloci di fianco al muro, e «non so, non voglio sapere che differenza fa». Quelli erano gli anni della scena. Quando Giovanni Lindo Ferretti, storico frontman dei CCCP, poi dei PGR, era teso a immortalare desideri di algido misticismo propri dell'umanità intera. Passione integralista, ansia rivoluzionaria, si sentiva nelle sue canzoni il desiderio di evadere dalla prigione dell'io. Cosa è cambiato dall'epoca?

Per capire bisogna leggere il primo libro che Ferretti ha scritto. Si intitola Il reduce e l'ha appena pubblicato Mondadori (pagine 120, euro 13): qualcosa di più di un'autobiografia. Quasi una storia familiare, invece, che Ferretti ha dato alle stampe per raccontare l'esistenza romita e montanara che è tornato a condurre, di nuovo nei luoghi della tradizione di famiglia, l'Appennino emiliano, dopo gli anni dell'esposizione pubblica. Della ritrovata religiosità, della sua passione per i volumi di Benedetto XVI («mi ero stufato di leggerne su Repubblica tutto il male possibile. Sono andato in libreria e ho scoperto un genio», scrive), delle coraggiose prese di posizione pubbliche in occasione del referendum sulla fecondazione assistita, molti hanno già largamente detto.

Non del clamore delle sue scelte, ma della quotidianità di Ferretti bisogna però ragionare per accorgersi della profondità della sua svolta. E' necessario entrare in una vita fatta ora di ascesi e di lunghe letture (da Sant'Alfonso Maria dei Liguori ad Hannah Arendt, fino a don Giussani), di cavalcate solitarie nei boschi e di passione per il repertorio popolare della musica sacra. Nel ricordo costante di una educazione contadina alla religiosità, che pure nel musicista ha lasciato traccia fino ad oggi. L'approdo al cattolicesimo, racconta più volte Ferretti, è in realtà un ritorno a casa. Dai tempi dei primissimi rudimenti cristiani appresi dalla nonna, è nato per Ferretti un legame d'acciaio con tutto un microcosmo alle cui tradizioni e ai cui piaceri Ferretti è tornato ora a dedicarsi. Realizzando il suo percorso dai concerti live in Punkow fino alla conversione e alla preghiera che animano ora le sue giornate...

Qualche parola, in vero, andrebbe spesa per difendere Ferretti da una sorta di linciaggio multimediale di cui è facile rendersi conto semplicemente digitando il suo nome in rete, nella barra di un qualsiasi motore di ricerca. Ma «io offro la sincerità del mio percorso - ha spiegato ancora di recente - e del resto mi importa poco. Ho convissuto a lungo con pensieri insignificanti rispetto alla comprensione del mondo. Aveva ragione Wojtyla: anche per me è stato un male necessario. E qui ho riscoperto il cristianesimo».

Se non altro per prossimità intellettuale, non stupisce allora che un'anima rigorosa - come quella di Ferretti, appunto - abbia il coraggio dello choc, del passaggio dal campo vuoto, banalmente estetico, alla sfera cristiana. Anche se poi la tentazione di sprofondare resta. A giocare verrebbe da dire che Ferretti, uno che scriveva di cupe vampe - tanto per citare il titolo di una delle sue canzoni più note, dedicata alla deflagrazione della guerra serbo-bosniaca - non sembra affatto sfuggire a questo rischio. Proprio per questo motivo appassiona nelle sue pagine la volontà di raccontare una geografia di luoghi e di animali, di vite, passate e future, immagini e misure vive e organiche. Prende colore il racconto dell'artista, che divide tempo della storia e tempo del borgo, e quasi con serenità narra una vita agreste, irriducibile alla secolarizzazione moderna, senza scadere nell'ideale bucolico. C'è una forte pulsione narrativa in questo riconoscimento, che conduce al desiderio di raccontare le esistenze di una minoranza, di chi cioè, legato alla prima dimensione, può coltivare ancora una sorta di realismo magico, o meglio un senso del mistero, che gli animali proteggono addirittura meglio degli uomini.

Alla fine della lettura, veloce, si ha la sensazione di avere di fronte un uomo e non una cartolina. Non è un poco, a confrontare le biografie di un'infinita teoria di eroi della scena del '77, condannati a parlarsi addosso o a chiudersi in un ostinato silenzio che sono in egual modo nostalgia psicologica, in fondo sentimentale, per un'epoca che hanno saputo incarnare, ma che è fuggita.



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