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Economia - Notizie e Commenti
La crisi finanziaria (3): l'economia libera ha bisogno di regole Stampa E-mail
Le colpe di Bush e quelle di Clinton. I rischi delle ideologie stataliste e liberiste
      Scritto da Giovanni Martino
17/11/08

finanza da curareQuando si parla di crisi finanziaria, l’associazione mentale immediata è con una crisi del capitalismo. Le cause remote di questa crisi, secondo molti “opinionisti”, andrebbero ricercate nella deregulation promossa dalla presidenza Reagan negli anni ‘80; quelle più immediate, nell’assenza di controlli dell’amministrazione Bush.

La crisi testimonierebbe che il capitalismo è inevitabilmente “selvaggio”, che il mercato non è capace di regolarsi, e che bisogna tornare ad un più deciso intervento dello Stato in economia.

A sostegno di questa tesi, molti hanno portato il parallelo con la crisi finanziaria del 1929, causata da una crescita incontrollata dei mercati azionarî. La conseguenza fu la Grande Depressione degli anni Trenta, risolta solo – si sostiene - grazie al New Deal di Roosvelt, che promosse un intervento diretto dello Stato in economia.

Questa ricostruzione è parziale, ideologica, e quindi fuorviante.

Rievocando la crisi del ’29, bisognerebbe ricordare che questa sfociò nella Grande Depressione per una serie di errori dell’amministrazione Hoover: riduzione della liquidità circolante, inerzia di fronte ai fallimenti delle banche (che generarono una crisi di fiducia e bloccarono la concessione del credito), politiche protezionistiche come lo Smooth-Hawley Tariff Act del 1930 (politiche presto imitate dagli altri Paesi, che generarono volatilità dei cambi e affossarono il commercio mondiale).
Errori dovuti alla latitanza dello Stato? A ben guardare, la fiducia non si impone per legge; e il protezionismo non è un principio della libertà di mercato...
La vera ripresa, inoltre, non fu dovuta al New Deal (costituito da un’insieme di misure confuse e disorganiche: l’analisi di Keynes non era stata ancora elaborata): nel 1941 la disoccupazione era ancora al 25%. La ripresa fu dovuta alla Seconda Guerra Mondiale.


Le responsabilità politiche della crisi attuale

Venendo al passato più recente, le cause immediate della crisi finanziaria, come abbiamo visto in un precedente articolo, vanno ricercate nella crisi dei mutui subprime, nella conseguente esplosione della bolla immobiliare, nella crisi di liquidità dovuta alla svalutazione delle obbligazioni strutturate che contenevano crediti immobiliari.
Sono state compiute scelte di politica economica errate? In caso affermativo, a chi vanno imputate?

Sembra azzardato attribuire responsabilità alla reaganomics (politica economica promossa dalla presidenza Reagan, che privilegiò la libertà di mercato): sono passati quasi trent’anni, e sono stati anni di crescita economica imponente per gli Stati Uniti e per il mondo intero, trainato da quella crescita.

Bisogna piuttosto capire quali provvedimenti di politica economica possano essere direttamente collegati alla crisi dei mutui. Ebbene, i più significativi sono stati adottati non dall’amministrazione Bush, ma da quella Clinton: la legge Gramm-Leach-Bliley del 1999 (che aboliva la legge Glass-Steagall del 1933, non ponendo più limiti all’attività speculativa di banche commerciali e di banche d’investimento); il Commodity Futures Modernization Act del 2000 (che sottraeva quasi per intero i prodotti finanziarî “derivati” alla regolamentazione e sorveglianza degli organi di vigilanza).

Inoltre, anche durante l’amministrazione Bush, alcuni errori fatti hanno avuto una matrice di “sinistra”, di cedimento a spinte dell’opinione pubblica progressista e dell’opposizione dei democratici (il partito di Obama). È stato lo stesso Bill Clinton, in un’intervista televisiva, a ricordare le responsabilità dei democratici “nell’aver fatto resistenza agli sforzi dei repubblicani, o miei quando ero presidente, per mettere qualche paletto e tenere a freno Fannie Mae e Freddie Mac”. (Fannie Mae e Freddie Mac sono i giganti dei prestiti, ora nazionalizzati, che negli anni hanno garantito su mutui rischiosissimi erogati per aumentare il numero di proprietarî di case tra minoranze e immigrati).


