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Nano-architettura: le nanotecnologie applicate alla ricerca architettonica Stampa E-mail
La ricerca linguistico-formale. L’approccio dell’architettura "organica"
      Scritto da Mariopaolo Fadda
31/05/10
La 'nanohouse'
La "nanohouse"
Alla mostra sulla ricostruzione di Ground Zero, organizzata dalla galleria d’arte newyorkese Max Protetch appena tre mesi dopo l’attacco terroristico al World Trade Center (2001), c'era una serie di proposte progettuali imperniante sulla nanotecnologia, focalizzate principalmente sulla "pelle" degli edifici.

Marwan Al-Sayed – architetto americano di origine irachena - enfatizzava il fatto che esiste già una tecnologia in grado di rendere la pelle degli edifici “intelligente”, la nanotecnologia appunto. La sua intenzione era far si che l’edificio trasmettesse all’esterno le emozioni interne: “Immagino che le torri siano capaci – scriveva Al-Sayed - di cambiare la loro pelle interna ed esterna, adattandosi al tempo, alle stagioni, all’ora del giorno, all’umore degli occupanti o della città o della nazione, alle feste e agli eventi mondiali... La mia idea è quella di creare una struttura edificata e una pelle che inizino a riflettere il vero contenuto emozionale delle strutture e la latente espressività complessivamente contenuta negli edifici e nelle vite che essi ospitano”.

Anche le proposte di Gluckman Mayner, Hariri & Hariri, Kennedy & Violich e Asymptote includevano rivestimenti intelligenti.

Da allora, mentre la nanotecnologia ha fatto passi da gigante, in campo architettonico non registriamo che un flebile interesse culturale e pochissime applicazioni pratiche.


Lo stato della professione di architetto

Le croniche resistenze dell’industria costruttiva alle innovazioni sono persino comprensibili, benché non giustificabili. Ma ben più sconcertante appare l’atteggiamento verso la nanotecnologia degli architetti, di solito i più attivi agenti del cambiamento e sperimentatori lungimiranti. “Pochi di noi - dice l’architetto canadese Peter Yeadon - si fanno carico di discussioni pioneristiche sulle implicazioni future della nanotecnologia in campo architettonico”.

Una denuncia che trova conferma in un’indagine promossa dal National Laboratory Technical University of Denmark: “La nostra analisi ha mostrato che gli architetti hanno ancora difficoltà a porsi in relazione con la nanotecnologia”, con sconfortanti, benché riferiti essenzialmente alla situazione danese, risultati applicativi. “Ci sono poche iniziative di ricerca focalizzate sulla nanotecnologia e sull’ambiente costruito e non ne abbiamo trovato nessuna che esplori i potenziali architettonici di questa nuova tecnologia”.

Negli Stati Uniti sono in corso iniziative che esplorano i “potenziali architettonici” della nanotecnologia, ma ciò non toglie che l’interesse sia veramente basso e gli interrogativi numerosi.

A che cosa dobbiamo attribuire questa inerzia?
I perché sono tanti ma possiamo riassumerli essenzialmente in quattro punti.

Primo: sono crollate le illusioni del XX secolo sul potere catartico del positivismo materialistico. Viviamo più a lungo? Sicuro, ma lavoriamo anche più a lungo e andiamo in pensione a 70/75 anni. Teniamo a bada i tumori? Benissimo, ma una nuova mortale infezione è sempre dietro l'angolo. L'informatica ci mette il mondo a portata di dito? Certo, ma la competitività diventa più accanita e stressante. Le possibilità non sono illimitate ed infinite. La tecnologia migliora la nostra vita, ma si trascina dietro gli inevitabili effetti collaterali e, soprattutto, non è in grado di influire significativamente sui nostri bisogni non-materiali. I bisogni di verità, spiritualità, affetto, emozione non sono cose che i virtuosismi hi-tech o le infatuazioni tecno-utopiche sono in grado soddisfare.

Secondo: molti architetti stanno ancora pagando lo scotto dei facili entusiasmi sul ruolo taumaturgico della rivoluzione tecnica del XIX e XX secolo nella materializzazione dei loro sogni utopici, nella configurazione di un habitat civile e di qualità. “Dovuto in larga misura all’arroganza dei suoi visionari architetti – scrivono Stephen Kieran e James Timberlake -, il secolo scorso è stato un fallimento di visione dopo visione di un mondo migliore e di una più accessibile architettura”.

Pochi architetti – Gaudì, Mendelsohn, Saarinen, Wright su tutti –  e pochissimi grandi strutturalisti – Millard, Morandi, Musmeci, Candela, tra gli altri – avevano intuito, a suo tempo, le possibilità espressive del calcestruzzo armato, mentre buona parte dei progettisti ne faceva e ne fa tutt’ora un uso tecnicistico fine a se stesso; la stragrande maggioranza di essi lo usava e continua ad usarlo alla stessa stregua delle strutture in legno o in acciaio, con infimi risultati. “Colata di cemento” è un’espressione, con connotati negativi, entrata ormai nel linguaggio comune.

Terzo: sanguina ancora la ferita delle delusioni “bloboidali”, cioè di quell’architettura che consiste in elaborazioni elettroniche fini a se stesse, basata su forme sinuose particolarmente complesse ispirate alla natura vivente. L’introduzione del computer – con le grandi possibilità di applicazione complessa nella progettazione architettonica -  aveva generato ondate di irresponsabile entusiasmo per il formalismo autoreferenziale, alimentato dall’accademia e assecondato dalla professione, ma l’impatto tanto sulla qualità progettuale che su quella del nostro habitat è assolutamente irrilevante.

