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Temi caldi - Pace, terrorismo
I nodi della pace tra israeliani e palestinesi Stampa E-mail
La pace in Medio Oriente passa per il riconoscimento del diritto di Israele all'esistenza
      Scritto da Emilia Riccardi
08/11/05
Ultimo Aggiornamento: 09/01/09

Il sogno di vedere le bandiere israeliana e palestinese sotto l'egida della pace“Ebrei, andatevene in Palestina”
(scritta su un muro di Parigi durante la Seconda guerra mondiale)

“Ebrei, fuori dalla Palestina”
(scritta su un muro di Parigi oggi)


Sappiamo quanto il Medio Oriente sia stato causa, negli ultimi decenni, di tragici conflitti che hanno avuto ripercussioni anche da noi: ripercussioni dirette negli anni '70 e '80, quando in l'Europa ha agito il terrorismo di matrice palestinese; ripercussioni indirette oggi, che il terrorismo islamista utilizza la "questione palestinese" come giustificazione (o alibi) per le proprie azioni. In ogni caso, è opinione generale che la pace tra israeliani e palestinesi avrebbe riflessi di pace molto più vasti.

Tutte le volte che riesplode l'incendio, però, assistiamo - a livello internazionale - a generiche e retoriche condanne della violenza "di entrambe le parti", ad "appelli al dialogo". Appelli che hanno certamente un valore se provengono da autorità religiose e culturali; ma che suonano insopportabilmente ipocriti quando provengono dalle autorità politiche internazionali che avrebbero il potere (e il dovere) di incalzare le parti in causa, perché giungano ad accordi di pace concreti.

Per venire all'attualità. E' senz'altro giusto condannare le reazioni eccessive di Israele, laddove si rivelino effettivamente tali. Ma queste condanne non hanno senso se non ci si pone il problema del disarmo di Hamas, che da Gaza fa piovere razzi sulle città israeliane (come periodicamente fanno anche gli Hezbollah dal Libano). Più in generale: quali pressioni reali si fanno sulle parti per giungere ad una soluzione stabile dei problemi dell'area?

Il problema mediorientale è spesso definito, semplicemente, come "questione palestinese", alludendo alla necessità dei palestinesi, che vivono in parte in territori occupati da Israele, di avere un proprio stato. Ma questa definizione dimentica un aspetto ancora precedente: il rifiuto di larga parte del mondo arabo della presenza di ebrei (ma anche di cristiani, in Libano) organizzati in uno stato sovrano.

Sarebbe lungo ripercorrere in dettaglio la storia dei rapporti tra le due parti. Ma un breve cenno può aiutare a capire quali diffidenze profonde si siano sedimentate.

Già da fine '800 il Movimento sionista internazionale ritenne che i territori dell'antico Israele - che in quel momento erano un protettorato inglese, la Palestina, e dove sopravvivevano alcune comunità giudaiche - potevano diventare rifugio per gli ebrei della diaspora, che si sentivano minacciati dall'antisemitismo, e promosse la costituzione di alcune colonie agricole. L'immigrazione proseguì negli anni, soprattutto nelle zone meno abitate, anche se limitata dagli Inglesi a causa delle proteste arabe. L'olocausto di milioni di ebrei durante la seconda guerra mondiale fece diventare pressante la soluzione del dramma del popolo ebraico: le Nazioni Unite nel 1947 si pronunciarono in favore della nascita di due stati indipendenti, uno arabo e l'altro ebraico, con Gerusalemme sotto il controllo internazionale. Decisione giusta? Decisione ingiusta fonte di dolorosi strascichi? Quello che appare certo - agli occhi del buon senso - è che non si possono riportare indietro le lancette dell'orologio della storia, senza creare problemi e tragedie più grandi. Se si dovesse dare la stura a tutte le vecchie rivendicazioni territoriali esistenti al mondo...

