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Nel Mondo
Dobbiamo avere paura del "drago" cinese? Stampa E-mail
Il boom cinese e la stagnazione italiana. Alcune considerazioni
      Scritto da Alessio Finocchiaro
21/05/06

grattacieli_cina.jpgNegli ultimi anni, specialmente a causa di una stagnazione economica ed un fenomeno d’inflazione che non accennano a diminuire, gli Italiani si sentono sempre ripetere ossessivamente dai media che le difficoltà del nostro sistema produttivo nascono dall’invasione di prodotti cinesi a prezzi stracciati. Qualcuno, addirittura, si sbilancia indicando la slealtà con la quale si piazzano prodotti con marchi contraffatti e certificazioni false, che riescono ad eludere i controlli alle frontiere.

E ancora, si sente dire che è impossibile competere con un’industria (quella cinese), in cui il costo del lavoro è bassissimo, dove non esistono tutele sindacali, e dove, in molti casi, si hanno forme di sfruttamento della manodopera che rasentano lo schiavismo puro.

C’è sicuramente qualcosa di vero in queste argomentazioni, ma è sufficiente tutto ciò per gettare la spugna e darsi per vinti? E’ proprio vero che il "drago" cinese ci travolgerà con le sue fiamme?

Vediamo prima cosa è accaduto, poi cosa sta facendo l’industria italiana per reagire, ed infine cosa si potrebbe fare ulteriormente.

1. COSA E’ ACCADUTO

La Cina conta un miliardo e 294 milioni di abitanti (!) ed è geograficamente il 3° paese più grande del mondo. Nel decennio 1982-1992, la Cina è stato il paese con la crescita economica più alta del mondo, con 10,2% di aumento medio annuo del Prodotto Interno Lordo reale.

Nel decennio 1992-2002, tale crescita è stata del 9,3% annuo.

Naturalmente, una cosa è l’incremento dell’1% di una potenza produttiva già enorme come quella USA, un’altra è l’incremento dell’1% di un sistema economico che incomincia a svilupparsi.

Tuttavia, questi sono numeri che fanno riflettere, specialmente alla luce della scarsa crescita Europea ed alla stagnazione italiana (le quali hanno certamente una buona correlazione tra loro).

Ma come, la Cina non era un paese comunista? Sì, lo è ancora, ma nel 1986 la Cina fa domanda ufficiale per essere riammessa nel GATT – l’organismo predecessore del World Trade Organisation (WTO) -, da cui è uscita nel 1949 con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese, e viene ammessa a pieno titolo nel 2001.

Cosa significa ciò? Significa che l’appartenenza della Cina al WTO le consente di usufruire delle regole uniformi di 147 paesi membri (tra cui le maggiori potenze economiche del mondo) che disciplinano il commercio multilaterale tra i paesi stessi (per es. dal commercio di beni e servizi, ai diritti alla proprietà intellettuale, ed agli investimenti), regole che sono ispirate ai principi del libero commercio.

Inizia da questa data la lunga marcia Cinese verso quello che viene definito il “socialismo di mercato”. In Cina, lo Stato conserva una posizione dominante, ma le sue funzioni vengono gradualmente messe al servizio dell’economia di mercato. Una quota di produzione sempre maggiore viene sottratta alla pianificazione statale e trasferita al libero mercato, dove gli imprenditori, a fronte della possibilità di appropriarsi degli eventuali guadagni, si assumono il rischio di invenduto. Accanto ai colossi statali, vengono istituite le “imprese di città e di villaggio”, piccole unità produttive che dipendono dalle amministrazioni locali.

Oltre a ridimensionare il ruolo dello Stato, il governo cinese cerca di attrarre gli investimenti diretti esteri e introduce importanti riforme nel sistema fiscale, finanziario e legale. Insomma, dalla seconda metà degli anni ’90 ci si rende conto che queste timide liberalizzazioni riescono a far fare in pochi anni un "grande balzo in avanti" che 56 anni di comunismo non sono riusciti a fare.

La grande crescita cinese è stata ed è così sbalorditiva, che ha provocato un improvviso incremento della domanda di petrolio ed altre fonti di energia e di materie prime (dal ferro all’alluminio, dal rame ai prodotti chimici di base). Purtroppo noi Occidentali, oltre a vedere i nostri porti ed aeroporti stipati di containers di merci a basso costo “Made in China”, abbiamo assistito ad un’impennata dei prezzi che ha turbato la stabilità dei costi alla produzione all’interno dei sistemi economici occidentali. (Fino a qualche anno fa il prezzo medio di un barile di petrolio era di circa $30, oggi è di $67!!).

2. COSA STA FACENDO L’ITALIA PER REAGIRE?

In una prima fase, il nostro paese ha tentato di reagire in seno all’Unione Europea, con attività di lobbying, sperando di attenuare la severità delle norme comunitarie che vietano aiuti di Stato alle imprese in difficoltà (per es. contributi a fondo perduto, la possibilità di trasferire forza lavoro in esubero nei mille anfratti della Pubblica Amministrazione, etc. etc.)