Quarto: la degenerazione dello star system, fenomeno esploso alla fine degli anni ’90, ha proiettato l’architettura nel campo dello spettacolo fine a se stesso, isolandola dalla società e dalla cultura. Lo spettacolo offerto dagli architetti di fama è a livelli sempre più inqualificabili. “La ditta architettonica” – per usare una felice espressione di Frank Lloyd Wright - imperversa da est a ovest, da nord a sud. Un fenomeno sarcasticamente stigmatizzato da Ada Louise Huxtable: “Ogni imprenditore edile sa che la sostanza è, in fin dei conti, trovare qualsiasi cosa che gli sia di aiuto. Ora in architettura c’è la celebrità, e loro trovano che possono vendere di più e più rapidamente, se hanno un nome appiccicato ad essa.” 

Questi i principali motivi che hanno spinto gli architetti a diventare una forza negativa, frenante invece che propulsiva della cultura contemporanea.

Ma il motivo sovrano va rintracciato nella dissipazione dell’esperienza “organica”, un colossale, clamoroso e vergognoso depauperamento di valori che conosce pochi confronti. L’architettura organica conteneva in sé gli anticorpi per combattere le infatuazioni. Un’architettura che pone l’uomo, nella sua interezza fisica, mentale e spirituale al centro della propria ricerca, in intima aderenza con la natura e le sue leggi, con la scienza e le sue conoscenze, in piena sintonia con la saggezza del passato e con il progresso tecnologico contemporaneo.

Tutto questo potrebbe anche sembrare non sorprendente visto che servire il potere, i potenti, i ricchi e famosi è sempre stata una prerogativa dell’architettura “alta”. Oggi il potere, i potenti vengono identificati con la lobby verde e quindi gli affari si fanno con loro ed alle loro condizioni. Tutti diventano “verdi”, non perché credono nell’approccio ecologico, ma perché il mercato e la lobby “verde” lo richiedono. E sono pronti a soddisfare queste richieste, naturalmente a una dimensione: quella puramente utilitaristica e quantitativa. Insomma a produrre oggetti “verdi” griffati.

Sotto l’influsso del fanatismo ambientalista, anche gli architetti si sono messi a farneticare di “principio precauzionale”, o per meglio dire del “rischio zero”, che la scienza e la tecnologia dovrebbero garantire prima di procedere nelle applicazioni pratiche. Invece di usare lo spirito critico, di rifiutare l’omologazione, di prendere le distanze da simili aberrazioni pseudo-scientifiche, da simili retrocessioni culturali, si mettono a rimorchio di catastrofisti e di politicanti ciarlatani, per ingraziarseli e riceverne, in cambio, lucrose commesse.

Come pensare che la nanotecnologia, argomento notoriamente inviso alla lobby “verde”, possa provocare interesse se il livello etico-intellettuale della disciplina è quello che abbiamo appena evidenziato? Come pensare di imboccare la via di un cambiamento radicale se gli architetti rifuggono spaventati di fronte alle sfide del mondo contemporaneo? “La nanotecnolgia non esiste nella coscienza degli architetti – sostiene a giusta ragione il National Laboratory Technical University of Denmark -. Conosciamo la parola, ma non le sue specifiche applicazioni o le sue implicazioni economiche”.

Allo stato attuale le applicazioni nanotecnologiche in campo architettonico sono ben misere, e si limitano all’uso di materiali le cui caratteristiche fisico-strutturali sono state migliorate grazie alla manipolazione molecolare alla nanoscala, con irrilevanti riflessi in campo linguistico-formale.

L’unica opera che possiamo definire frutto della nanotecnologia è il ponte pedonale di Dronten, Olanda. Installato nel maggio del 2007 è realizzato in composito di carbonio con la campata più ampia al mondo, 24 metri e mezzo di lunghezza per 5 metri di larghezza. Progettato e realizzato dalla FiberCore Europe di Rotterdam, pesa 30 volte meno di quanto peserebbe se fosse stato realizzato in cemento armato ed è stato posizionato in un quarto d’ora. È il primo ponte realizzato fuori opera con tutti i vantaggi che questo comporta. Nei pressi del ponte, con lodevole iniziativa, è stato anche realizzato il Composite Bridge Center un centro-informazioni sui materiali compositi.

Nella chiesa del Giubileo, a Roma, Richard Meier si limita all’utilizzo di un calcestruzzo con una matrice di nanoparticelle di anidride titanica, per intrappolare lo smog atmosferico, decomporlo ed eliminarlo.

Nell’orrida facciata del tanto decantato edificio per ultra-lussuosi appartamenti in 40 Bond Street a New York, anche Herzog & de Meuron ricorrono ad un nano-rivestimento super-idrofobo e auto-pulente. Ma i nanoprodotti sono, in questo caso, solo una costosa esibizione di sfarzo che ha ben poco a che fare con l’architettura.


La ricerca

Se la professione masochisticamente si auto-emargina da questo fondamentale settore della ricerca, tocca allora all'università e agli istituti di ricerca pubblici e privati, a isolati professionisti farsi carico di colmare il vuoto.

“La nanotecnologia è un soggetto complesso e profondo e quasi impossibile da afferrare da parte di chi non è attivamente coinvolto; quindi la consapevolezza della ricerca fatta può essere incrementata solo educando studenti e professionisti attraverso un’informazione facilmente digeribile, resa disponibile attraverso università, importanti istituzioni, riviste e altre fonti” (Surinder Mann Institute of Nanotechnology).

Cosa meglio di un prototipo in scala reale è in grado di semplificare e rendere comprensibile ad un ampio pubblico la complessa realtà e l’enorme potenzialità della nanotecnologia? È ciò che devono essersi chiesti all’Institute for Nanoscale Technology dell'University of Technology di Sydney e alla Commonwealth Science and Industrial Research Organization, quando hanno deciso di dar vita da alla Nanohouse Initiative. Un’iniziativa che ha come obiettivo la progettazione e la costruzione di un nuovo tipo di abitazione, ultraefficiente energeticamente e con abbondante uso di nuovi nanomateriali. L'iniziativa, che si avvale della collaborazione interdisciplinare di scienziati, ingegneri, architetti, designers e costruttori, non ha avuto purtroppo grandi riscontri e rimane tuttora un’iniziativa pionieristica.