Fatto sta che allora quella decisone delle Nazioni Unite fu rifiutata dagli stati arabi (Egitto, Iraq, Siria, Giordania, Libano), che nel 1948 attaccarono il nascente stato di Israele. Questa prima guerra arabo-israeliana - durante la quale fuggirono dal territorio israeliano mezzo milione di arabi, dando origine alla questione dei profughi - si concluse a inizio 1949 con la vittoria di Israele. All'armistizio non seguì però un trattato di pace, perché l'esistenza dello stato ebraico non fu mai accettata dagli stati arabi circostanti. Seguirono altre tre guerre, durante le quali Israele - sempre vittorioso - occupò anche alcuni territori circostanti per proteggere i suoi confini troppo insicuri: Sinai (dell'Egitto), Golan (della Siria), Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est (territori di uno stato palestinese che ancora non era nato compiutamente, anche perché sino al 1967 erano occupati da Egitto e Giordania che si rifiutavano di renderli autonomi).

Questi brevi cenni bastano a capire come ogni trattativa sia vissuta dalle parti con grandi pregiudizi verso la sincerità degli altri: fare concessioni incaute può mettere a rischio la propria sopravvivenza. Per cui abbiamo sin qui assistito al circolo vizioso per cui da un lato Israele, sentendosi accerchiata, difende la propria sicurezza con pochi scrupoli; e dall'altro lato i palestinesi radicalizzano ancor di più le violenze.

Se l'obiettivo di una pace vera, come proclamano tutti, può essere raggiunto solo con la formula "due stati per due popoli", allora bisogna che entrambe le parti riconoscano all'altra il diritto ad esistere. Questo riconoscimento non può essere solo verbale, ma deve offrire concrete garanzie di sicurezza: non si può vivere con la spina di attacchi missilistici o attentati omicidi, e non deve esistere neanche astarattamente la possibilità che l'esistenza di una parte possa essere compromessa dall'attacco di un'altra.
Ebbene sembra che il riconoscimento di fondo all'esistenza e alla sicurezza di uno stato ebraico manchi ancora dalla parte araba.

In questo momento la parte "forte", che deve fare le maggiori concessioni, è Israele. Oltre a fare le necessarie concessioni territoriali, Israele deve riuscire a far sì che le azioni militari davvero necessarie alla sua sopravvivenza non sconfinino in rappresaglie che non rispettano i diritti umani. Deve superare la diffidenza verso i proprî cittadini di fede islamica o cristiana. Deve avere un atteggiamento più dialogante con le istituzioni mondiali, senza vedere dappertutto segnali antisemiti e minacce alla propria sicurezza. Bisogna però riconoscere a Israele di aver sciolto il nodo di fondo, accettando il principio che debba nascere uno stato palestinese, e dimostrandolo concretamente con la disponibilità agli accordi di Camp David, nel 2000, fatti naufragare all'ultimo dallo scomparso leader palestinese Arafat. Inoltre, dopo il ritiro dal Sinai concordato con l'Egitto, sono seguiti atti coraggiosi come il ritiro unilaterale dal Libano meridionale e - più di recente - da Gaza; se però la "ricompensa" della buona volontà è che questi territori diventino basi missilistiche...

La parte "debole", che ha sin qui più sofferto, è quella palestinese. Invochiamo la sicurezza dello stato di Israele, ma lo stato che ancora non esiste è quello dei palestinesi. I quali, però, sembrano prigionieri di posizioni oltranziste, continuano a vedere gli ebrei come usurpatori e in larga parte negano il diritto di Israele ad esistere.

Un diritto che è stato riconosciuto solo da poco nella carta fondamentale dell'ANP (Autorità nazionale palestinese, l'approdo istituzionale dell'OLP - Organizzazione per la Liberazione della Palestina), controllata fino a poco tempo fa dal partito Fatah (fondato da Arafat; partito che oggi occupa la carica di Presidente dell'ANP, alla quale i palestinesi hanno eletto Abu Mazen).

