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Libri - Recensioni e Profili
"Conversazioni notturne a Gerusalemme" Stampa E-mail
Il "rischio della fede" secondo il cardinal Martini
      Scritto da Gabriele Vecchione
15/12/08

Il cardinale MartiniCarlo Maria Martini, Georg Sporschill
Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede
ed. Mondadori, Milano 2008


Il card. Martini, uno dei maestri mondiali della lectio divina e dell’esegesi biblica, ha dato alle stampe, dal buen retiro di Gerusalemme, il suo Conversazioni notturne a Gerusalemme, che qualcuno ha addirittura individuato come il suo testamento spirituale. Si tratta di un best seller che ha ricevuto numerosi elogi da molte riviste di religiosi e persino da Eugenio Scalfari che, con la nota licenza teologica, si è entusiasmato all’idea che “il Figlio dell’Uomo per Martini sia molto più pregnante del Figlio di Dio” (Scalfari è ancora convinto che l’uomo si salvi da sé – e come? - e che non abbia bisogno di Dio).

Recensire il libro in questione non può essere impresa facile: perché lo stile del cardinale è chiaroscurale; perché l’autore è un “principe della Chiesa” e si rischia, discutendo sulle idee, di intaccare la reputazione integerrima della persona. Motivo per cui non diremo niente sulla sua paura della morte, né sulla sua preghiera, né sul suo rapporto con la realtà della crocefissione di Gesù: “perfino da vescovo, a volte, non riuscivo ad alzare lo sguardo verso il crocifisso” (p. 10). La prudenza nella recensione si impone anche perché chi scrive si onora di far parte della Chiesa, e dunque è d’uopo salvaguardare una particolare carità familiare.

Nei contenuti, in alcune idee, il card. Martini mostra il suo lato debole. E, forse, anche nella scelta dell’intervistatore, il gesuita Georg Sporschill che, già nella prefazione, dileggia, neanche troppo velatamente, il Gesù di Nazaret di Benedetto XVI: “una professione di fede nel buon Gesù”, mentre Gesù sarebbe “l’amico del pubblicano e del peccatore. Ascolta le domande della gioventù. Porta scompiglio. Lotta con noi contro l’ingiustizia”. Ancora nella prefazione Sporschill riporta una battuta, probabilmente – ce lo auguriamo - ad usum privatum, del cardinale il quale si proclama, anziché un antipapa, “un ante-papa, un precursore e preparatore per il Santo Padre”.

Nel libro, prima di ogni capitolo, è ripresa la citazione di qualche ragazzo, con l’intenzione di “aprire” la Chiesa alle domande della gioventù (anche se, a p. 32, giustamente si fa notare: “i giovani non dicono nulla, non partecipano”. A dire il vero, molti giovani cattolici partecipano nelle parrocchie o nei movimenti ecclesiali; ma forse il cardinale si rivolge ai giovani “di idee politiche di sinistra” che magari hanno “gli stessi obiettivi della Chiesa”, p. 49).
Forse sarebbe stato più opportuno omettere la citazione di qualche ragazzo, magari intrisa dei luoghi comuni tipici di chi vorrebbe la Chiesa sbracata su qualsivoglia deriva sincretistico-libertina: “Il papa ha attaccato i musulmani, poi ha criticato i protestanti, e adesso torna la messa in latino (è forse questa la fonte di ogni male?, ndr). Va tutto nella stessa direzione. Per me si mette male. Probabilmente anche per il buon Dio” (così una certa René, la quale - accidenti! – riesce a leggere nella mente di Dio!).
Similmente, per la carità familiare di cui sopra, potevano essere risparmiati gli attacchi insensati, da parte di una tale Evelina, contro la “Chiesa misogina” (“all’altare e in Vaticano solo uomini”) che usa la Bibbia “in modo sessista”. Soprattutto se a questi attacchi non viene fornita risposta puntuale...

Il Gesù di cui si legge nel volume è legato a doppio e triplo filo ad un ideale di giustizia molto, se non unicamente, terreno. Se spesso si citano come ingiustizie, e a ragion veduta, la chiusura di mente, il pregiudizio, un atteggiamento di rifiuto verso lo straniero e la sperequazione mondiale, mai si citano i numeri impressionanti dell’aborto come “distruttori di pace” (s. Teresa di Calcutta), mai si legge una parola di condanna per il piattino poco succulento che frigge nelle cucine della modernità, l’eutanasia. A pag. 24 si legge: “Gesù ha osato intervenire e mostrare che l’amore di Dio deve cambiare il mondo e i suoi conflitti. Per questo ha rischiato la vita, sacrificandola infine sulla croce”. Secondo il teologo Pietro De Marco, ci troviamo di fronte ad una “seriamente lacunosa” “cristologia di stampo liberazionista” (Gesù = ribelle religioso, nonché antagonista “politico” che “paga il suo impegno con la vita”, p. 121), dove – come si può constatare - non c’è nulla “della tradizione trinitaria e cristologica” (De Marco).

