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Libri - Recensioni e Profili
Crisi e peccato nei romanzi di Dostoevskij Stampa E-mail
Perché le opere del romanziere russo conservano un valore universale
      Scritto da Simone Arseni
06/02/12

“Esiste al mondo una disperazione capace di soffocare questa mia furiosa e forse indecente sete di vivere?”. Così domandava Ivàn nel Libro quinto dei Fratelli Karamazov, il più corposo dei romanzi di Fedor Dostoevskij. Un simile interrogativo solleva numerose altre questioni relative al significato del dolore, alla capacità di accettarlo e di superarlo; relative alla gioia di sentirsi vivo, con tutte le sue implicazioni, di correre incontro alla vita come un assetato corre incontro ad una fonte d’acqua; relative alla disperazione e quindi collegate al dubbio, all’incertezza, alla crisi, al senso del peccato.

Sono questi i contenuti della conferenza tenuta presso il Centro internazionale di via Malpighi, a Roma, il 19 gennaio scorso. A discutere dei concetti di crisi e peccato nei romanzi dello scrittore russo è stata invitata Tat’jana Kasatkina, presidente della Commissione per lo studio dell’opera di Dostoevskij presso l’Accademia delle scienze di Mosca.

Secondo l’esperta, “Dostoevskij ci insegna, con i suoi romanzi, a guardare innanzitutto alla nostra vita”, ad accettare senza riserve le sfide che il destino ci propone. Tat’jana sostiene che i libri dei più grandi scrittori ci parlano personalmente, così come Dio sembra parlare ininterrottamente all’uomo attraverso gli elementi della creazione e gli avvenimenti della vita. “È stupefacente”, ha affermato la studiosa, “che l’uomo si possa sentire solo nel mondo, perché per farlo deve tapparsi gli occhi e le orecchie rispetto a quello che lo circonda ed essere molto disattento rispetto al proprio destino”.

La capacità di leggere gli avvenimenti della propria vita seppe manifestarla, ad esempio, lo scrittore russo Alexander Solzenicyn; il quale, poco prima di morire e nonostante la terribile esperienza vissuta in un campo di lavoro sovietico, aveva conservato la fede necessaria per dire che Dio aveva pensato per lui una vita tale che lui stesso non avrebbe potuto immaginare.
Anche Dostoevskij aveva trascorso quattro anni della sua vita ai lavori forzati e anche lui era riuscito a trasformare questa dolorosa esperienza in una sfida ai confini della sua umanità, in qualcosa, insomma, di opposto alla sconfitta.

Interrogata su come una situazione di crisi possa portare un uomo alla liberazione, la Kasatkina ha affermato che “la crisi oltre ad essere un posto stretto e per ciò stesso scomodo, è anche un passaggio tra una esperienza dalla quale usciamo e una esperienza che deve ancora venire; tra un nostro modo di essere precedente e un modo si essere successivo”, cui approdiamo con una coscienza nuova, con una più meditata consapevolezza, con una maturità prima sconosciuta. “La crisi è una possibilità - per noi abituati a una quotidianità piena di agio - che ci permette di confrontarci con noi stessi, di sentire noi stessi in tutta la nostra profondità. Il non riuscire a stare stretti in una misura. Questo è «crisi»”.

Assolutamente chiara nel descrivere la liberazione attraverso la crisi appare la parte finale di Delitto e castigo, laddove Raskol’nikov, costretto a scontare una lunga reclusione, si scontra inizialmente con l’odio degli altri detenuti, attraversa un profondo smarrimento che lo getta in uno stato di malattia e delirio, ma infine si sente rinascere e guarda alla sua condizione con un nuovo sguardo. Vi propongo il passo:

“La sera di quel medesimo giorno, quando le camerate erano già state chiuse, Raskòl’nikov era disteso sul tavolaccio […]. Quel giorno gli sembrò come che tutti i forzati, già suoi nemici, lo guardassero ormai in modo diverso. Lui stesso aveva preso a conversare con loro, e gli rispondevano affabilmente. Gli venne in mente adesso, ma doveva essere proprio così: adesso non doveva cambiare tutto? Pensava a lei [Sònja]. Si ricordò di come l’aveva sempre tormentata e di come le aveva straziato il cuore; si ricordò del suo povero, smunto visino, ma quei ricordi ormai non lo facevano più soffrire: sapeva con quale immenso amore avrebbe riscattato adesso tutte le sofferenze di lei. E che cos’erano poi tutti questi , erano tutti tormenti del passato! Tutto, anche il suo delitto, anche la condanna, la deportazione, gli sembrava adesso […] una specie di fatto esteriore, strano, quasi che non fosse capitato a lui. Del resto quella sera non era capace di pensare a lungo […]. Lui sentiva solamente. Al posto della dialettica era sopraggiunta la vita, e nella sua coscienza si doveva elaborare qualcosa di totalmente altro.”

