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Economia - Notizie e Commenti
I nuovi padroni senza volto delle aziende italiane Stampa E-mail
Sono i fondi di private equity. Ecco chi sono (e come operano) i protagonisti del nuovo capitalismo.
      Scritto da Edmondo Rho
09/10/06
private_equity.jpgHanno nomi sconosciuti ai più come Blackstone o Pai. Si sono comprati oltre mille imprese e marchi storici, dalla Galbani alla Rinascente. Sono i fondi di private equity. Ora anche la Wind sta per passare sotto il loro controllo. Ecco chi sono (e come operano) i protagonisti del nuovo capitalismo.

Alzi la mano chi sa che cos'è la Blackstone. O chi c'è dietro la Pai. Eppure all'ombra di queste misteriose sigle si sta giocando la partita per il controllo di alcune tra le più famose aziende italiane. Il fondo americano Blackstone potrebbe diventare il proprietario della Wind mentre la francese Pai ha appena comprato i grandi magazzini Coin-Oviesse. Non sono casi isolati. Ormai, come annuncia l'Harvard business school, siamo entrati nel «nuovo capitalismo finanziario» che sta cambiando le regole del gioco anche in Italia. Forse non tutti se ne sono accorti, ma tanti marchi sono finiti sotto il controllo di padroni senza volto, fondi che investono in tutto il mondo in società con potenzialità di crescita per risanarle e rivenderle dopo qualche anno.

Dai formaggi della Galbani ai traghetti Grandi navi veloci, dalle Pagine Gialle alle moto Ducati, dagli yacht Ferretti fino all'ultimo colpo: la Rinascente. Un affare da 888 milioni di euro che ha visto tra i protagonisti Stefano Miccinelli, Dario Cossutta e Antonio Tazartes, i partner della società di private equity Investitori Associati. Il loro fondo chiuso infatti è diventato il primo azionista (con il 46 per cento) dei grandi magazzini venduti dall'Ifil degli Agnelli. Ma al di fuori degli addetti ai lavori pochi lo hanno notato, tanto più che il tam tam mediatico si è concentrato sugli altri soci della cordata, la famiglia Borletti (che ha appena il quattro per cento), e i gruppi immobiliari Pirelli Re (20 per cento) e Deutsche Bank real estate (30). E i manager di Investitori Associati? Nell'ombra, anche a livello di comunicazione: perché chi gestisce un fondo chiuso resta dietro le quinte.

Fino agli anni Ottanta e Novanta i protagonisti delle acquisizioni di aziende erano finanzieri e industriali come Gianni Agnelli, Carlo De Benedetti o Raul Gardini, dai volti ben noti al grande pubblico. Quindi, negli anni delle grandi privatizzazioni, nuovi personaggi – Roberto Colaninno prima e Marco Tronchetti Provera poi – si sono impadroniti di megasocietà come Telecom Italia.

Ora invece, sempre più spesso, marchi noti sono conquistati dal private equity: oltre ai già citati Pai e Blackstone (dietro il quale secondo alcuni potrebbe nascondersi Colaninno), la Bc partners, fondo chiuso paneuropeo che ha il suo quartier generale a Londra, si è presa la Galbani, mentre Permira, il più grande fondo europeo, si è aggiudicato gli yacht della Ferretti. La Fiat Avio è andata agli americani di Carlyle. L'olio Carapelli è della Bs private equity, mentre per la Seat pagine gialle si sono messi insieme quattro fondi italiani e internazionali (Bc partners, Cvc, Permira e Investitori Associati). Quanto a Clessidra, il più grande fondo chiuso sul mercato italiano (800 milioni di euro raccolti l'anno scorso) gestito da Claudio Sposito, ex amministratore delegato della Fininvest, ha appena comprato la Sisal.

Una corsa all'acquisto che non si limita ai grandi nomi ben noti al grande pubblico, ma comprende anche medie e piccole imprese meno famose. «Alla fine 2004 i 97 operatori di private equity in Italia risultavano i nuovi proprietari di ben 1.150 aziende, con un investimento complessivo di oltre 9 miliardi di euro» spiega Anna Gervasoni, direttore dell'Aifi, l'associazione italiana del private equity e venture capital, anticipando dati che saranno presentati il 4 aprile nel convegno annuale della categoria.

La caratteristica fondamentale di questi operatori è che, di solito, acquisiscono le partecipazioni nelle aziende con l'obiettivo di rivenderle entro tre-cinque anni. Ma chi li finanzia? In genere gli investitori istituzionali, che versano cifre variabili tra 10 e 40 milioni di euro ai fondi di private equity internazionali. Ma gli investitori istituzionali, a loro volta, non fanno che girare ai fondi chiusi i quattrini che hanno in gestione. Per esempio, i fondi pensione e gli investitori istituzionali all'estero, in media, investono fino al 5 per cento del loro patrimonio in private equity. «Insomma, alla fine il vero padrone dell'azienda è la vecchietta dell'Ohio che, tramite il suo fondo pensione, affida i suoi risparmi a professionisti che hanno come unica logica il rendimento» sostiene Edoardo Lanzavecchia, managing director per l'Europa del Carlyle group. Funziona? Secondo i dati dell'Aifi, non va affatto male, se è vero che il private equity in Italia ha reso mediamente circa il 17 per cento all'anno nell'ultimo decennio. Gli insuccessi, comunque, non mancano: anche perché l'investimento è rischioso e volatile. Per esempio, la Piaggio è stata venduta con un'enorme perdita dal fondo chiuso di Morgan Grenfell a Colaninno, che ora invece può guadagnare grazie a un nuovo ciclo positivo dell'azienda che ha creato la Vespa.

