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Lettere - Al Direttore
Lo spostamento dell’età pensionabile è una truffa? Stampa E-mail
03/09/10


E' costituzionale cambiare clausole importanti ad un contratto di lavoro firmato tra lavoratore e datore di lavoro quando il contratto sta quasi al suo termine? Ho firmato un "patto" con lo Stato, il mio tempo e la mia intelligenza, la mia energia (=la vita) contro uno stipendio per una durata predeterminata. Ora a fine carriera mi si dice che dovrei fermarmi a lavorare ancora 5 anni! Una truffa! Le Istituzioni stanno perpetrando una truffa a mio danno? E' costituzionale ciò? A chi mi posso rivolgere per far valere i miei diritti acquisiti? Chi protegge oggi i lavoratori dallo strapotere di politici parassiti e truffatori?

In attesa di riscontro.

Cordiali saluti

                                                                                                                               Aurora


Risponde Giovanni Martino

Gentile amica,

le sue doglianze possono essere condivise solo in parte.

Dal punto di vista giuridico-formale, non è stata operata alcuna “truffa”.
Lei dovrebbe essere un’impiegata pubblica (la categoria per la quale è stato previsto l’innalzamento dell’età pensionabile) che ha sottoscritto un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Ma in quello stesso contratto è previsto che le parti normativa ed economica non siano immutabili, ma siano soggette a periodica (normalmente biennale) revisione e ricontrattazione tra le parti sociali.

I contenuti della revisione possono essere anche favorevoli al lavoratore (come gli aumenti stipendiali), e la qual cosa – ovviamente – non suscita proteste…

La materia del trattamento di quiescenza, peraltro, in parte è regolata da norme contrattuali, in parte da norme legislative (che il parlamento è libero di modificare). La legge riconosce diritti, ma questi si considerano “acquisiti” solo per il periodo in cui la legge è in vigore (per cui le modifiche non possono essere retroattive). Per il futuro, invece, si può parlare solo di aspettative…

Ricordo che una doglianza simile alla sua la esprimeva qualche anno fa una mia amica, che lamentava il cambio di orario nel suo ufficio: non più tutte le mattine, dal lunedì al sabato, ma due rientri pomeridiani, con il sabato che diveniva non lavorativo. L’amica lamentava: “io mi sono programmata la vita sapendo di avere i pomeriggi liberi, ed ora mi cambiano le carte in tavola!”

Io mi permisi di farle osservare, nel merito, che l’orario che le veniva imposto non era così faticoso (non si parlava di turni notturni o festivi), e che rispondeva ad oggettive esigenze di fruibilità per l’utenza del servizio offerto dal suo ufficio: non è giusto pretendere che le persone debbano utilizzare un giorno di ferie per svolgere una pratica, se possono più agevolmente liberarsi il pomeriggio.
Ma, soprattutto, le rivolsi la stessa osservazione che rivolgo ora a lei, gentile lettrice: non erano state “cambiate le carte in tavola”, perché nel contratto è prevista quella periodica revisione di cui parlavo, concordata con i sindacati che rappresentano i lavoratori. Peraltro, un contratto non è una prigione: se non piace, ci si può dimettere (non appaia la mia una provocazione: se restiamo sul piano giuridico-formale…)
La pretesa di quella mia amica di potersi “programmare la vita”, cha è già eccessiva in generale, nel caso di specie era dunque infondata.

Ma torniamo al caso del prolungamento dell’età pensionabile.
Lei aveva l’aspettativa di andare in pensione ad una certa età. Ora il parlamento – su impulso del governo, e su sollecitazione dell’Unione Europea – ritiene che esista la necessità di modificare quella normativa. Peraltro, lei non è “obbligata” ad attendere l’età necessaria ad avere il massimo della pensione: se vuole può anticipare di qualche anno il pensionamento, con una decurtazione nell’importo del trattamento (che non significa ledere “diritti acquisiti”).

Tenga conto di un fattore: chi, come lei, ha quasi raggiunto l’età pensionabile, gode di una pensione che ha un importo notevolmente superiore a quello che sarebbe ricavabile dai contributi versati, e di cui beneficeranno le generazioni più giovani.
Lo Stato, a partire dal 1995, si è trovato a dover fare questo ragionamento: “Cari cittadini, finora vi abbiamo concesso trattamenti pensionistici molto generosi: per importo e per età pensionabile. Questo era possibile perché c’erano molti giovani che pagavano le pensioni di relativamente pochi pensionati. Oggi l’età media della vita si è allungata, e si fanno pochi figli: non possiamo più permetterci quella generosità” (ne abbiamo parlato più a fondo nell’articolo Pensioni: una riforma... contro i giovani).

Inizialmente, però, ho premesso che il suo ragionamento è in parte condivisibile.

In quali parti?

Innanzitutto, anche sul piano giuridico-formale, appare inspiegabile (incostituzionale?) la discriminazione tra dipendenti pubbliche e private. Forse si basa sul presupposto che nel pubblico impiego “si fatica poco”, per cui si può tollerare qualche anno di lavoro in più…
Come abbiamo spiegato in un altro articolo, la giusta lagnanza per le inefficienze della pubblica amministrazione (e per la pigrizia di alcuni impiegati) non può tradursi in odiosa generalizzazione, addirittura codificata per legge. Anche perché così diviene un disincentivo all’impegno degli impiegati di buona volontà.

Rispetto a questa discriminazione, forse, un buon legale potrebbe valutare se esistono i presupposti per un ricorso.

Inoltre, la differenza di età pensionabile tra uomo e donna era fondata sulla considerazione che spesso i carichi familiari gravano sulla donna, soggetta quindi a maggiore usura.
Un vantaggio basato solo sul sesso era troppo generico (esistono anche lavoratrici senza figli)? Bisognava allora che l’innalzamento venisse accompagnato da due provvedimenti necessari:
1) innalzamento del periodo valido come contribuzione - o per la diminuzione dell’età di pensionamento - dagli attuali tre mesi per ogni figlio, previsti dalla riforma Dini, ad almeno due-tre anni;
2) utilizzo dei risparmi ottenuti dalla riforma per offrire maggiori servizi alle madri lavoratrici (questa promessa, a dire il vero, è stata fatta: ci credete che sarà mantenuta?).

Il problema dei servizi alle madri si incrocia con quello dell’età pensionabile anche per un altro motivo: le donne pensionate, spesso nonne, hanno sin qui provveduto alla cura dei nipotini, supplendo alla carenza italiana di politiche per la famiglia.
“Costringere” le nonne a lavorare più a lungo rilancia con maggior forza la necessità di realizzare queste politiche.

Rispetto a tali carenze, come cittadini possiamo – e dobbiamo – far sentire la nostra voce (come cerca di fare, nel suo piccolo, Europa Oggi).

Un’ultima fondata ragione di lamentela verso i politici (non tutti “parassiti e truffatori”, ma con una buona dose di faccia tosta spesso sì…) risiede nella motivazione con cui alcuni di loro – pensiamo ad Emma Bonino o al ministro Brunetta – hanno invocato l’innovazione: hanno spiegato che si trattava di rimuovere una “discriminazione di cui erano vittima le donne” (!)
Ma per favore!
Si poteva spiegare che lo si riteneva un doloroso, ma necessario sacrificio (la Bonino, a dire il vero, è mossa dall’ulteriore motivazione ideologica per cui considera dignitoso per le donne solo l’impegno lavorativo, e non la cura familiare). Ma presentare questo sacrificio come una conquista oltrepassa la soglia della presa in giro delle donne e dei cittadini.

Rispetto a questa presa in giro, forse servirebbe... un grande sberleffo.


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