La Glass House, interamente prefabbricata e trasportabile in due camion, si propone di dimostrare che i prodotti della nano-tecnologia possono migliorare il nostro livello di vita, il comportamento termale, acustico e luministico degli edifici e ridurne i costi di manutenzione.

Perché una casa in vetro? Perchè “gli australiani preferiscono aprire i loro edifici per usare la luce diurna, le viste e il flusso interno/esterno il più possibile”. Il problema degli alti costi per il riscaldamento invernale e il condizionamento estivo non esiste più, grazie ai nano-rivestimenti.

Il vetro utilizzato è di vari tipi e scelto tra quelli che presentano buone qualità spettro-selettive, buon comportamento termico e capacità auto-pulente.

Quest’ultimo tipo è il cosiddetto Pilkington Activ, laminato per la sicurezza, e ricoperto all’esterno con uno strato trasparente che tiene pulito il vetro attraverso due fasi:

“1. Usando un processo ‘fotocatalitico’, il rivestimento reagisce con i raggi ultra-violetti della luce naturale per decomporre e disintegrare lo sporco organico;
2. la seconda parte del processo avviene quando la pioggia o l’acqua toccano il vetro. Siccome [il vetro] è idrofilo, l’acqua invece di formare gocce si stende uniformemente sulla superficie e come scivola si porta via lo sporco.” È questo l’ormai noto “effetto loto”.

Anche il pavimento in legno dell’ingresso e le tende schermanti sono trattati con nano-rivestimenti.

Un sistema fotovoltatico sul tetto provvede energia elettrica.

La Glass House è stata ispirata da due precedenti storici ben noti: la Farnsworth House (1945) di Mies van der Rohe e la Glass House (1949) di Philip Johnson.

Uno dei materiali su cui sono poste grandi speranze sono i nanotubi di carbonio, anche se finora siamo ancora alle sperimentazioni. Questo nuovo materiale consentirà di realizzare edifici molto resistenti ed altamente flessibili, come, ad esempio, il prototipo della Carbon Tower, progettato da Peter Testa and Devyn Weiser.
Un edificio di 40 piani, ad uso misto, che se realizzato sarebbe - secondo Arup - il grattacielo più leggero e più resistente nel suo genere. L’edificio è tessuto, più che assemblato, in più parti: 24 bande elicoidali in fibra di carbonio, lunghe 30 metri, larghe 30 cm e spesse 2 centimetri e mezzo avvolgono il perimetro cilindrico legandosi alle piattaforme dei 40 piani dell’edificio. Non ci sono giunti tra materiali diversi, perché i cavi che formano le bande elicoidali si biforcano all’incrocio con i solai formandone l’ossatura strutturale. I solai impediscono alle eliche di collassare, le eliche sostengono i solai e una rampa esterna di collegamento, che corre lungo il perimetro del cilindro, completa la sinergia strutturale dell’edificio. Ingegnoso il sistema per la circolazione dell’aria, imperniato su due canali di areazione che partono dalla base e, attraverso fori nei solai, raggiungono il tetto. Il funzionamento, la densità e lo spessore del tessuto di rivestimento sono in funzione del cambio di pressione dell’aria e delle variazioni climatiche che producono contrazioni e dilatazioni del tessuto, controllate da un sistema dinamico. La circolazione viene facilitata dal fatto che i solai sono vuoti e consentono quindi all’aria di circolare dall’esterno all’interno. Non essendo necessari controsoffitti per mascherare il sistema di aereazione, l’altezza del piano viene sfruttata interamente. La pelle di completamento dell’edificio è una ultra-sottile membrana traspirante.
La costruzione delle eliche e dei solai è realizzata da due sistemi di robot che lavorano in sincronia: un sistema sulle eliche e l’altro sui pavimenti.

Tutto questo fa dire a Sean Hanna “forse nessun altro progetto, più della Carbon Tower di Peter Testa, rivendica l’idea di sinergia di Fuller”. Infatti, la distinzione struttura-rivestimento scompare per lasciare spazio al fluire di un continuum materico che plasma sinergicamente l’intero edificio. Una superba dimostrazione di quanto questi innovativi materiali, ultra-leggeri e super-resistenti, possano alterare radicalmente la metodologia progettuale e il processo costruttivo degli edifici.

A questo punto entra in gioco la collaborazione con le industrie del settore che, comunque, non appaiono troppo aperte alla sperimentazione di tecnologie così ardite.

In campo universitario la ricerca nanotecnologica sta aprendosi, seppure a gran fatica, la strada. A gran fatica perché il mondo universitario, nel suo insieme, è sempre più intento ad autocelebrarsi, a teorizzare sulle più strampalate dissertazioni mondano-filosofiche e a inondare i media di evasioni computerizzate. Un atteggiamento, questo, duramente attaccato da Michael Speaks, ex-docente dello SCI-Arc, in un articolo - After Theory - pubblicato sul numero di giugno del 2005 di Architectural Record. Speaks attaccava la cosiddetta “architettura critica”, ma sarebbe meglio dire i paladini delle iper-teorie di derivazione marxista, e le scuole d’architettura d’élite che le propagandano, accusandole di aver “inibito lo sviluppo di forme alternative di pensiero”. Quali sarebbero queste “forme alternative di pensiero” secondo Speaks? Gli workshops e i piccoli studi professionali dove grazie alle moderne tecnologie si sperimenta su modelli fino alla scala 1:1 secondo “una forma di pensare-facendo che crea conoscenza progettuale, o ‘intelligenza progettuale’... attraverso il progetto di un prototipo”. Questo metodo consente il test del prototipo, e la riprogettazione, in modo rapido ed economico, nonché la valutazione di un ampio raggio di possibili alternative in cui il cliente ha la possibilità di essere attivamente e creativamente coinvolto. “Il processo progettuale è diventato esso stesso un processo di creazione del sapere”, sostiene Alejandro Zaera-Polo.