Ma quel diritto è negato apertamente dagli integralisti della Jiahd islamica e, soprattutto, di Hamas; nonché dai guerriglieri sciiti Hezbollah, presenti in Libano e legati a filo doppio all'Iran.

La negazione del diritto ad Israele ad esistere non si limita alle dichiarazioni di principio: non appena sembra che i dialoghi di pace facciano un passo in avanti, subito partono gli attentati terroristici volti a boicottarli... La ANP fino ad oggi non avuto il coraggio di combattere gli estremismi, anzi a volte li ha utilizzati - come fece Arafat - per accrescere il proprio 'potere contrattuale'. Così, ai proclami di buona volontà pronunciati di fronte agli interlocutori esteri, si affiancano i propositi bellicosi ad uso interno. Gli attentati terroristi vengono ufficialmente condannati, ma gli organizzatori non vengono perseguiti e i kamikaze vengono venerati come "martiri". Si lascia che palestinesi sospettati di attività spionistica a favore di Israele (anche se spesso si tratta semplicemente di oppositori politici) vengano linciati senza processo. Nei mezzi di comunicazione vengono alimentate vere campagne di odio contro gli ebrei, per esempio rilanciando i famigerati Protocolli dei savi di Sion, o con soap opera che dipingono gli ebrei come gretti e violenti. Stesso clima nelle scuole, dove viene insegnata una storia a senso unico. Nelle colonie estive per bambini da sei a quattordici anni viene impartito - anche alle bambine - un addestramento militare, e vengono insegnate canzoncine del tipo: "Avanti con la spada / gli Israeliani li cacceremo tutti in mare" oppure "I bambini, i bambini per la patria / sono nelle squadre dei martiri / Quando la bomba esplode / mentre grido Allah è grande / allora sto davvero tornando a casa / all'amata terra di Gerusalemme".

Le due parti, per fare concessioni, avrebbero bisogno di fidarsi; ma certo non le aiuta una certa abitudine mediorientale alla doppiezza. Basti ricordare un aneddoto. Nell'aprile del 2002 Arafat tenne un discorso davanti ad una platea internazionale, promettendo la moralizzazione dell'ANP, discorso che si concluse con una frase sibillina: "Ma ricordiamoci sempre di Chudaibiah". Una frase a cui non diede peso chi non ne conosceva il significato. Ebbene, Arafat alludeva ad un celebre episodio della vita di Maometto, in cui il profeta, durante la guerra contro le tribù rivali, promise solennemente di non ritornare nella città di Chudaibiah per dieci anni; ma non tenne fede alla promessa, e da allora "patto di Chudaibiah" sta per patto che non si ha intenzione di rispettare. Ed anche gli Israeliani non scherzano, quando fanno ricorso senza tanti complimenti ad azioni "non convenzionali" (uccisioni mirate, attentati dei servizi segreti).

Bisogna riconoscere che c'erano stati sviluppi positivi con l'avvento alla guida di Fatah e alla presidenza dell'ANP del successore di Arafat, Abu Mazen (nome "di battaglia" di Mahmoud Abbas), che sembra avere il profilo di una persona seria e di buona volontà. Anche le prime elezioni democratiche (presidenziali e politiche), seppure espressione di una democrazia ancora imperfetta (in presenza di una corruzione generalizzata), erano state un grande passo in avanti: la tradizionale formula "due stati, due popoli" sembrava evolversi verso quella "due democrazie, due popoli" (invocata anche da un autorevole esponente della sinistra italiana, il segretario dei DS Fassino).

Ma il compito di Abu Mazen restava difficilissimo: convincere il suo popolo, indottrinato sin qui sulla necessità di eliminare Israele, che invece è necessario considerare gli Israeliani come vicini con cui convivere; riuscire a disarmare le milizie (finanziate da Iran, Arabia, Siria) che garantiscono il potere di alcun gruppi tribali. Abu Mazen si trovava al bivio tra due strade: ripiegare sulla linea anti-israeliana, per evitare una guerra civile interna; oppure combattere gli estremisti, rischiando che qualcuno lo facesse fuori (ha già subito attentati).
Ha scelto una via di mezzo, che non ha potuto frenare l'ascesa violenta degli estremisti islamici di Hamas. I quali prima hanno vinto le elezioni parlamentari, favoriti dalla diffusa corruzione tra i precedenti governanti. E poi, nel giugno 2007, hanno sferrato l'attacco finale per la presa del potere a Gaza, eliminando fisicamente gli avversari politici appartenenti al partito Fatah.