E conclude dicendo:

“Ma qui comincia già un’altra storia, la storia del rinnovamento graduale di un uomo, la storia della sua graduale rigenerazione, del passaggio graduale da un mondo a un altro, della presa di coscienza di una nuova realtà fin lì totalmente sconosciuta”.

La crisi è dunque vista come un seme destinato a germogliare, come un anello che unisce nello stesso uomo il suo vecchio con un io nuovo, consentendone la crescita e la redenzione. La dialettica, nei maggiori romanzi di Dostoevskij, sembra cedere il passo alla vita, ai sentimenti più profondi, alla rinascita. Tuttavia, ha affermato la Kasatkina, vivere in profondità è rischioso. “Trovarsi nei punti che sono inizio e fine è faticoso, è molto più semplice muoversi in orizzontale, mentre qualsiasi salita richiede un grande sforzo”.

Nei Fratelli Karamazov, il protagonista Mitja, anche lui con una grande colpa da espiare, affermava piangendo: “Sai, forse al processo non risponderò nemmeno … e mi sembra di avere tanta di quella forza in questo momento da poter sconfiggere tutto, tutte le sofferenze, pur di poter dichiarare e dire a me stesso ogni istante: io sono! Fra mille tormenti: io sono! Al rogo: io sono! Me ne sto attaccato alla colonna, ma esisto, vedo il sole, e se non vedo il sole so che c’è. E sapere che c’è il sole è già tutta la vita”.
Nelle profondità di sé, l’uomo comprende non il fatto di essere o – peggio - di dover essere qualcuno, ma il fatto stesso di esistere: “E Dio sfida sempre l’uomo all’esistenza, non dicendogli di essere qualcosa o qualcuno, ma di essere e basta: sii, è questo il grande invito che Dio rivolge all’uomo”.

Molti dei romanzi di Dostoevskij si sviluppano attorno a una vicenda iniziale che implica il protagonista in una serie inevitabile conseguenze. I personaggi sembrano totalmente risucchiati dal vortice di tali conseguenze. È come se al protagonista dei romanzi finisse un lembo del proprio vestito nell’ingranaggio di una macchina avviata. La libertà dell’uomo sembra emergere solo in alcune rare circostanze: quando è possibile evitare che il vestito finisca nella macchina e quando le conseguenze dell’azione sembrano esaurirsi. Il tema del peccato si inserisce in questa riflessione. La Kasatkina afferma infatti che Dostoevskij considera il peccato come “una trappola in cui l’uomo può cadere, perdendo la propria libertà. Il peccato, dunque, non è qualcosa per cui saremo puniti, ma qualcosa che contiene in sé la punizione”, ovvero la perdita di libertà. “L’uomo”, ha detto la studiosa, “ha la possibilità di uscire dal peccato con una libera scelta, anche attraversando la vergogna, se necessario”. Approdando a questa tesi, Dostoevskij superò la concezione moralistica del peccato e questa è forse una delle sue più grandi conquiste.

Lo schema dei romanzi di Dostoevskij ruota dunque attorno ai concetti di peccato e di crisi, intesi come opportunità per l’uomo di redimersi e risorgere a nuova vita. Il superamento della crisi è legato alla capacità di ognuno di abbracciare la vita nel suo intero, di assorbire il dolore per potersene liberare, di attraversarlo per poter giungere a concepirlo come qualche cosa di passato. Mi vengono alla mente i versi del grande poeta inglese Thomas Eliot, quando scriveva:

“Lascia che io ti riveli i doni riserbati alla vecchiaia
Per coronare gli sforzi di tutta la tua vita.
Per primo il freddo contatto dei sensi moribondi
Senza incanto, e nessuna promessa da offrire
Se non l’insipido amaro di frutti di cenere
Quando l’anima e il corpo cominciano a distaccarsi.
Poi la conscia potenza della rabbia,
per la follia degli uomini, e la lacerazione
delle risa per ciò che non diverte più.
Per ultimo lo strazio di passare in rivista
tutto ciò che facesti e che fosti; la vergogna
dei motivi di un tempo svelati, e la coscienza
di cose fatte male e fatte a danno degli altri
che una volta prendevi per esercizio di virtù.
E il plauso degli sciocchi ferisce, la loro stima è un’onta.
L’esasperato spirito procede di sbaglio in sbaglio
Se non lo emenda il fuoco purificatore
Nel quale devi muovere in cadenza, come in danza”.

Di questo “fuoco purificatore”, se è lecito il paragone, parlava anche Dostoevskij nei suoi romanzi, di quel fuoco che scalda e scioglie gli errori commessi, del fuoco che abbatte le pesanti mura del peccato e che corona gli sforzi di tutta una vita, svelandone il mistero.



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