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Economia - Notizie e Commenti
L'economia keinesiana Stampa E-mail
Alcune considerazioni sulla dottrina che sostiene l'interventismo dello Stato in economia
      Scritto da Alessio Finocchiaro
28/02/05

spesapubblica_debito_vignetta.jpgL’economia keynesiana (dal nome del celebre economista inglese della prima metà del Novecento, John Maynard Keynes) è da sempre stata un cavallo di battaglia della sinistra.

Con essa si è avuta la demolizione del principio del pareggio del bilancio, la confutazione dell’idea che sia possibile un riaggiustamento automatico del sistema economico verso il pieno impiego, la critica della neutralità dello Stato nell’arena economica.

E’ sorto invece il principio del sostenimento della domanda aggregata, attraverso lo stimolo della spesa pubblica per riequilibrare il sistema e ricondurlo al pieno impiego su livelli più alti di reddito.

Analisi giusta dal punto di vista analitico, ma l’applicazione in politica economica sarebbe dovuta essere limitata ai momenti patologici di effettivo stallo del sistema economico (es. durante la crisi del 1929). Questo perché effetti collaterali sono l’inflazione, l’esplosione del debito pubblico, con rinvio dei costi al futuro (gravanti sulle nuove e future generazioni).

Dal punto di vista, inoltre, degli incentivi dei singoli all’iniziativa individuale, lo Stato-interventista o, peggio, lo Stato-imprenditore non può che essere un giocatore o concorrente con le carte truccate nei confronti dei soggetti economici operanti negli stessi settori. Oltretutto, se si tratta di "monopoli naturali" (per es. le ferrovie ed un tempo anche le telecomunicazioni), che siano in mano privata o in mano pubblica sempre monopoli rimangono, con gli effetti che tutti conoscono.

Ma la cosa più grave dal punto di vista etico è che, mentre il sistema dei prezzi in una economia di mercato non è altro che la risultante di milioni di preferenze individuali (di noi tutti come consumatori e fruitori dei beni), le scelte dell’operatore pubblico – invece – non è detto che rispettino tali preferenze liberamente espresse, ma possono tranquillamente risolversi in una scelta monocratica del burocrate o del politico preposto a tale azione, anche se in buona fede e in forza di leggi votate in Parlamento.

Spesso poi – per giustificare l’interventismo statale – si fa leva sui cosiddetti "fallimenti del mercato" (ad es. disinteresse per certe opere di utilità sociale, poiché esse non possono essere fonte di profitto).

Il problema è però che certe opere di utilità sociale (naturalmente eccetto alcune quali ospedali, scuole, università, ordine pubblico, Giustizia, di cui è pacifico ed indiscutibile che la loro esistenza sia garantita, gestita e controllata da parte dei Pubblici Poteri), le opere di utilità sociale, si diceva, facilmente si prestano a fenomeni di illusione finanziaria (ossia il fenomeno secondo il quale i cittadini sovrastimano i benefici e sottostimano i costi di un opera pubblica); inoltre si prestano ad operazioni di "politica del consenso" (ad es. si hanno in genere minori entrate e maggiori spese proprio a ridosso delle consultazioni elettorali, per massimizzare la probabilità di rielezione futura).

Detto tutto ciò, ci si potrebbe chiedere se i mali del nostro Paese, più che ad una carenza di regolamentazione, non siano invece anche figli di un elefantiaco sistema normativo (si parla di circa 240.000 norme!!), di una sfiducia dei Pubblici Poteri nei confronti dell’iniziativa individuale e, fondamentalmente, di una non piena consapevolezza di cosa significhi uno Stato liberaldemocratico moderno, con un sistema effettivamente di mercato e concorrenziale.

Insomma, continuare a dire che il capitalismo sia barbarie e "Far West" se non mitigato da uno stato interventista (anziché regolatore, come invece dovrebbe essere) è anacronistico e oltretutto frutto di pregiudizi ideologici che potevano andare bene nell’800. Oggi, infatti, è una tesi non più sostenibile, non perché non sia più di "moda", ma perché ci sono prove empiriche inconfutabili, con cui ogni Paese occidentale deve fare i conti.

Senza necessariamente andare a vedere i motivi del crollo di uno dei più grandi – se non il più grande – regime tirannico e dispotico del nostro secolo, quello sovietico, basterebbe vedere empiricamente se esiste o meno un ritardo economico ed anche economico-culturale che distanzia l’Europa dagli U.S.A.

L’Europa – si pensi ai nefasti anni ’70 con scioperi, inquietudini sociali, incertezze sul futuro –, pur con diverse gradazioni tra i vari Paesi del nostro continente, si è fatta infatuare da termini quali pianificazione economica, economia sociale di mercato, mano pubblica, economia mista, o addirittura inflazione programmata, politica dei redditi, concertazione. Per non parlare poi di una sindacalizzazione così eccessiva da ormai garantire il lavoro vita natural durante a chi il lavoro già ce l’ha e pregiudicarlo a chi il lavoro non lo ha (si pensi ai giovani, ai laureati, ricercatori, chimici, ingegneri etc. costretti ad infoltire l’esercito dei cervelli in fuga, specialmente oltreoceano). Ma si pensi non solo a queste élites: si pensi a giovani italiani che sono costretti a rimandare il distacco dalla famiglia, e quindi rimandare la costruzione della propria, quando in altri Paesi questo è possibile già in giovanissima età. Perché? Perché il mercato del lavoro è più semplice; c’è sì libertà di licenziamento, ma ci sono anche più opportunità proprio perché gli imprenditori non sono sposati "senza divorzio" ai propri dipendenti.