Per cui l'aspirazione allo Stato palestinese sembra infrangersi con la realtà di due statarelli instabili: uno laico-nazionale in Cisgiordania, dove Fatah è ancora forte, ma è ostaggio delle sortite terroriste ogni volta che cerca le via del dialogo con Israele. Ed uno integralista islamico nella striscia di Gaza, che ha come vessillo la distruzione di Israele.

Gli altri Paesi arabi ed islamici, anziché impegnarsi per sostenere la pace, hanno sempre assecondato (e finanziato) l'oltranzismo palestinese, prigionieri sia dell'ideologia estremista che vuole la "liberazione del suolo arabo", sia del vittimismo che, come abbiamo visto nell'articolo sulle cause del terrorismo, ama scaricare i propri problemi sociali su un nemico esterno, "crociati e sionisti". E su questa scia si inseriscono le recenti dichiarazioni incendiarie di Mahmoud Ahmadinejad, presidente dell'Iran (uno degli stati islamici più grandi - e più armati), che ha apertamente dichiarato la volontà di cancellare lo Stato di Israele, "rigettando a mare" gli ebrei, minacciando anche i governi arabi e musulmani che non seguano questa politica; senza contare altre dichiarazioni sconcertanti, come la negazione dell'olocausto ebraico. Minacce che non restano verbali, visto che l'Iran controlla, finanzia e arma gli Hezbollah libanesi... Gli unici Paesi che sembrano usciti - sia pure con timidezza - dalla spirale anti-israeliana sono Egitto e Giordania. La speranza è che la diffusione della democrazia nei Paesi arabi possa accrescere il sentimento di pace.

Gli Europei, negli anni passati, hanno dimostrato maggior simpatia per l'OLP. Un forte sostegno sia diplomatico sia economico: se il Piano Marshall (realizzato dagli americani a nostro favore dopo la seconda guerra mondiale) prevedeva 68 dollari a persona, la comunità internazionale, dal ’93, dona 310 dollari annui a ciascun palestinese! Però questo sostegno non è mai stato condizionato (almeno fino all'ascesa al potere di Hamas) a nessun progresso dei palestinesi sulla via della moralizzazione interna e della rinuncia ad ogni violenza; per cui ne ha di fatto avallato le posizioni oltranziste, rallentando il cammino della pace, indebolendo l'autorevolezza dell'Europa nel chiedere a Israele maggiori concessioni.
Ed anche con Hamas, che rinnovava i proclami terroristi, si è avuto un atteggiamento ambiguo, nelle convinzione utopista che l'esperienza di governo avrebbe trasformato magicamente i fondamentalisti in persone ragionevoli e moderate. Col risultato di indebolire Abu Mazen e favorire la guerra civile palestinese.

Le cause di questa miopia europea? Qualche venatura antisemita (anche se camuffata da "antisionismo"), ma, soprattutto, il solito antiamericanismo di fondo, che ha portato a vedere Israele come un avamposto degli USA.

Per questo, la fiaccolata organizzata il 3 novembre 2005 dinnanzi all'ambasciata iraniana a Roma, contro le dichiarazioni del suo presidente, ha avuto un nuovo significato. Non solo solidarietà verso il popolo israeliano (che va a braccetto con quella verso il popolo palestinese); ma anche il segno di una nuova politica europea, di inflessibilità per chiunque neghi il punto di partenza del cammino di pace (il fondamentale diritto dei due stati ad esistere) e alimenti una spirale di violenza. Non dimentichiamo che l'Iran si sta adoperando per creare la bomba atomica, senza incontrare sin qui una significativa opposizione da parte europea; e che Israele la bomba atomica ce l'ha già, e non si farebbe scrupoli ad usarla se lo ritenesse necessario per la sua sopravvivenza...

