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Economia - Notizie e Commenti
Il marketing, questo sconosciuto Stampa E-mail
Che cos'è, quali applicazioni ha
      Scritto da Lorenzo Di Muro
01/07/04
impiegati_uomodonna_marketing.gif Perché ognuno di noi, almeno una volta nella vita, ha iniziato una raccolta-punti del Mulino Bianco per portarsi a casa l’agognata pirofila oppure la preziosa sveglia?

Perché, sempre noi, abbiamo sostituito il nostro shampoo preferito, nel momento in cui abbiamo notato su uno scaffale del supermercato un’invitante confezione 3x2 di un’altra marca? E per quale motivo, ad un certo punto, abbiamo iniziato a credere che alcune gomme da masticare, prima nemiche dei denti, potessero proteggere la nostra igiene orale?

Tutte queste domande hanno un’unica risposta: il MARKETING AZIENDALE.

Il marketing ha vissuto negli ultimi 25 anni una significativa ascesa tra le funzioni aziendali; contemporaneamente, abbiamo assistito ad un uso/abuso di questo termine, il che ha generato una forte confusione sulla materia (l’errore più comune è confondere il marketing con la semplice pubblicità) e numerosi luoghi comuni, difficili tutt’oggi da sfatare.

Leggendo il marketing aziendale sotto una luce neutrale, potremmo descriverlo come tutto l’insieme di analisi, strategie ed operazioni che costituiscono il collegamento tra un’azienda ed i suoi clienti attuali e potenziali: analisi del mercato, analisi delle opportunità e delle minacce, delle forze e delle debolezze, posizionamento del prodotto/servizio, scelta del target, composizione del giusto mix di prodotto – prezzo – distribuzione – comunicazione (in quest’ultima troviamo, tra gli altri, lo strumento della pubblicità, che come abbiamo affermato rappresenta quindi una delle armi del marketing), monitoraggio della soddisfazione del cliente, assistenza post-vendita, ecc. Si tratta quindi di una funzione complessa, importantissima e trasversale all’interno delle aziende, che sovente ne fanno una filosofia di business.

Negli anni, però, questo strumento di collegamento tra azienda e clienti è stato visto ‑ e con esso i suoi operatori ‑ anche sotto luci meno neutrali. Vance Packard ha attaccato i professionisti di marketing definendoli come avidi “persuasori occulti”, pronti ad utilizzare qualsiasi artificio per poter propagandare le proprie merci; mentre Malcom McNair li ha analizzati sotto una luce molto positiva, come “creatori e diffusori di benessere”.

Ora, noi potremmo vedere il marketing come un imputato che si deve difendere da numerose accuse in un’aula di tribunale, dove Packard e altri come lui vestono i panni del pubblico ministero, e McNair quelli della difesa. Ricordando sempre che tutte le accuse e tutte le apologie del nostro imputato dipendono fortemente dal contesto storico, sociale, culturale ed economico in cui vengono formulate.

Gli anni Cinquanta e Sessanta, in cui scrive Packard, rappresentano un terreno fertile per le prime frecciate contro il marketing aziendale, nel quale vengono utilizzate per la prima volta scienze come la psicologia, la psicanalisi e l’antropologia, per studiare più sistematicamente il consumatore ed il suo comportamento. Packard – l’ ‘accusatore’ ‑ vede queste analisi come uno stigmatizzabile sfruttamento delle insicurezze e delle paure dell’individuo–consumatore, senza rispetto per le pieghe più intime delle persone. Aggiunge inoltre che il marketing è direttamente colpevole del cosiddetto ‘invecchiamento psicologico’ dei prodotti, finalizzato a creare nella mente del consumatore l’artificiale necessità di sostituire un prodotto che potrebbe ancora soddisfare le esigenze per le quali fu acquistato. In quegli anni tutto il mondo del marketing si difende puntando fortemente sul fatto che, in ogni caso, lo studio del consumatore è utile a tutte le parti in questione: le aziende avrebbero prodotto beni vendibili e i consumatori avrebbero avuto a disposizione i prodotti che loro volevano, in uno scambio di informazioni definito da Ernest Dichter (un ‘difensore’, come McNair, del marketing) “ricerca motivazionale”.

Gli anni Ottanta sono il decennio che ha visto come sfondo politico ed economico il liberismo Reaganiano e Tatcheriano, e come contesto sociale il conseguente ‘edonismo’ in tutto il mondo occidentale; in questo periodo le voci che si alzano dal banco della ‘difesa’ sembrano aver la meglio nel ‘processo’ di cui stiamo parlando.