Ideologia statalista e liberista

Lamentare l’assenza di un intervento pubblico nei mercati finanziarî significa non avere nessuna percezione di quelle che abbiamo visto essere le cause immediate della crisi. L’intervento pubblico non è mai neutrale, perché distorce la regolazione del mercato basata sui prezzi; i prezzi sono l’unico sistema efficace (con l’eccezione dei beni pubblici) per misurare la scarsità delle risorse e allocarle correttamente.
L’ideologia statalista è riuscita a promuovere l’erogazione sconsiderata di mutui, alterando il meccanismo dei prezzi con l’illusione del debito: il sottinteso era che lo Stato sarebbe stato il garante in ultima istanza.
Sempre ad un'ideologia di stampo keynesiano è da attribuire la politica monetaria espansiva (taglio dei tassi) che ha stimolato oltremisura l'indebitamento di consumatori e imprese.

Non cadiamo però nel paradosso di etichettare l’attuale come una crisi dovuta al dirigismo e allo statalismo.
Gli attori principali sono stati attori privati (istituti finanziarî, consumatori). La proliferazione di prodotti finanziarî “tossici” è stata possibile anche per l’assenza di regole capaci di far funzionare regolarmente il mercato. Questa assenza di regole è stata difesa da una certa ideologia liberista, che confonde la libertà con l’assenza di regole. Il liberismo ideologico (o anarco-liberismo), è un’ideologia astratta, ben distinta da una cultura autenticamente e realisticamente liberale (la quale – come stiamo per vedere – riconosce il valore di alcune regole).
La crisi finanziaria, inoltre, ha intaccato la pretesa che una delle teorie su cui si basa il liberismo ideologico, quella delle “aspettative razionali”, sia sufficiente a interpretare i fenomeni economici; o addirittura possa renderli prevedibili secondo modelli matematici (come quello di Black-Scholes-Merton), in base al presupposto che il comportamento razionale degli attori economici determini gli scenarî nella direzione voluta dagli attori stessi.

Errori ideologici, dunque. Ma non dimentichiamo che il rifiuto delle regole è stato il paravento dietro cui si sono nascosti comportamenti tesi all’arricchimento di alcuni grandi poteri finanziarî. L’azione di lobbying delle cinque principali banche d’affari americane ha ottenuto che fossero dispensate da un rapporto predeterminato tra disponibilità finanziarie e rischi assunti, e che la loro solidità potesse essere valutata solo con modelli matematici di previsione. Il che le ha condotte ad assumere rischi eccessivi, sino all’orlo del fallimento.
Non facciamo facile demagogia anticapitalista se ricordiamo che i poteri forti hanno solidi “argomenti” per corrompere l’azione regolatrice delle istituzioni pubbliche, le quali hanno bisogno di risorse sempre maggiori per campagne elettorali sempre più costose...

Ma come è possibile che siano state corresponsabili della crisi ideologie opposte, come statalismo e liberismo?
In effetti, si è verificata quella che qualcuno ha definito “stagflazione di sistemi” (la “stagflazione” è la sovrapposizione di fenomeni negativi normalmente alternativi, come stagnazione e inflazione). Le ideologie, con la loro astrattezza, pretendono sempre di soppiantare la realtà con aspirazioni e interessi. In questa crisi, si sono sovrapposti confusamente i difetti delle due ideologie più diffuse, statalismo e liberismo.


Il mercato e le regole

L’economia di mercato si basa sulla libertà: le scelte libere (di consumatori e imprenditori) sono le più efficienti. Le regole che imbrigliano questa libertà, oltre a violare un diritto fondamentale della persona e delle comunità, creano inefficienza e povertà.

Esistono però regole che non imbrigliano la libertà, ma la rendono possibile, preservano le condizioni in cui questa può realizzarsi.