Tuttavia, questa strada ha dimostrato le sue storture per il semplice motivo che tali provvedimenti “scaricano”(come sempre) il rischio di impresa sulla collettività e sui contribuenti, nonché discriminano quelle piccole e medie imprese che, sottoposte alla concorrenza autentica, magari sono le più competitive e sane, ma non sono sufficientemente grandi (o sufficientemente coordinate tra loro) per fare “pressione politica” su Bruxelles e Roma.

In una seconda fase, le imprese italiane hanno spinto per una riduzione del costo del lavoro, adducendo che altrimenti sarebbe impossibile sostenere la concorrenza cinese. Anche questa soluzione è irta di insidie, perché se da un lato ridurre il costo del lavoro potrebbe ridurre le tutele dei lavoratori, dall’altro sarebbe una soluzione parziale al problema. Oltretutto è attualmente molto difficile superare le barricate (non solo figurate) che i sindacati opporrebbero, dato il potere di lobbying e l’ostinazione ideologica tipica di questi ultimi.

Vero è che in Italia il cuneo fiscale è altissimo (ossia la differenza tra ciò che il datore di lavoro-imprenditore paga all’Erario ed ai vari enti previdenziali e ciò che il lavoratore riceve in busta paga). Ed in effetti non si capisce perché il datore di lavoro si deve accollare tutta la previdenza del lavoratore impiegato, se già contribuisce alla collettività con le imposte progressive (in altre parole, non si capisce perché il datore di lavoro deve farsi carico di tutte le tutele del dipendente, considerando che sugli utili grava sia l’imposta sul reddito di impresa, sia l’Irap, sia l’imposta progressiva sulle persone fisiche sugli utili distribuiti, ma già depurati dall’imposte sul reddito di impresa quando questi utili si creano). Insomma, le solite incongruenze del fisco italiano (e le solite ingiustizie dello Stato onnivoro sia verso i dipendenti, sia verso i datori di lavoro).

Una terza strada percorsa è stata quella della tutela dei marchi, e dei copyrights, al fine di ridurre il fenomeno (frequentissimo) di falsificazione e contraffazione dei prodotti del Made in Italy.

Infine, un’ultima strada è stata quella di chiedere dazi doganali per i prodotti cinesi, un provvedimento chiesto in seno all’UE (l’Unione Europea, nonostante tutta la retorica, è tecnicamente un’Unione Doganale, e quindi i dazi per le transazioni UE – Resto del Mondo sono decisi a Bruxelles).

Ma queste soluzioni sono sufficienti a tenere a bada il drago cinese?

3. COSA SI POTREBBE FARE?

Una delle verità che stanno finalmente arrivando a galla è che le imprese italiane (specialmente le più grandi ed influenti) si sono da sempre nascoste sotto “la sottana della politica” (non è in effetti una grande scoperta, anzi è una banalità che sanno tutti!).

Le grandi imprese che operano nel mercato interno, mai abituate alla vera concorrenza, hanno sempre scaricato le proprie inefficienze sull’Erario, già sofferente per un debito pubblico stratosferico (non si vuole entrare in argomento, perché gli esempi sarebbero molti e pure documentabili), chiedendo a gran voce decreti “salva aziende” d’ogni tipo, regolazioni di settore che tutelassero rendite di posizione, norme “ad hoc”, etc.

Le imprese che, al contrario, si rivolgono all’esportazione (e quindi sottoposte alla concorrenza internazionale), non rinunciavano da parte loro a chiedere la svalutazione della moneta (la cosiddetta “svalutazione competitiva”), per far sì che le merci ed i prodotti italiani fossero relativamente più a buon mercato (ad es. per esportare automobili italiane in Germania, si spingeva affinché la Lira si svalutasse contro il Marco tedesco, così che il prezzo di un’auto italiana espresso in Marchi risultasse più conveniente per un acquirente tedesco). E poiché le materie prime si acquistavano in Dollari, la tecnica poteva continuare senza rischiare un incremento di costo alla produzione per le imprese esportatrici. Un vero e proprio “doping” per favorire le esportazioni a breve.

 Cosa è successo nel frattempo?

A) E’ successo che l’Italia ha uno dei debiti pubblici più grandi del mondo ed il tempo delle “vacche grasse”, dove lo Stato elargiva aiuti a pioggia, è ormai al tramonto (oltretutto gli aiuti di Stato sono espressamente vietati dal trattato di Maastricht e la classe politica è a corto di escamotages elusivi, essendo tenuta ad un maggior rigore dei Conti Pubblici).

B) E’ successo che abbiamo aderito all’Euro, cioè ad un sistema di cambi fissi, dove la “svalutazione competitiva” è semplicemente impossibile.

In altri termini, l’introduzione dell’Euro ha messo a nudo le fragilità del sistema italiano.

Una fragilità dipendente più che altro dal fatto che molti imprenditori non hanno avuto il coraggio di riconvertirsi a nuove produzioni, abbandonando le vecchie ormai fuori mercato.