Un processo di progetto/sperimentazione/costruzione che possiamo far risalire ai plastici di Michelangelo o al plastico di Brunelleschi per la cupola di Santa Maria del Fiore. Processo ripreso, in epoca moderna, da Charles e Ray Eames per la realizzazione, negli anni ’50,  della loro celebre casa/studio di Pacific Palisades a Los Angeles. Una metodologia di nuovo ripresa, in tempi recenti, dallo studio ShoP nella Camera Obscura a Greenport, New York, una struttura progettata e realizzata in pezzi pre-tagliati e pre-testati con il contributo di imprese esterne allo studio.

Sono questi workshops, questi piccoli studi professionali interdisciplinari che possono effettivamente imprimere una svolta alla ricerca nanotecnologica sia in ambito professionale sia universitario.

Un esempio di quanto “forme alternative di pensiero” possano contribuire a riconciliare l’università con la società è offerto da una ricerca condotta da un gruppo di studenti guidati dagli architetti Keith Van Der Sys, Sheila Kennedy e Frano Violich presso gli Huichol, una popolazione semi-nomade che vive isolata nelle montagne della Sierra Madre in Messico. L’obiettivo di questa ricerca, scrive Janice Harvey, era di “scoprire semplici soluzioni progettuali che potrebbero aiutare questo popolo indigeno a sostenere la propria cultura nel XXI secolo migliorando la vitalità economica”.

L’economia degli Huichol si basa, per tradizione, sulla produzione di tessuti, paglia e legno intrecciato e la mancanza di corrente elettrica impedisce loro di lavorare nelle lunghe notti invernali. Come fornire loro energia elettrica senza aprire nuove strade, deforestare e disseminare il territorio di pali e cavi? Con il sole e la nanotecnologia, è stata la risposta del gruppo di ricerca che ha progettato, sviluppato e realizzato una serie di prototipi - una borsa comunitaria portatile, un laboratorio portatile, una vetrina portatile e uno sgabello per leggere - integrando LED ad alta luminosità (HBLED) e tecnologia fotovoltatica.

Oltre a ciò il gruppo di ricercatori sta studiando la possibilità di integrare maglie di collettori solari nel calcestruzzo armato (TRC). “Strutture realizzate in TRC – scrive sempre Janice Harvey - espanderebbero i vantaggi degli Huichol, non solo provvedendo luce per il lavoro notturno, ma creando un eccesso di energia che faciliterebbe l’uso delle comunicazioni telefoniche cellulari o che potrebbe promuovere lo sviluppo economico dell’agricoltura e dell’artigianato degli Huichol.”

Un esempio illuminante – in senso sia metaforico sia letterale -, che dimostra quanto utile possa essere la nanotecnologia per quelle popolazioni dei paesi in via di sviluppo che vogliono evitare i contraccolpi negativi dell’industrializzazione.

Una delle ricerche più complete e interessanti è quella condotta in collaborazione tra la Ball State University e l'Illinois Institute of Technology, guidata da George Elvin e da Janet Staker Woerner. Da alcuni anni gli studenti dei corsi di architettura, in collaborazione con studenti di altre discipline, sono impegnati nella progettazione di abitazioni con l'uso di nanomateriali già in circolazione o in via di esserlo, quali, ad esempio, i nanotubi trasparenti di carbonio, nanosensori piccoli abbastanza da essere incorporati agevolmente nei componenti dell'edificio, punti di luce quantica in grado di cambiare colore e opacità di pareti, pavimenti e soffitti.

George Elvin, nel presentare i progetti del corso, scrive: “La nostra missione per questo progetto era di immaginare il potenziale di uno di questi rivoluzionari materiali e incorporarli nel progetto di un’abitazione”.

In realtà i materiali indagati sono più di uno e la ricerca si spinge oltre, indagando anche alcune interessanti combinazioni tra loro. La qualità formale ed espressiva dei singoli progetti varia:

1) alcuni di essi si limitano ad enfatizzare essenzialmente le potenzialità applicative dei materiali a prescindere dalla soluzione formale;

2) altri utilizzano i nuovi materiali quali elementi architettonici significativi dell’edificio;

3) altri ancora li usano per avventurarsi in soluzioni spaziali uniche e originali. Due progetti, quello di Jennifer Pecenka e quello denominato Nanoshell (Jessica Coleman, Matt Goyak e Nir Vaks), imboccano liricamente la via organica e non hanno nulla da invidiare alle opere di architetti famosi e celebrati.

Al primo gruppo appartengono i progetti di Martin Sams, Cheryl Vendholt, Brandon Lanius, Brian Lantz, Tristan Phillip Hall e il progetto 3884.

Al secondo i progetti di Dustin Headley, Alison Norris e Alfonso Arambula.

Al terzo i progetti di Jennifer Pecenka, Nanoshell e Natural-Umbrella.

Cheryl Vendholt usa i fluidi ferrosi, noti per le loro caratteristiche di liquidità e per la loro capacità di trasformarsi in corpi rigidi, in forma di polvere per schermare porte e finestre dell’edificio da lei progettato. Essi sono un tipo di fluido magnetoreologico, in grado di rispondere alle sollecitazioni di campi magnetici. Il fluido è composto da particelle magnetiche immerse in un liquido (olii o acqua) che, in presenza di un campo magnetico, si aggregano a formare strutture tridimensionali.

Brian Lantz verifica le caratteristiche del nanogel, una forma di silicato poroso, che è il più leggero e il miglior isolante - termico e acustico – solido conosciuto. Consente il passaggio della luce solare senza riscaldare l’ambiente. Secondo le ricerche in corso potrebbe cambiare colore e grado di trasparenza, a seguito di stimoli esterni. Gli stimoli potrebbero venire dalle variazioni di temperatura esterna, da impulsi elettrici oppure dalla temperatura dell’utente e le modificazioni potrebbero incidere sul colore o sulla trasparenza del nanogel.