Innanzitutto, le regole che garantiscono concorrenza.
Oligopoli e monopoli, ad esempio, devono essere vietati (se non si tratta di monopolî naturali), perché distorcono il mercato e diminuiscono l'efficiente allocazione delle risorse (c.d. "rendita del monopolista"): aumentando artificiosamente i prezzi, ostacolando l'ingresso di nuovi attori economici che non possono usufruire delle stesse economie di scala (la concorrenza perfetta, ci insegnava Adam Smith, si ha quando esiste un numero di attori così elevato che nessuno di essi è capace di alterarla col suo ingresso o la sua uscita dal mercato).
Anche i conflitti d’interesse distorcono il mercato e limitano la concorrenza. Non solo quelli di chi occupa una carica pubblica e deve regolare i settori in cui possiede interessi. Ma anche, all’interno del mercato stesso, i conflitti – ad esempio – tra chi è produttore e intermediario di un bene o di un servizio. Per fare un semplice esempio: i fondi comuni d’investimento italiani sono tra i meno efficienti al mondo, perché distribuiti soprattutto dalle stesse banche che ne curano la gestione. Le banche, quindi, riescono a piazzare i loro fondi anche se scadenti, o pongono vincoli per l’acquisto dei fondi (apertura di un conto corrente, ecc.).

Servono poi regole che garantiscono trasparenza.
Per garantire la libertà di scelta, e l’efficiente allocazione delle risorse che tale libertà consente, innanzitutto.
Per garantire anche la stessa concorrenza. La libertà di scelta è reale se c’è concorrenza; ma la concorrenza è possibile solo se chi effettua la scelta ha le informazioni che gli consentano di effettuare una comparazione effettiva.
Servono quindi regole che impongano un’informazione chiara e completa. Ma anche una semplificazione delle informazioni, per renderle accessibili ai consumatori, agli investitori, ai risparmiatori “medî”.
Ancora un esempio: le tariffe telefoniche basate su infinite combinazioni (per fascia oraria, per giorno della settimana, per durata della chiamata, per operatore chiamato, con bonus e autoricariche varie) non sono tariffe trasparenti e confrontabili con le tariffe di altri operatori.
Per tornare alle cause dell’attuale crisi finanziaria: un’obbligazione strutturata con un prospetto informativo di cinquanta pagine non è un prodotto trasparente e confrontabile con altri prodotti finanziarî; un bilancio “creativo” non dà informazioni sull’affidabilità di un’impresa.
Inoltre, i conflitti d’interesse che non è possibile vietare per legge devono almeno essere resi espliciti.

Servono anche regole che impongano l’assunzione di responsabilità.
Gli scambi (di merci, di prodotti finanziarî) si basano sulla fiducia, affinché la libertà non sia tradita. L’inganno deve essere adeguatamente sanzionato.
Inoltre, la remunerazione nella conduzione delle imprese o nelle scelte d’investimento dev’essere rapportata al raggiungimento degli obiettivi di lungo termine.
Infatti, se un imprenditore gestisce direttamente la propria impresa, ha a cuore la solidità della stessa. I manager di imprese ad azionariato diffuso, invece, se la loro remunerazione è legata alla redditività di brevissimo termine e alla distribuzione di dividendi, possono prosciugare le imprese stesse (pare che il presidente della Lheman Brothers, Dick Fuild, abbia percepito nel 2008 cento milioni di dollari; come 'premio' per aver condotto al fallimento della banca...).
Similmente, se un risparmiatore fa direttamente le sue scelte di investimento, è attento a preservare il suo capitale. Gli intermediarî finanziarî, invece, possono aver interesse a lucrare commissioni di ingresso (movimentando spesso i capitali) o commissioni di incentivo nel breve termine (suggerendo investimenti volatili).

Servono infine regole che difendano la proprietà, la quale garantisce l’autonomia dell’individuo e della sua famiglia, e costituisce lo stimolo per l’impegno produttivo.
La proprietà va difesa, ovviamente, da furti, esproprî o tassazioni (anche perché tassare i patrimonî significa tassare una seconda volta i redditi – già tassati – che sono serviti ad acquistare i patrimonî stessi). È necessaria anche la protezione della proprietà intellettuale (brevetti), nonché la tutela dei piccoli azionisti (regole di vita interna delle grandi società di capitale).