Gli Stati Uniti ed anche la Gran Bretagna, invece, fedeli alle loro tradizioni liberali, hanno sempre dichiarato la propria diffidenza verso i richiami interventisti (chissà se poi anche l’euroscetticismo britannico non affondi alcune delle sue radici proprio in questo campo).

Negli anni ’80 Reagan e la Thatcher hanno infatti dato l’impulso verso una correzione di rotta nei loro rispettivi paesi. Quando hanno cominciato a demolire i dogmi keynesiani si è gridato allo scandalo.

Negli USA la liberalizzazione dei trasporti aerei e delle telecomunicazioni è avvenuta nel 1977 e perfezionata negli anni ’80. Da noi – in Italia – quella delle telecomunicazioni è avvenuta quasi alle soglie del 2000 (tra l’altro con molte riserve).

Delle due, l'una: o Reagan aveva torto e allora noi abbiamo ripetuto l’errore con 20 anni di ritardo, oppure aveva ragione e allora, comunque, l’abbiamo capito 20 anni dopo!

La svolta Reaganiana e della Thatcher è stata in realtà una reazione agli eccessi dello Stato Sociale, che nel breve periodo possono essere sicuramente giustificati per un obbiettivo di perequazione dei redditi e di giustizia sociale, ma che nel medio-lungo periodo possono dare una stretta soffocante allo sviluppo e alla crescita economica.

Infatti il welfare state, termine coniato dagli Inglesi dopo la II guerra mondiale, può essere ritenuto oggi indiscutibilmente necessario, ma ha prima di tutto un costo ed inoltre effetti indotti.

E’ sicuro anzitutto che lo Stato Sociale se lo possono permettere solo i Paesi industrializzati che hanno raggiunto un certo prodotto interno lordo, e che quindi lo sviluppo economico ne è un presupposto imprescindibile. Inoltre, gli effetti indotti o collaterali consistono nel fatto che tale Stato Sociale (naturalmente nei suoi eccessi)  ha effetti recessivi sull’economia (si pensi alla pressione fiscale necessaria per finanziarlo, che distoglie immense risorse dagli investimenti diretti dei privati e quindi riduce la crescita e diminuisce l’occupazione, pregiudicando il futuro delle nuove generazioni).

La svolta neoliberista di Reagan e della Thatcher non è stata solo un atto di fede in principi che uno può condividere o meno, perché essa ha anche basi economiche teoriche suscettibili di verifica empirica sul campo.

Ad es. un economista statunitense di nome Arthur Laffer, negli anni ’80, ebbe modo di illustrare analiticamente che nella relazione tra aliquote fiscali e gettito vi fosse una sorta di trappola.

Infatti la relazione - detta appunto curva di Laffer - che lega queste due variabili nel medio-lungo periodo fa sì che al crescere dell’aliquota fiscale il gettito ovviamente aumenta, ma, superata una certa soglia, all’aumentare delle aliquote il gettito diminuisce per gli effetti disincentivanti all’iniziativa individuale dell’eccessiva pressione fiscale.

Anzi, una diminuzione delle aliquote da questo punto critico determinerebbe un aumento del gettito, perché nel frattempo l’economia –stimolata da questa diminuzione di aliquote - sarebbe cresciuta e quindi il volume dei redditi (la base imponibile) si sarebbe ampliata. In altre parole, la torta da tagliare si sarebbe ingrandita.

Tra l’altro, nel nostro Paese da più parti si parla di lavoro nero (specialmente nel Mezzogiorno, ma non solo) che sfugge completamente agli uffici dell’Erario.

Un individuo che lavora in nero non sarebbe incentivato, una volta ridotte le aliquote, a legalizzare la sua posizione o attività e vivere più alla luce del sole? Non è quindi vero lo slogan "pagare tutti per pagare meno", ma sembra più plausibile "pagare meno, pagare tutti".

E poi, non è contraddittorio che i vari Governi succedutisi fino ad oggi trovino "blasfemo" (per esigenze di copertura del disavanzo) ridurre le imposte e nel frattempo stanzino come trasferimenti al Sud, o alle imprese del Nord, immense risorse a fondo perduto di cui alla fine non si sa mai l’utilizzazione concreta?

Oltretutto ciò può dare spazio anche a fenomeni di corruzione, perché gli attori sono pur sempre operatori pubblici (persone!).

Un esempio può essere la legge per "L’Amministrazione Straordinaria delle Grandi Imprese in stato di insolvenza" (legge 3 aprile 1979, n° 95), che è stata censurata addirittura dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, perché ritenuta uno strumento per dare aiuti di Stato ad imprese decotte, cosa espressamente contraria ai Trattati CEE, per ragioni di concorrenza.

Potrebbe sembrare che lo Stato, o meglio il Governo, operi con due mani, e la mano destra non sappia quello che fa la mano sinistra.

E se invece lo sa, allora è arrivato proprio il momento di cambiare.



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