Oltretutto è ancora persistente nel nostro paese una certa mentalità “artigianale” (piccoli volumi di produzione = grande ricarico unitario di prezzo = produzioni per pochi perché di lusso), rispetto alla più importante mentalità industriale (grandi volumi di produzione = piccolo ricarico unitario di prezzo = produzioni per tutti perché abbordabili dai più).

Oggi l’importante non è la qualità assoluta in quanto tale, ma è il rapporto qualità/prezzo, ciò che fa la vera differenza e fa vendere sui mercati interni ed internazionali.

Ma allora, che fare?

Una prima strada è difendere l’unicità di un prodotto, ovvero rendere più difficile la replicabilità. Questo significa fare produzioni ad alto valore aggiunto, per esempio con la protezione di un brevetto o di un copyright internazionale.

Un prodotto per es. farmaceutico brevettato può valer bene la produzione di 100.000 paia di scarpe di lusso (notoriamente un campo in cui la produzione italiana eccelle).

Quindi parliamo di know-how, di innovazione e di conoscenza tecnica avanzata.

Ma c’è di più: fare impresa sui mercati internazionali non significa solo adeguarsi ai mercati, ma anche e soprattutto anticiparli (per esempio lanciando nuovi prodotti, lanciando nuove mode, cercando di capire come si evolvono i gusti ed i bisogni inespressi dei consumatori). Ciò naturalmente implica il coinvolgimento di risorse umane qualificate, di tecnici preparati, di elementi motivati e non di semplici esecutori. Significa far emergere la creatività (dote che certamente l’Italia ha in abbondanza) ed avere il coraggio di rischiare. Significa incentivare le imprese innovative, significa affrancarsi dal vizietto italico della raccomandazione e della valorizzazione del nulla (quanti sono i managers – specialmente pubblici - che, pur non dando risultati, hanno stipendi faraonici e spesso sono lì per puro nepotismo? E quanti sono, di contro, i giovani e le giovani ingegneri, chimici, fisici, economisti, creativi di impresa che vengono relegati a ruoli marginali perché sono “ragazzini” che non “devono stare a scocciare”, costretti a fare un’infinita gavetta?).

Non è polemica spicciola, è uno dei motivi per cui l’Italia è considerato un paese con una pessima Corporate Governance, con una classe manageriale gerontocratica e provinciale che non accetta il ricambio generazionale.

L’emorragia di cervelli italiani per i suddetti motivi fino ad oggi ha solo fatto fare qualche indifferente sospiro accigliato, ma dovrebbe farci scandalizzare, perché ci stiamo facendo del male da soli.

Per fortuna non è tutto negativo.

Esistono moltissime realtà produttive italiane d’eccellenza (per es. l’Agusta per gli elicotteri, la STMicroelectronics per i microchips, la Ferrero per l’industria dolciaria, la Luxottica per l’occhialeria, la Zanussi per gli elettrodomestici, giusto solo per citarne qualcuno).

Per concludere, le produzioni di paesi emergenti come la Cina o l’India non vanno contrattaccate con le leve in cui sono imbattibili (costo del lavoro, produzioni di bassa qualità con alta intensità di manodopera), ma con produzioni difficilmente replicabili (produzioni di alta qualità, ma con rapporto qualità/prezzo competitivo, produzione con alta intensità di conoscenza, creatività ed innovazione) convertendo le aziende ormai fuori mercato in aziende più attente alle nuove domande, che sappiano utilizzare davvero le risorse umane in maniera intelligente e non miope e riduttiva.

E’ un’operazione difficile, perché implica un cambio di mentalità, un diverso approccio rispetto a quello a cui molte imprese italiane (per fortuna non tutte) si erano viziate ed accomodate.

E’ il tempo delle scelte, non solo difensive, ma anche di attacco: c’è un mercato di 1 miliardo e trecentomilioni di persone che un giorno lasceranno le loro biciclette per le utilitarie, che abbandoneranno le vecchie ghiacciaie per i frigoriferi, etc. Non è forse una grande opportunità per i nostri prodotti?

Sull'argomento:

  1. "Il mondo in cifre", The Economist Newspaper Ltd, ed.2005
  2. "La politica della porta aperta", sez. Economia Internazionale, Euromeridiana, II quadrimestre 2004
  3. "Il miracolo cinese. Perchè bisogna prendere la Cina sul serio" di M.Weber, Il Mulino, 2001
  4. www.sse.com.cn  (Il sito dello Shanghai Stock Exchange, il mercato azionario cinese fondato nel 1990 e presieduto dal China Securities Regulatory Commission)
  5. www.china.org.cn (portale a cura del China Internet Information Center, offre un vasto archivio di storia, politica, economia e cultura cinese)
  6. www.chinadaily.com.cn (homepage di uno dei più importanti quotidiani cinesi, primo a debuttare su Internet anche nella versione in Inglese)
  7. www.tuttocina.it (portale sulla Cina a cura dell'Istituto Italo-Cinese e di CentrOriente, fornisce una banca dati per le imprese con notizie e aggiornamenti sull'economia cinese)


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