L’autoregolamentazione degli operatori economici non è in grado di correggere le distorsioni del mercato, come anche questa crisi si è incaricata di attestare. Le regole devono essere poste dallo Stato (o, in alcuni casi, definite a livello internazionale).
Jim O'Neill, capo economista di Goldman Sachs, in un'intervista rilasciata a L'Espresso del 20 novembre (in edicola dal 14), ha dichiarato: "Non spetta ai banchieri autoregolarsi. Spetta ai governi proteggere l'interesse pubblico. (...) prevale la natura umana, che è spinta dalla paura e dall'avidità. Se non è trattenuta da regolamenti stringenti, la natura umana va avanti fino all'abisso". (Parole dettate però dal senno di poi: Goldman Sachs è una delle banche d'investimento che hanno fatto pressioni per non subire regolamentazioni troppo stringenti).
E ancora Alan Greenspan, ex presidente della Federal Reserve (la banca centrale USA): "Quelli di noi - e io in primo luogo - che avevano pensato che bastasse l'interesse delle istituzioni che erogano il credito a proteggere gli investimenti degli azionisti (per non rischiare di fallire, ndr) oggi sono colpiti nelle loro convinzioni".

Chi guarda con diffidenza all’intervento pubblico evidenzia che troppo spesso l'intervento dello Stato è invocato non per garantire il rispetto delle regole di mercato (che - ripetiamolo - sono regole economiche intrinseche), ma per violarle. Denunciare questi interventi statalisti indebiti, però, non deve farci dimenticare che altri interventi sono legittimi e necessarî.
Del resto Gary Becker, tra i più autorevoli esponenti della Chicago School of Economics (la roccaforte del pensiero liberale neoclassico), nell’intervista rilasciata il 21 ottobre a Il Sole 24 Ore ha prescritto come ricetta per superare l’attuale crisi: “più regole, trasparenza per il mercato finanziario, più capitale per le banche”.


Quali regole specifiche per superare la crisi attuale?

Abbiamo visto che, in generale, il corretto funzionamento del mercato richiede la presenza di una serie di regole. Poche, ma necessarie.

Venendo al merito dell’attuale crisi finanziaria: quali regole devono essere ripristinate per superarla?

I leader dei grandi Paesi si sono detti concordi sull’esigenza di una “nuova Bretton Woods”. A Bretton Woods, nel 1944, si tenne una conferenza tra gli Stati per stabilizzare i tassi di cambio tra valute (che vennero ancorate al dollaro, a sua volta legato al valore dell’oro) e consentire la ripresa dei commerci mondiali. Oggi il problema non è quello dei cambi valutarî, ma è di nuovo quello di stabilire regole generali.

Proviamo a riepilogare quelle su cui si è maggiormente discusso, e su cui i capi di Stato cercheranno di trovare un accordo.

1. Trasparenza. Nelle obbligazioni dev’essere esplicitato il livello di rischio; i conflitti d'interesse devono essere dichiarati con chiarezza; i prospetti informativi debbono essere predisposti secondo standard uniformi, prevedendo anche sintesi riepilogative che esplicitino tutti gli elementi importanti; l’assegnazione del rating (livello di affidabilità) alle società dev’essere basato sulla produttività; i bilanci devono essere predisposti secondo standard internazionali certi.

2. Solvibilità. La concessione del credito dev’essere basata su garanzie reali o sull’analisi concreta della capacità di reddito futura. Le eccezioni a carattere sociale devono essere definite dalla legislazione pubblica (visto che poi è allo Stato che si chiede di intervenire per coprire le insolvenze).

3. Stabilità societaria. Gli incentivi dei manager devono essere parametrati al reddito di lungo termine della società (le stock options debbono poter essere esercitate solo dopo un congruo periodo di tempo). Devono esser resi obbligatorî piani pluriennali per le società quotate. Deve essere introdotta la possibilità di un’azione di rivalsa verso le liquidazioni multimilionarie di dirigenti riconosciuti responsabili di cattiva gestione.

4. Speculazione controllata. La “speculazione” è una scommessa sul rialzo o sul ribasso di un determinato mercato (di un bene, una valuta, ecc.). Tutti gli investimenti, in fin dei conti, contengono un margine di scommessa (e quindi di speculazione).
Nel gergo comune, per “speculazioni” si intendono soprattutto le scommesse di breve periodo, che contano di realizzare profitti su imminenti rialzi (o ribassi) del mercato su cui si opera; queste speculazioni, se movimentano grandi capitali, sono in grado di accelerare il rialzo o il ribasso. Si tratta perciò di manovre finanziarie spesso malviste da parte dell’opinione pubblica, che addebita agli “speculatori” l’eccessivo rincaro o deprezzamento di un bene. In realtà la speculazione è utile, perché segnala se il prezzo fissato per un bene non è corretto, se è slegato da basi di redditività reali. Se lo speculatore ha torto, perderà la sua scommessa.
Il problema, però, nasce se le somme immesse su un mercato da un singolo operatore sono talmente grandi da non essere un semplice amplificatore dell’andamento reale, ma diventano capaci di capovolgere questo andamento. A questo punto, la scommessa è vinta per forza, perché è truccata (un po’ come chi rilancia a poker con una somma talmente ingente che gli altri non possono “vedere”: vince sicuramente anche se bluffa).
Per evitare speculazioni capaci di alterare significativamente un mercato, devono essere posti limiti all’investimento di un unico operatore; debbono altresì essere posti limiti alla “leva finanziaria” (possibilità di investire soldi che non si possiedono).