Risuona come nota stonata leggere: “Un tempo avevo sogni sulla Chiesa. Una Chiesa che procede per la sua strada in povertà e umiltà, una Chiesa che non dipende dai poteri di questo mondo. Sognavo che la diffidenza venisse estirpata. Una Chiesa che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto… Sognavo una Chiesa giovane. Oggi non ho più di questi sogni. Dopo i settantacinque ho deciso di pregare per la Chiesa” (pagg. 61 – 62). Risuona come nota stonata questa confessione di un cardinale in pensione, ormai disilluso da una realtà ecclesiale che gli appare tanto triste. Così desta impressione che un uomo così addentro alla profondità vertiginosa della Parola abbia iniziato solo a settantacinque anni a pregare per la Chiesa la quale, essendo semper reformanda ed ex maculatis immaculata, ha invece continuo bisogno di suffragi e non di fugaci ed effimere aperture mondane.

Il Cardinale presenta gli obiettivi della Chiesa: “giustizia, spirito umanitario, solidarietà” (p. 49), perché la Chiesa, dopo Israele, è “il secondo strumento di pace” (p. 119). Ma la Chiesa, secondo quanto insegna il Magistero, è sì strumento di pace, ma in quanto sposa di Cristo e unico strumento di salvezza: attraverso di lei – nei sacramenti - opera la Grazia divina di cui l’uomo ha bisogno. Potrebbe risultare dannoso omettere questo secondo, ma fondamentale aspetto “soprannaturale”.

Parlando dell’Inferno, Martini specifica che “Gesù giudice” e il “tribunale divino” sono “immagini” adoperate con scaltrezza per “essere giusti l’uno verso l’altro” e “venirsi incontro a vicenda e proteggere i deboli” (p. 18). L’Inferno esiste, ma nel volume ci si riferisce non alla negazione eterna dell’Essere, alla scelta senza ritorno del Male, ma alla sua esistenza già in questa terra, cosicché è “un monito a vivere in modo da non generare mai questo inferno” e una “minaccia”. Il purgatorio è “una delle rappresentazioni umane che mostra come sia possibile essere preservati dall’inferno” (p. 19). Dunque, solo una rappresentazione umana? (Cfr. Lc 13,28 e 16,19-31)

Il capitolo sesto delle Conversazioni si intitola Per una Chiesa aperta. Martini rivendica la bontà della cosiddetta “Cattedra dei non credenti” (p. 104), i quali spiegavano ai fedeli di Milano come salvare il mondo (essendo atei). Noi preferiremmo ascoltare altri tipi di testimonianze: di come agisce la Grazia, di come Cristo continua a ferire col dardo della bellezza, e non di come insigni uomini rifiutino la prospettiva cristiana di salvezza personale.
En passant, il cardinale dà una risposta all’accusa di misoginia della Chiesa e riconosce la dignità data alla donna dal Vangelo che rovescia la condizione pre-evangelica di inferiorità rispetto all’uomo; ma poi aggiunge che “una certa dose di femminismo è necessaria” e su questo “la nostra Chiesa è un po’ timida” (pp. 108-109). Vorremmo chiedere di quale femminismo si tratti: di quello di Maria di Magdala, dell’altra Maria che lava i piedi di Gesù con le sue lacrime, del “femminismo” di Gesù che è il primo rabbì con donne al seguito, oppure di quello delle varie Emma Bonino cristiane che rivendicano il sacerdozio delle donne?

Proprio sul sacerdozio delle donne, Martini riserva al lettore una deludente sorpresa. Mentre la Chiesa docente (ed in primis Giovanni Paolo II) teneva duro contro alcune istanze post-conciliari all’eccesso dell’avanguardia (e, in sostanza, anti-conciliari), Martini spiega: “negli anni Novanta sono andato a trovare a Canterbury l’allora primate della Chiesa d’Inghilterra, l’arcivescovo dottor George Leonard Carey. L’ordinazione di donne aveva provocato tensioni nella sua Chiesa. Ho tentato di infondergli coraggio in questa impresa (sic!): potrebbe aiutare anche noi a rendere più giustizia alle donne e a comprendere come andare avanti” (pp. 108-109).
Quella che per molti anglicani che si convertono al Cattolicesimo perché ritengono che l’ordinazione presbiteriale delle donne, con altri adeguamenti allo “spirito del tempo”, è una sciagura, scopriamo essere una “impresa” per il “principe della Chiesa”. A nostro modesto parere, anche tralasciando momentaneamente la Tradizione, non si riescono a trovare appigli per il sacerdozio femminile nella stessa Scrittura che Martini raccomanda di leggere, studiare e imparare a memoria.