Capita anche che le famiglie di imprenditori possano prendere il posto degli operatori di private equity. Lo dimostra, per esempio, il caso della 21 Investimenti che fa capo ad Alessandro Benetton. Era una holding di partecipazione, da quest'anno si è trasformata in una società di gestione di fondi di private equity che opera tra Italia e Francia. Le aziende partecipate (tra cui quella dei peluche Trudi) sono circa 35 con un valore di 500 milioni di euro, mentre in cassa da investire ci sono altri 170 milioni. E non è un caso unico. A Brescia un gruppo di imprenditori, professionisti del private equity e docenti universitari hanno creato il fondo Impresa finanza che punta sulle aziende energetiche. La particolarità? Possono investire anche i comuni risparmiatori, con una cifra minima teorica di 50 mila euro.

Il boom del private equity in Italia è testimoniato da un altro dato dell'Aifi: i fondi chiusi italiani avevano in tasca al 31 dicembre scorso ben 4,8 miliardi di euro disponibili per nuovi investimenti. «Nei primi mesi del 2005, si sono perfezionate importanti operazioni come Rinascente e Coin che erano state preparate l'anno scorso» spiega Gervasoni. I manager di Investitori Associati, per esempio, che si finanziano per l'85 all'estero tramite fondi pensione e operatori internazionali specializzati nel private equity (in Italia i principali investitori sono Banca Intesa, Generali, De Agostini e Ras) hanno iniziato a spendere nella Rinascente i 700 milioni di euro raccolti l'anno scorso con il loro quarto fondo (il primo fu lanciato nel 1993).

Tra le più recenti operazioni del private equity, poi, c'è la Marazzi, azienda di ceramiche modenese nel cui capitale sono entrati due fondi chiusi, la Permira con il 28 per cento e la Private equity partners, presieduta da Fabio Sattin, con il 5 per cento. Obiettivo probabile nel medio termine: la quotazione in borsa. L'approdo in Piazza Affari, del resto, è una delle possibili conclusioni di queste operazioni, anche se non sempre coincide con la contemporanea uscita dell'investitore finanziario. Simone Cimino, amministratore delegato del fondo italo-francese Cape Natexis, è rimasto per esempio con il 18 per cento nel capitale della Trevisan, azienda produttrice di infissi, anche dopo la quotazione in borsa.

Ma quali imprese in vendita finiscono nel mirino del private equity? Di solito, questi fondi acquisiscono società non quotate. Oppure, se si tratta di imprese quotate, comprano pacchetti di maggioranza e poi lanciano un'opa per rastrellare i titoli residui sul mercato. Come è avvenuto nel caso delle due più grandi operazioni del 2004: la Saeco (rilevata dal fondo francese Pai e poi cancellata dal listino di borsa) e la Grandi navi veloci, acquisita da Permira. Conferma l'amministratore delegato, Guido Paolo Gamucci: «In tutta Europa il private equity ha mostrato interesse per le aziende quotate con flottante più scarso, che spesso sono state tolte dal listino».

Secondo il private equity monitor, l'osservatorio dell'Aifi e dell'Università di Castellanza con Argos Soditic Italia, Ernst & Young e Bnl, l'impresa-tipo che interessa i fondi chiusi è a proprietà familiare, quasi sempre con sede nel Nord Italia (spesso in Lombardia) e un numero di dipendenti compreso tra 50 e 150. Il fatturato, invece, si colloca mediamente tra i 30 e i 60 milioni di euro, mentre il prezzo pagato non si discosta molto dal fatturato. Paolo Baretta, managing partner di Bs private equity, precisa: «Il cuore del mercato sono operazioni che vanno da 5 a 50 milioni di euro, e noi siamo specializzati in questa fascia».

Spesso, l'arrivo di un fondo chiuso può risolvere uno dei maggiori problemi delle aziende a conduzione familiare: la difficile successione di padre in figlio. A questo proposito, Franco Carlo Papa, presidente di Ernst & Young financial-business advisors, sostiene che per la crescita del settore in Italia occorre capire «l'importanza del contributo manageriale che un fondo è in grado di offrire». Ma davvero la modernizzazione del capitalismo italiano passa attraverso il private equity? «A volte, quando acquisiamo un'azienda, veniamo visti con sospetto dai politici» risponde Fabio Sattin, presidente della Private equity partners. Ma ora anche questa diffidenza sta venendo meno. Un caso per tutti? Il governatore del Piemonte, Enzo Ghigo, ha proposto di recente che un fondo chiuso rilevi i crediti della Fiat verso le aziende dell'indotto automobilistico. Private equity, a salvare un settore da 50 mila posti di lavoro, provaci tu.

 

IDENTIKIT DEL MERCATO FONDI
In Italia operano 97 fondi specializzati nel private equity e nel venture capital. Di questi, 19 si definiscono «paneuropei», mentre 13 fanno capo a banche italiane.

AZIENDE
A fine 2004 il portafoglio complessivo dei fondi operanti in Italia risultava composto da 1.150 aziende con un investimento di 9 miliardi di euro. E le società hanno ancora a disposizione 4,8 miliardi da spendere.



(Panorama - 4 aprile 2005)



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