“L’idea principale dietro il progetto - scrive Brian Lantz - era di avere una facciata che potesse essere stimolata dall’ambiente circostante e modificarsi, come un camaleonte o un pesce tropicale.”

Dustin Headley, per sfruttare la capacità delle elettro-plastiche di produrre elettricità dalla luce, anziché dall’energia solare - una tecnologia ancora in via di sviluppo che richiederà almeno 20 anni per essere resa commerciabile – è costretto a dotare l’abitazione di una gran quantità di superficie esposta alla luce naturale. Per far ciò ricorre ad un gran numero di lamelle orizzontali che caratterizzano elegantemente l’aspetto formale dell’edificio.

Alison Norris sperimenta la scoperta dei ricercatori della Lund University, Svezia, che hanno creato una struttura di fili di fosfuro di gallio, simile ad una foresta, ponendo nanoparticelle d’oro su una cialda di fosfuro di gallio e alimentandole con una mistura di gas ad una temperatura di 450-500 gradi centigradi. I fili si sviluppano sotto ogni particella d’oro. Per sollecitare la crescita di ramificazioni vengono spruzzate altre particelle d’oro sui “tronchi” principali.

“Il progetto è centrato sull’abilità del nanoalbero di assorbire e trasferire la luce – scrive Alison Norris -. La luce solare è assorbita dal calcestruzzo esterno e trasferita via circuito sulle pareti vetrate interne. I nanoalberi nelle pareti di vetro ghiacciato emettono luce attraverso sensori che rispondono al movimento. Come un individuo si muove nella casa, la luce lo segue. La forma dell’abitazione è basata su questo movimento con forme e spazi interni fluenti”.

Molto interessante la scelta del progettista di partire dalla sezione dell’edificio, “perché il concetto dei nanoalberi è focalizzato sul trasferimento della luce solare, il movimento è diventato il maggior fattore della progettazione”. L’edificio si rastrema verso il basso esponendo maggiormente i piani alti ai raggi del sole.

Alfonso Arambula usa fogli trasparenti di nanotubi che incorporano LED, cellule solari e sensori che consentono loro di modificare il proprio aspetto.

Il piano terra, interamente vetrato, sostiene l’intero edificio. Le pareti vetrate possono variare il loro grado di trasparenza e possono essere modificate facilmente. “LED possono essere incorporati nei fogli – scrive Arambula – ed agire come fonte luminosa. Come accade in una televisione, i LED possono mostrare un caminetto che produce calore ma non emissioni”. I pannelli del tetto contengono collettori solari per immagazzinare energia e convertirla in elettricità.

Jennifer Pecenka usa in modo sapiente nanotubi in strati che consentono di variare il loro grado di trasparenza e il loro colore. Durante il giorno incamerano energia solare che restituiscono come luce durante la notte. “La natura – scrive Pecenka – prende il sopravvento in alcuni muri attraverso la riflessione, la trasparenza, il cambiamento di colore e imitando il paesaggio, a turno definendo e sfumando la percezione dello spazio.” Straordinaria la capacità di utilizzare al massimo le caratteristiche dei nanotubi per protendere l’edificio in grandi aggetti, conferendogli una spazialità fluida ed una trasparente indeterminatezza.

Due studenti di architettura, Jessica Coleman e Matt Goyak, ed uno di ingegneria, Nir Vaks, riuniti nel gruppo denominato Nanoshell, si sono esercitati con fogli di nano-acciaio, nano-sensori e nano-gel. L’ipotetico edificio, localizzato in un’anonima area di San Diego, California, è imperniato su un blocco geometrico ortogonale che ospita la zona notte, i servizi e i collegamenti verticali, nonché su un’area in cui le forme fluiscono libere. “La forma dell’edificio è stata ispirata dalle tensostrutture e dalle sottili strutture delle conchiglie – scrivono i progettisti - Noi ci riferiamo costantemente alla forma come un castello di sabbia spazzato via dalla marea”.

Il nano-acciaio è spruzzato su un tessuto rendendolo così resistente, rigido e plastico allo stesso tempo. Le pareti, spesse 2 pollici (5 cm circa) e in grado di sostenere il peso di due piani e di un tetto continuo, sono liberamente articolate e fluide nella zona-giorno dell’edificio.

Nello spessore delle pareti sono incorporati nano-sensori e nano-gel. I primi controllano e regolano il flusso di luce dall’esterno, e con un semplice comando le pareti passano da opache a translucenti a trasparenti. Il secondo filtra la luce bloccando radiazioni e calore.

I pannelli del tetto, sempre in fogli di nano-acciaio, sono realizzati in tre strati programmati per una prestabilita e fissa translucenza, tale da consentire l’illuminazione naturale dell’edificio. Gli interstizi tra gli strati sono utilizzati quali canali per la ventilazione.

Un tunnel serpentinato in nano-acciaio translucente conduce verso l’ingresso principale della casa.

Il blocco ortogonale, che gradua il passaggio dal monotono contesto alle forme libere e fluide del nuovo edificio, è una tradizionale muratura intonacata e le superfici di sgrondo delle finestre sono in mattoni.

Ben studiata anche la ventilazione naturale dell’intero edificio, in particolare quella della cucina.

Un ottimo esempio di quanto le nuove tecnologie possano contribuire nell’opera di riciclaggio e di riscatto dell’anonima edilizia che soffoca ed abbruttisce le periferie delle nostre città.


L’approccio organico

“Il significato del termine ‘architettura organica’ – scrive Haresh Lalvani -, che trae la sua ispirazione principalmente dalla biologia, si evolve con la crescente conoscenza della natura combinata con le future tecnologie. A mano a mano che le nuove tecnologie emergono, l’architettura diventa sempre più organica nel suo scopo, intento e realizzazione.”