In quest’epoca d’oro per il mondo aziendale e per la sua filosofia del marketing, i consumatori (con una disponibilità di reddito per il consumo più elevata dei decenni precedenti) cercano di cogliere il lato positivo nell’offerta delle aziende: prodotti nuovi (o migliori), servizi nuovi (o più efficienti), o anche semplici mode. Il walkman, i Macintosh Apple, le Nike o i McDonald’s vengono visti più come ‘doni dei tempi moderni’ che come minacce. Anche l’uomo di marketing si trasforma da ‘persuasore occulto’ a ‘benefattore’: i media se ne occupano ampiamente, le facoltà universitarie di economia vengono sconvolte dal boom degli iscritti, convegni, corsi e riviste sul marketing spuntano come funghi.

Quest’ondata di ottimismo e il silenzio delle accuse durerà quasi quindici anni. A metà degli anni Novanta, infatti, assistiamo ad un nuovo cambiamento di scenario: dal punto di vista economico, il rallentamento brusco dello sviluppo economico comporterà un indirizzamento da parte del consumatore verso prodotti con minori investimenti di marca, spunteranno gli hard discount e caleranno vistosamente gli investimenti pubblicitari. Politici, giornalisti, opinionisti di provenienza e direzione diversa riprendono ad utilizzare il termine marketing con una accezione negativa, di nuovo simile a quella di Packard.

In questo contesto nuovamente fertile per le critiche, la toga dell’accusatore principale viene ora indossata dalla giornalista canadese Naomi Klein, che nel suo best seller No Logo del 2001 presenta contro il modo di fare business delle aziende tre capi di accusa pesantissimi: le aziende, con cospicui investimenti pubblicitari, caricano i propri marchi di valori emotivi e sociali che hanno molta – troppa – presa, soprattutto sui più giovani, trasformando i marchi in stili di vita analoghi a vere e proprie ideologie; con questi supermarchi le multinazionali hanno colonizzato settori diversi di molti mercati, mettendo in difficoltà i concorrenti più piccoli e più deboli; infine, per finanziare i loro investimenti nel marketing e nella comunicazione, hanno ridotto i costi di produzione, sfruttando ‑ direttamente o indirettamente ‑ la manodopera del terzo mondo.

Oggi gli operatori del marketing ed i suoi difensori sono chiamati ad una pronta risposta  che possa risollevare le loro sorti nel nostro ‘processo’ virtuale. La prima controffensiva alla Klein l’ha fornita l’Economist con il suo articolo ProLogo, che incentra la linea difensiva sui vantaggi che marketing e marchi offrono al consumatore in termini di garanzia di qualità, dal momento che le stesse aziende sono interessate a mantenere alti livelli qualitativi per non rischiare l’allontanamento del consumatore. Altre accuse della Klein generalizzano comportamenti di singole aziende (non sempre legati al marketing), o li deformano a fini politico-ideologici.

Non c’è qui lo spazio per analizzare nel merito i singoli casi e i loro risvolti politici. È in ogni caso evidente che l’aspetto etico è al centro della discussione. Abbiamo già evidenziato che molto dipende dal contesto più ampio in cui opera e nel quale viene giudicato il marketing. La ‘difesa’ potrebbe aggiungere che l’aspetto etico non riguarda tanto la materia in sé, quanto le persone e il loro modo di operare: quindi può esserci un uomo di marketing disonesto come c’è l’idraulico disonesto; la funzione marketing è di per sé uno strumento eticamente neutro.

Un ulteriore argomento per spiegare meglio cos’è il marketing, valorizzandone anche gli aspetti positivi, è quello di evidenziare non solo le applicazioni aziendali, ma anche quelle no profit. Quando ‑ qualche anno fa ‑ si iniziò a sentir parlare di marketing della Pubblica Amministrazione, di marketing dello sport, di marketing dei beni culturali, di marketing della sanità e delle organizzazioni di volontariato, alcuni iniziarono subito a storcere il naso (“non si può vendere un’opera d’arte come se fosse una saponetta”, era un pregiudizio facile da proporre). Ora, però, si può porre l’attenzione sugli importanti risultati ottenuti dal sistema in queste sue applicazioni: l’utilizzo dei codici a quattro colori in molti Pronto Soccorso ha migliorato l’offerta della Sanità pubblica; il merchandising relativo ad alcuni artisti ed alle loro opere più famose (come ad esempio Klimt) ha avvicinato più persone a questi artisti e ha spinto più fruitori dell’arte (anche ‘profani’) nei musei e nelle mostre; lo sportello unico può rappresentare una grande facilitazione per molti cittadini–consumatori.

Tirando le somme, dunque, i ‘difensori’ del marketing possono ammettere che alcune delle accuse formulate negli ultimi decenni sono state utili. Ma gli stessi ‘difensori’ possono evidenziare alla ‘giuria’ anche gli aspetti positivi del marketing, come strumento di conoscenza e comunicazione, capace di offrire una scelta più ampia e migliorare la vita della collettività. Le nuove applicazioni al settore del no profit possono aiutare il marketing a recuperare, dopo tante critiche, una nuova immagine. Anche perché, scusate: ma un marketing con una cattiva immagine, non è un po’ una contraddizione?



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