Parimenti, desta un certo sconcerto l’elogio di Martin Lutero come “grande riformatore” che trasse “buone idee” dalle Sacre Scritture (p. 110). Nel sistema di pensiero e di fede cattolico nulla si può prendere da Lutero, eretico nel senso proprio della parola (colui che sceglie): né la riduzione dei sacramenti (su tutti l’Eucarestia - nucleo, vertice, calendario, cuore della Chiesa - ridotta da Lutero a semplice memoria), né l’annullamento del culto di Maria (il suo ruolo è fondamentale nell’economia della salvezza) e dei santi, né la giustificazione sola fide (vd. lettera di Giacomo), né la conseguente predestinazione selettiva di un Dio troppo poco misericordioso, né il rinnegamento del Magistero a favore della sola Scriptura, né la polemica col Papa (“l’anticristo”!), né contro la Chiesa Romana (“puttana di Babilonia”).
Cosa di buono da un’eresia che ha sfasciato l’unità dei cristiani (desiderio vivissimo di Gesù stesso: ut unum sint, Gv, 17, 11)? Per Martini molto di buono: “nel Concilio Vaticano II la Chiesa cattolica si è lasciata ispirare anche dalle riforme di Lutero” (ma, forse, le riforme promosse all’interno della Chiesa, da santi come Francesco d’Assisi, hanno dato frutti molto migliori). Di buono, ancora, vi sarebbe “Il movimento ecumenico”, che è una bella “conseguenza delle riforme” (ma se Lutero non avesse causato lo scisma, non ci sarebbe bisogno di un movimento ecumenico per ricomporlo...). E di qui il nuovo comandamento del cardinale: “sarai felice di essere cattolico, e altrettanto felice che l’altro sia evangelico” (p. 33), a cui vorrei trasgredire dicendo che non posso essere felice che il mio prossimo non si nutra del vero pane di vita eterna e non senta la figliolanza dalla Madonna.

Fin qui il solito chiaroscuro, il classico detto e non detto (con una prevalenza, però, del detto). Ma, tra le pagine 91 e 99, Martini fa nomi e cognomi, ed accusa Paolo VI di aver prodotto un “grave danno” e una “involuzione” con l’enciclica Humanae Vitae. È Montini il bersaglio polemico, accusato imprudentemente “d’aver celato deliberatamente la verità, lasciando che fossero poi i teologi e i pastori a rimediare, adattando i precetti alla pratica” (Sandro Magister). Parola di cardinale: “l’enciclica ha purtroppo prodotto anche un effetto negativo. Molte persone si sono allontanate dalla Chiesa e la Chiesa dalle persone”.
Paolo VI scrisse l’enciclica da solo, sottraendo l’argomento all’attenzione dei Padri conciliari: “a lunga scadenza, la solitudine di questa decisione non si è dimostrato un presupposto favorevole”. Ma nel ’68, col “fumo di Satana nel tempio di Dio”, con i teologi che scoprivano affascinati il mondo ed il marxismo, con i preti che okkupavano le chiese, a chi poteva chiedere aiuto?

Giovanni Paolo II “ha seguito la via di una rigorosa applicazione” dell’enciclica, anche se nell’esortazione apostolica Familiaris consortio (che Martini non cita) “sviluppa in chiave personalista gli argomenti dell’enciclica” (Lucetta Scaraffia) e fa riferimento al c.d. metodo Billings di cui la Humanae Vitae auspicava la sperimentazione.

Manco a dirlo, il cardinale non si aspetta niente da Benedetto XVI: “probabilmente il papa non ritirerà l’enciclica”. Mentre Sporschill (che - lo ripetiamo - ci sembra un intervistatore inappropriato) auspica il ritiro dell’enciclica e le scuse del Papa (legittimato dal cardinale nella propensione costante di “chiedere scusa” per le colpe delle nefande gerarchie), Martini torna al chiaroscuro e dice che “sapere ammettere i propri errori e la limitatezza delle proprie vedute di ieri è segno di grandezza d’animo”. C’è bisogno – dice Martini – di “una nuova cultura della sessualità”, di indicare “una via migliore”, di “richiamarsi alla Bibbia” perché i quarant’anni passati dalla pubblicazione della lettera enciclica sono come i quarant’anni di Israele nel deserto (p. 93); anche se non ci appare chiaro chi, durante questa traversata di infedeltà, di errori e di verità taciute meschinamente, abbia guidato il popolo.

A noi pare, invece, che la Humanae Vitae abbia “retto”. Anche contro la "commercializzazione del sesso”, condannata pure da Martini, in quanto “profonda conferma della insostituibilità della Chiesa come «madre e maestra»”; e perché “il coraggio di Paolo VI, fondato nella sua coscienza nel ruolo di Pietro, fu enorme e, nella lunga durata della sollecitudine della Chiesa per l’uomo, salutare” (P. De Marco).

Quello di Martini, in conclusione, è un volume che fa e farà discutere, ma non le gerarchie e gli organi ufficiali della Santa Sede che si sono chiusi in un silenzio un po’ imbarazzato, anche perché Benedetto XVI, sia da cardinale sia da Pontefice, non ha mai risparmiato elogi al gesuita cardinale.

Ci aspettavamo che Martini, in virtù della sua lunga esperienza di Dio, raccontasse della pienezza della Rivelazione, della liturgia cosmica della Chiesa (lex orandi lex credendi), della storia della salvezza, dei “cieli nuovi e terra nuova” ai quali siamo chiamati. Ha preferito, invece, concentrarsi su consigli di pastorale “quotidiana”, nei quali alterna delicate intuizioni e deboli affermazioni forse eccessivamente intellettualistiche.



Giudizio Utente: / 15

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