La nanotecnologia, dunque, segna non solo la rivincita storica della metodologia organica wrightiana, che sembrava irrimediabilmente sconfitta dall’arido formalismo bloboidale, ma si fa carico di spazzare via verità che fino ad oggi ci apparivano immutabili e schemi mentali che sembravano radicati per sempre. “E se un edificio si costruisse, riparasse, smantellasse e riciclasse da sè? – si chiede Dave McNair, giornalista che si occupa di architettura per la rivista The Hook - Se fosse equipaggiato con sensori che seguono i vostri movimenti nello spazio e adattasse la sua forma, finitura, luce, suoni e calore alla vostra presenza? E, infine, se voi gli parlaste e lui rispondesse?”
Anche George Elvin è dello stesso avviso: “Gli edifici non saranno statici, ma cambieranno costantemente quando i componenti interagiranno continuamente con gli utenti e tra di loro. Questi scenari dinamici saranno quasi organici nella loro abilità nel rispondere ai cambiamenti, quindi gli architetti dovranno imparare a progettare il cambiamento. Non diremo più che il progetto è finito quando la costruzione sarà completata. Sarà solo l'inizio del processo progettuale, grazie alla nanotecnologia.”

In realtà la nanotecnologia non farà altro che spingere fino alle estreme conseguenze  quel processo continuo, mai finito e sempre in cambiamento, che la ricerca organica non ha mai smesso di perseguire. A questo punto saranno inutili tutte quelle incrostazioni ideologiche e filosofiche imposte all’architettura da un’aristocrazia intellettuale tardo-illuministica e saccente che l’hanno, in definitiva, relegata in un’anacronistica torre d’avorio isolandola dalla vita e dalla società. Un’élite che si attirò, a suo tempo, lo sprezzo di Frank Lloyd Wright il quale, senza timori reverenziali, affermava che l’architettura avrebbe dovuto “affrancarsi da qualsiasi stilizzazione formale imposta da qualunque élite, e in specie da quella perpetuatasi per mano di architetti accademici o in base a dogmi coniati da una critica arrogante.”

In pieno XXI secolo gli architetti non riescono ancora ad affrancarsi da quei retaggi élitari, anzi li usano per giustificare l’esibizionismo narcisistico, l’irresponsabilità sociale, la rapacità professionale. Suonano sempre attualissime le parole di Wright: “Gli architetti oggi sembra che ormai non abbiano altro che una cosa in comune: qualche cosa da vendere; per l’esattezza, se stessi. Ovviamente, ciò che viene venduto, in definitiva, non può essere altro che l’architetto. L’architettura non è in loro. Possibile che l’ultimo capitolo di quest’era nuova di libertà democratica debba essere deformato da quest’incalzante tendenza al conformismo, incoraggiata dalla politica e da un’educazione edulcorata?”

Posti di fronte alla nanotecnologia, invece di cercare di coglierne la novità, di valutarne vantaggi e svantaggi, di porsi interrogativi, si ritraggono spaventati e quasi superstiziosi, come neanche l’uomo primitivo lo fu davanti alla scoperta del fuoco, oppure si fanno prendere la mano da orridi scenari fantascientifici. Invece di iniziare ad esplorare in modo disinibito gli immensi orizzonti espressivi che scienza e tecnologia stanno aprendo, si nascondono dietro la foglia di fico di ridicole moratorie o impossibili “principi precauzionali”, per paura di non apparire troppo politically correct, sacrificando in questo modo la propria dignità intellettuale sull’altare di lobbies oscurantiste per cui provano un’attrazione fatale.

Siamo ben lontani dalla ferma determinazione di Wright di non farsi sopraffare da cedimenti etico-esistenziali o dalla demagogia politica: “La democrazia conosce fin troppo bene il peso insano e le contraddizioni della pubblica opinione irresponsabile, la verbosità cronica, l’inerzia dell’ignoranza, i pregiudizi delle intelligenze condizionate che prendono posizione a destra o a sinistra per l’interesse egoistico di cuori induriti, al posto della profonda fede nell’Uomo necessaria a ispirare illuminazione per generosità di motivi, che la democrazia significava per i nostri padri e deve ancora significare per noi. Il buon senso della semplice verità insita in questa nuova-antica filosofia, dall’interno all’esterno, se si risvegliasse nella nostra società come si è risvegliato nella nostra architettura, assicurerebbe il giusto uso della tecnologia, per costruire un rifugio umano e un ambiente pieno di reverente armonia, sia socialmente che politicamente. Immediato ne sarebbe il riflesso politico.”

Il genio americano, non si nascondeva dietro foglie di fico e non si faceva irretire da irrazionali pregiudizi ideologici sulla tecnologia; ne invocava, al contrario, un “giusto uso”. Un atteggiamento che gli permetteva di sfidare ingegneri e scettici di ogni genere sulle possibilità tecnico-espressive, oltre che di resistenza, del calcestruzzo nei magnifici pilastri-fungo del Johnson Wax Building a Racine, Wisconsin, o negli aggetti mozzafiato della celebre Fallingwater (La casa sulla cascata). Pochi altri hanno avuto lo stesso ardire ma, non avendone la gigantesca statura, sono stati emarginati o cancellati da una critica conformistica e prona al pensiero dominante.

Una sfida, quella nanotecnologica, che non scuote però il gelido distacco dell’intellighenzia tardo-illuminista ancora intenta a filosofeggiare su un formalismo infantile, autoreferente e futile. “L’attrazione intellettuale della nuova scienza e la purezza delle forme geometriche - scrive David Pearson -, rese ancora più affascinanti dall'elaborazione tri-dimensionale, sta stimolando il loro uso in se stesse. Sono usate come un progetto imposto dall’esterno invece di essere un progetto organico creato, come la vita naturale, dal suo interno… L’uso della geometria e della scienza, da sole, non produce un progetto organico”. Esattamente quello che sosteneva Wright già nel 1939: “In questa era moderna Arte, Scienza, Religione saranno unite e saranno una sola cosa, unità raggiunta con l’architettura organica come centro”.