Se si scioglie il nodo di fondo - il reciproco riconoscimento - sarà possibile affrontare i nodi concreti ancora in sospeso.

Alcuni dei territori occupati da Israele sono stati restituiti: Sinai, Golan, Gaza. Resta il problema della Cisgiordania, che costituisce la parte maggiore del futuro stato palestinese. Si tratta però di un territorio che si incunea nel suolo israeliano e nel quale sono state create numerose colonie ebraiche. Israele non ritiene di poter consentire la nascita - in pratica - al proprio interno di uno stato ostile, e vuole assolute garanzie di sicurezza sorrette da un impegno internazionale degli altri stati arabi. C'è poi il problema di Gerusalemme (entrambe le parti, ufficialmente, la reclamano per intero) e dei discendenti dei profughi arabi fuggiti da territori israeliani nel 1948. Sul problema profughi Israele è irremovibile: consentire l'ingresso al suo interno e concedere la cittadinanza a milioni di persone, che sostengono di essere discendenti di quei profughi, è per gli ebrei una richiesta antistorica, che ha l'unico scopo di metterli in minoranza nel loro stesso stato, per poterlo distruggere dall'interno. Su Gerusalemme, invece, l'ipotesi di compromesso di Camp David sembra una buona base di partenza; magari riconoscendo a quella città anche uno statuto garantito in sede internazionale, come suggerito dalla Santa Sede.

Questi nodi potranno essere sciolti con un paziente lavoro diplomatico - le cui linee sono tracciate dalla cosiddetta road map - se entrambe le parti matureranno la consapevolezza che si tratta dell'unica via d'uscita e che le posizioni intolleranti non troveranno nessun appoggio esterno.

Bisogna però aggiungere che ai nodi concreti, ai risentimenti per i torti subìti, si affiancano pregiudizi ideologici.

C'è storicamente un diffuso antisemitismo nel mondo arabo, che non rifuggì (anche per questo motivo, oltre che per ostracismo ai dominatori inglesi) da alleanze con la Germania nazista, prima e durante la Seconda Guerra Mondiale. Resite un diffuso antisemitismo in Europa (anche se si compiace di definirsi "antisionismo": "non ce l'abbiamo con gli ebrei, ma con la politica del loro Stato". Sempre e comunque?). L'antisemitismo europeo alligna anche - e oggi dovremmo dire soprattutto - a sinistra, poiché Israele, Stato democratico ad economia di mercato, storicamente difeso dagli Stati Uniti, è visto come "avamposto del capitalismo e dell'imperialismo americano".

Il pregiudizio anti-israeliano e il conflitto permanente rischiano di radicalizzarsi se lo stato integralista costruito da Hamas nella striscia di Gaza diverrà una roccaforte terroristica.

Non mancano poi, in alcune componenti ebraiche, diffidenze radicate contro arabi e  cristiani.

Cristiani che - sia detto per inciso - in Medio Oriente recitano la parte dei vasi di coccio tra i vasi di ferro, vittime di angherie e costretti sempre più spesso ad emigrare. A Gerusalemme nel 1948 erano 30.000, con una normale crescita demografica avrebbero dovuto essere oggi 120.000. E invece sono 15.000. Un secolo fa i cristiani erano il 10 per cento della popolazione tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Oggi sono meno del 2 per cento: circa 130.000 in Israele e 50.000 nei Territori e a Gaza. Il problema è approfondito nel libro di Elisa Pinna, Tramonto del cristianesimo in Palestina, Piemme, Casale Monferrato, 2005, pp. 238.

Insomma, oltre al lavoro diplomatico, è anche necessario - come sempre - un grande lavoro culturale.



Giudizio Utente: / 29

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