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Un vera riforma del calcio passa per un riequilibrio economico
      Scritto da Guido Liguori e Antonio Smargiasse
26/09/06
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Per il nuovo calcio il modello NBA?

(pubblicato il 26-9-2006 su Il Manifesto)

L'antinomia tra apocalittici e integrati proposta su queste pagine da Alberto Piccenini sembra appropriata anche per la lettura del penultimo capitolo di Calciopoli, le dimissioni di Guido Rossi. Segno inequivocabile, per i primi, del fallimento di qualsiasi speranza di rinnovamento del calcio italiano; passaggio fondamentale, per i secondi, al fine di ripristinare una normalità offesa dal decisionismo irriguardoso dell'«argonauta». Stando ai fatti, tale contrasto non è facile da capire. Perché ciò che non si riesce a individuare è il tema stesso del contrasto, ovvero il rinnovamento. Eventi di rilievo hanno sconvolto il football nostrano. Ricambio dei vertici della Federazione e della sezione arbitrale, rinnovamento degli organi inquirenti e giudicanti, due scudetti revocati, retrocessa la Juventus, penalizzazioni mai viste, dimissioni del presidente della Lega, ecc. Si è discusso e si discuterà sul processo, e sui processi, attraverso cui si è arrivati a tutto ciò. Per alcuni punizioni troppo blande e giustizia quasi «taroccata», per altri procedimenti privi di garanzie e punizioni esagerate. Ma tutto questo, comunque lo si giudichi, non poteva e non doveva essere confuso con la sostanza del rinnovamento del calcio italiano. Perché è stato colpito - per citare Brecht - solo chi ha rapinato la banca, non chi l'ha fondata.

Eliminare la struttura - secondo l'immagine efficace (dal punto di vista culturale, meno da quello giuridico) di «illecito strutturato» proposta da Borrelli - che attraverso gli illeciti controllava mercato, prestazioni arbitrali, politica federale, contratti televisivi era un passaggio obbligato per rilanciare un sistema in crisi di credibilità. Era necessario liberare il calcio italiano da quelle escrescenze che ne stavano minando le fondamenta: chi rapina la banca, sia chiaro, va punito. Bene o male l'operazione è stata portata a termine: non sarà un punto in più o in meno di penalizzazione a connotarne la natura. Quello che si poteva fare in base agli elementi acquisiti e alla legislazione in vigore, la Federazione commissariata lo ha fatto.

Ma la trasformazione del calcio post-calciopoli è ancora tutto da avviare. Il presidente della Lega Matarrese non perde occasione per ribadire che le regole attuali vanno bene, bisogna solo farle rispettare. La Confindustria del pallone, insomma, fa capire di trovare ancora pienamente accettabile il compromesso tra grandi e piccole società su cui si fonda il nostro campionato. Consentendo alle prime di dominare la scena e alle seconde di cogliere, di tanto in tanto, qualche momento di gloria. Da parte dei cosiddetti riformatori continuano invece ad alternarsi balbettii contraddittori e proclami di rinnovamento intransigente. Progetti però zero. Soprattutto nessuna idea di organizzazione del calcio professionistico italiano alternativa a quella che da decenni i padroni del vapore (i fondatori della banca, appunto) hanno saputo imporre.

Juventus, Milan e Inter, in virtù di decenni di dominio e della solidità economico-politica dei loro azionisti di riferimento, sono diventati la banca centrale, l'ossatura finanziaria, il nervo produttivo del calcio italiano. Il loro potere reale sta oggi, soprattutto con l'avvento del neocalcio, anche nella capacità di tradurre il consenso di una massa enorme di tifosi in contratti (televisivi, di sponsorizzazione) talmente vantaggiosi da scavare un solco incolmabile per qualsiasi altra società italiana di calcio. L'intero edificio economico, politico, giuridico, addirittura culturale del nostro calcio è costruito in ossequio a questo dato di fatto. Con il mercato che spinge inevitabilmente i flussi della ricchezza verso le casse delle tre squadre del MI-TO. La cacciata dei briganti, auspicabile e moralmente doverosa, produrrà (forse) un riequilibrio delle forze all'interno del trio. Ma non sposterà di un millimetro il gap che dal trio separa tutte le altre società.

Un progetto riformista non può affidarsi solo ai principi dell'onestà e della rettitudine morale: l'obiettivo di un «calcio normale» è riduttivo e deviante, in un contesto che può essere sconvolto dalle ricchezze di un qualsiasi petroliere russo. Anche ammesso che in un calcio pulito, privo di malaffare, trionfi chi più merita, a meritare sarà inevitabilmente chi è più ricco. La bravura non potrà che essere proporzionale alla ricchezza. Una riforma reale del calcio italiano allora non può che puntare a norme che depotenzino il peso della ricchezza. Parrebbe andare in questo senso la proposta della contrattazione collettiva dei diritti televisivi. Restano però da definire i criteri secondo cui la Figc distribuirebbe alle squadre di A il frutto di tale contrattazione. E anche questo sarebbe un primo passo assolutamente insufficiente. La svolta autentica sarebbe porre il calcio di fronte a un'altra logica, sia pure sempre di mercato. Non più le singole società libere di valorizzare il proprio marchio, bensì una Federazione tesa a valorizzare l'immagine dell'intero campionato. Non c'è da inventarsi nulla, il modello c'è già, è quello della Nba, il basket professionistico statunitense. L'intero sistema del calcio italiano (e del football europeo) è finalizzato alla valorizzazione di un numero limitato di squadre, che sono più ricche, che comprano i giocatori migliori, che quindi sono più brave e che dunque vincono tutti i titoli disponibili. Nella Nba invece il campionato valorizza se stesso ampliando il livello di competitività al proprio interno. La logica è: maggiore è il numero delle squadre capaci di competere per il titolo, più cresce l'interesse per il torneo. E più vale il campionato sul mercato. Di qui tutta una serie di misure volte a limitare accumulazioni eccessive, bulimie e ipertrofie dei singoli club.

Servivano segnali orientati in questa direzione. Non ne sono arrivati, né da parte della Federazione, né da parte del governo, pure così puntuale negli interventi sulla vicenda calcistica nazionale. Gianni Minà ha lamentato pericoli di restaurazione. Rivoluzioni, francamente, noi non ne abbiamo viste.



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