Le Prairie Houses, le Usonian Houses sono esempi che anticipano di decenni questo approccio organico alla natura e alla vita. Approccio ecologico, nel più ampio senso di relazione tra essere vivente e ambiente. Wright, infatti, non era impegnato a progettare solo una casa che rispondesse alle condizioni climatiche del luogo, ma a mettere in atto un “processo ecologico dinamico” (James Steel), cioè un cambiamento continuo, come è cambiamento continuo la natura. Infatti la casa Usoniana non sarebbe dovuta rimanere statica, ma evolvere con lo scorrere della vita degli abitanti. Inutile aggiungere che Wright studiava con piglio la ventilazione naturale, l’esposizione, l’energia solare passiva, l’inerzia termica dei materiali. Un atteggiamento ben diverso dall’esibizionismo eco-tecnologico degli odierni professionisti dell’architettura “verde”. Un esibizionismo che, blaterando di conservazione energetica, come ha giustamente osservato Michelle Addington, ha portato alla costruzione di edifici sempre più ampi, con conseguente enorme aumento del consumo energetico. Mentre sarebbe stato meglio scindere “il fenomeno energia dall’edificio e lavorare direttamente sul fenomeno invece che sull’edificio.”

Non basta progettare edifici fisicamente autosufficienti e di qualità; bisogna piuttosto progettare edifici che provvedano anche ai bisogni non-materiali dei propri abitanti, per una qualità della vita non solo fisica ma anche spirituale e sociale. Taliesin West è il culmine, “ad un livello quasi mistico” (Steel), di questa nozione di unità tra uomo, tecnologia e natura.

Solo l’approccio organico ha mostrato un’intima adesione ad una visione così completa dell’architettura, perché “l’architettura organica è visualmente poetica, radicale, peculiare e ambientalmente cosciente; essa incorpora armonia di spazio, persone e materiali. L’architettura organica è sfaccettata, libera e sorprendente… un edificio è visto come un organismo, un’indivisibile unità e gli esseri umani come parte della natura, non al di sopra di essa” (D. Pearson ).

Questa visione organica dell’architettura e dell’esistenza è tenuta viva da un pugno di isolati eretici che avversano le evasioni mondane delle stars, i disimpegni etici, le infatuazioni tecnologiche, le rimasticature culturali “Con entusiasmo e umiltà abbiamo bisogno di imparare dalla saggezza, integrata alla natura, di quello che ci è rimasto delle culture indigene mondiali (...) Queste culture possono ricordarci molte cose importanti circa la vita in comunità, la natura e il cosmo. La loro via ha una compiutezza ed una interezza che è in forte contrasto con la maniera in cui il nostro processo mentale, analitico e comparativo, ha separato scienza, religione e arte, iniziando la frammentazione del nostro mondo post-illuminista... In risposta a queste sfide, abbiamo bisogno di reintegrare il sentimento nella nostra intelligenza e l’intelligenza nella nostra intuizione cosi che i nostri pensieri e le nostre azioni siano imbevute di comprensione e saggezza, amore e gioia.” (D. Pearson)

L’incontro-scontro materiali tradizionali e moderni è stato sempre uno dei capisaldi della poetica organica che quindi ha tutte le carte in regola per rispondere alle sfide della tecnologia contemporanea. “I materiali tradizionali – terra, paglia, legno – sono celebrati in edifici organici e ora, nuovi materiali offrono fresche opportunità per innovazioni strutturali e sorprese.” (D. Pearson) In questo senso possiamo dire che l’approccio organico è precauzionale, un tipo di precauzione che non ha nulla a che vedere però con il cosiddetto "principio precauzionale", cioè l’utopico rischio zero, predicato da quelle frange oscurantiste che osteggiano il progresso. Approccio precauzionale che è un invito ad usare logica e buonsenso, invece che irrazionalità e superstizione, per rispondere agli interrogativi etici che, inevitabilmente, la rivoluzione nanotecnologica si trascina appresso.

“Vogliamo ottenere spazi adattabili al corpo umano – dice Javier Senosiain -, come il grembo materno o la tana di un animale. Come i trogloditi che ricavavano per se stessi una nicchia dalla terra, o i costruttori di igloo. Questa non è una regressione verso il primitivo, ma una premeditata riconciliazione”.

Sembra paradossale, ma proprio grazie alla nanotecnologia la visione organica è in grado di portare a compimento il percorso storico dell’architettura e identificarla completamente con la vita, come sostiene Haresh Lalvani: “L’architettura organica, se seguisse la biologia, progetterebbe se stessa. Perpetuerebbe se stessa. L’architettura diventerebbe quindi ‘vita’ e, paradossalmente, gli edifici non avrebbero più bisogno degli architetti. L’architettura organica, in questo limitato scenario, segnerebbe la fine dell’architettura (come la definiamo ora)”.

“Gli organismi viventi, sia nelle loro forme esteriori sia nelle loro strutture interne, offrono infinite idee e concetti per la progettazione” (D. Pearson). Se ciò era vero nel passato, lo è a maggior ragione oggi che la scienza sta scoprendo il funzionamento alla nanoscala della natura. La metodologia organica non può che trarne enorme giovamento, a patto che gli architetti mettano da parte titubanze e timidezze e diano vita ad un salutare approccio a questa tecnologia in grado di far diventare l’architettura sempre più organica “nel suo scopo, intenzioni e realizzazioni.”

La forma dell’edificio che segue il flusso delle forme di energia naturale come il vento, il calore, i campi elettrici e magnetici, i flussi delle energie del corpo delle mente e dello spirito umani, non è più il sogno utopico di un pugno di romantici visionari, ma un obiettivo a portata di mano, come dimostrano le esercitazioni del seminario di George Elvin.


Le applicazioni possibili

Vogliamo una casa che ci faccia provare il brivido di aggetti mozzafiato? Il nano-acciaio è lì a portata di mano. Vogliamo immagazzinare energia senza quegli ingombranti e orribili pannelli solari? Basta incorporare nano-cellule fotovoltatiche nel tetto e il gioco è fatto. Vogliamo far filtrare la luce del giorno ma non i raggi ultravioletti? Basta dotare le pareti di uno spessore di nano-gel. Siamo spreconi? Ci pensano i nano-sensori a spegnere le luci inutili. È buio e vogliamo salire al piano di sopra? Nessuna preoccupazione, i punti quantici guidati dai sensori “accendono” il muro della scala. Vogliamo intimità? Con un comando le pareti della camera diventano opache. Vogliamo goderci il paesaggio circostante? Con un altro comando le pareti diventano completamente trasparenti. Vogliamo scaldarci di fronte a un caminetto ma senza emissioni? Basta schiacciare un pulsante ed esso appare nella parete.

Edifici che rispondono alle sollecitazioni dell’ambiente circostante, della luce, del vento, del sole e dei propri abitanti. Edifici che dialogano con la natura circostante, con gli umori degli abitanti, che cambiano colore, che diventano completamente trasparenti e si fondono con il paesaggio circostante.

Non siamo di fronte però a esasperati esibizionismi high-tech, ma ad una ricerca impegnata a coniugare creativamente l’apporto poetico-intuitivo con quello scientifico-razionale dell’attuale tecnologia. Per di più questi studenti cominciano ad immedesimarsi nel ruolo loro riservato da questa rivoluzione: “Trovare architetti al lavoro in laboratori non sarà più inusuale – dice Peter Yeadon - che trovarli lavorare in uno studio legale, in enti governativi e nelle compagnie di assicurazioni… Come gli architetti hanno lavorato, nel passato, in stretta connessione con le industrie manifatturiere, così continueranno nel futuro. Tuttavia, nel futuro la produzione sarà molecolare”.

In alcuni decenni, i tradizionali limiti per la progettazione e la costruzione degli edifici saranno eliminati e materiali quali calcestruzzo, mattoni, strutture in accaio, chiodi, viti saranno sostituiti da parti microscopiche in grado di auto-assemblarsi.

“Mentre i materiali costruttivi standard sono statici perché intesi per resistere alle forze dell’edificio, i materiali intelligenti sono dinamici nel loro comportamento in risposta ai campi di energia. Questa è un’importante differenza rispetto al nostro normale significato di rappresentazione progettuale (attraverso le proiezioni ortogonali) che privilegia il materiale statico” (Michelle Addingtons e Daniel L. Schodek).

Ha ragione Hosey quando sostiene che l'architettura organica, in seguito alla nanotecnologia, non sarà più una semplice metafora wrightiana: "Il progetto stesso potrebbe diventare un concetto antiquato. La creazione artificiale sarà inutile quando tutte le cose organiche e sintetiche si svilupperanno 'naturalmente' ".

Ma in una prospettiva di più breve respiro nessun dubbio sul fatto che la metodologia e il significato stesso dell’architettura saranno radicalmente trasformati, in misura ben maggiore di quanto lo furono con la rivoluzione industriale, con l'avvento della macchina e dell'informatica.

In quale misura? Nella misura in cui la relazione non sarà più tra un soggetto (architetto) ed un oggetto (edificio), ma tra due soggetti. “L’analogia tra edifici e organismi sta diventando sempre più evidente. Persino oggi gli edifici, nel loro contenuto, nel loro design e nelle loro prestazioni possono soddisfare la definizione di organismo: un tutto con parti interdipendenti (organi)” (J. Johansen).

Gli edifici saranno infatti sempre meno strutture morte, inerti, per rassomigliare sempre di più ad organismi viventi che ci costringeranno ad una relazione di tipo psicologico con essi. E qui solo l’approccio organico è in grado di evitare sconsiderate evasioni nel mondo (improbabile) degli edifici che si rivoltano contro l’umanità.

In questo contesto quale sarà il ruolo dell’architetto? Nell’immediato futuro lo scenario è quello previsto da Yeadon: “Penso che il lavoro dell’architetto si allontanerà da quello che intendevamo come progetto – sostiene Yeadon - e andrà avanti discernendo sul come i sistemi devono agire a seguito del comando dell’utente o degli utenti. Una volta che avremo raggiunto il punto in cui l’ambiente potrà essere interamente comandato a trasformarsi da questo a quello, a quello, a quell’altro, l’architetto sarà obsoleto.”

Come si vede nell’approccio organico non c’è spazio per quegli scenari da incubo previsti dai catastrofisti del determinismo scientifico. Gli edifici, benché possano un giorno assurgere al ruolo di “soggetti”, non dichiareranno guerra all’umanità, perché non saranno mai in grado di provare odio o amore, di distinguere il bene dal male, di sognare, meditare o pregare, qualcosa che l’uomo ha in esclusiva e che nessuna macchina o tecnologia, per quanto sofisticate o intelligenti, sarà mai in grado di replicare e tanto meno di espropriargli.

“Come l’architettura organica, la qualità di umanità è interiore all’uomo. Il sistema solare si misura in anni-luce; e in consimili termini è misurabile quella luce, che chiamiamo umanità. Questo elemento, l’Uomo come luce, è di là di ogni misura. Buddha fu conosciuto come luce dell’Asia; Gesù come luce del mondo. La luce solare è per la natura ciò che questa interiore luce è per lo spirito dell’uomo: luce Umana... Nulla di più alto esiste nella coscienza umana dell’irradiare di questa luce interiore... Questa luce interna fa certi che l’Architettura, l’Arte, la Religione dell’uomo siano una cosa sola, siano i suoi simbolici emblemi” (F. Ll. Wright).



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