5. Vigilanza sugli operatori finanziarî. La vigilanza dev’essere senza zone franche, valida anche per i centri offshore, gli hedge found, le agenzie di rating (quelle che certificano l’affidabilità delle società).
In Europa, si ripropone l’esigenza di una vigilanza europea. La Banca Centrale Europea ha attualmente solo il potere di definire tasso di sconto e immettere liquidità nel sistema. Attribuirle poteri di vigilanza le consentirebbe anche di acquisire con più certezza le informazioni sullo stato di salute del sistema bancario, necessarie a definire le politiche monetarie.
Un elemento che va sicuramente valutato con severità, per ogni banca, è il rapporto tra prestiti concessi e liquidità disponibile, che deve ridursi nei periodi di maggiore sviluppo.
Le agenzie di rating sono società private che vivono del denaro pagato dai soggetti che devono controllare. Non possono quindi svolgere adeguatamente e con indipendenza il loro compito senza una regolamentazione e una vigilanza pubblica.

6. Garanzie sui depositi. Le garanzie offerte dal sistema bancario sui depositi devono essere rafforzate, per importi molto superiori a quelli attuali.
Non basta, ovviamente, individuare le regole. Serve la forza decisionale per imporre queste regole agli attori finanziarî che lucrano nella confusione, e che esercitano forti pressioni per non avere vincoli.


Accanto alle regole che servono a garantire una corretta fisiologia del mercato, servono interventi straordinarî che ne curino la patologia. Gli antibiotici fanno male se presi senza indicazione; ma sarebbe da incoscienti rinunciarvi con un’infezione acuta in corso.

In particolare, potrebbe rendersi necessario l’intervento degli Stati nell’azionariato delle banche, per garantire liquidità, sembra oggi necessario. 
E' vero che il fallimento di un’impresa è un evento fisiologico nel mercato, perché serve ad eliminare cause di cattiva allocazione delle risorse. Ed è anche vero che la prospettiva di poter contare su un salvataggio pubblico può spingere gli operatori finanziari a comportamenti di "azzardo morale".
Bisogna però distinguere il caso singolo da un'emergenza generale. Regole più incisive stabilite in precedenza avrebbero potuto portare a fallimenti isolati e "salutari", costringendo gli azionisti delle altre banche a ricapitalizzare e correggere i loro comportamenti futuri. Ma, al punto in cui si era arrivati nell'estate 2008 (quando il Governo USA ha lasciato fallire Lheman Brothers), era troppo tardi. Il fallimento generalizzato di banche (come si verificò nel ’29) avrebbe generato una crisi di fiducia che avrebbe paralizzato l’intero sistema economico. Le banche lo sapevano e hanno intenzionalmente evitato interventi di risanamento, attendendo l'inevitabile intervento pubblico.

La necessità di un intervento, peraltro, non significa che le sue modalità siano indifferenti.
Innanzitutto, dev’essere ben ponderato il costo degli interventi. I titoli azionarî delle banche saranno acquistati dagli Stati a prezzo di mercato, e potranno quindi offrire un adeguato ritorno quando saranno rivenduti (magari obbligando le banche che vogliono riacquistare i proprî titoli a pagare allo stato un premio di riscatto)? Oppure si tratterrà di titoli acquistati a prezzi gonfiati, gravando sulle casse dello Stato (e quindi sulle tasse), e premiando i comportamenti dissennati delle banche?
Il secondo fattore rilevante è costituito dai poteri decisionali assegnati allo Stato. Che dovranno essere ridotti al minimo (una sorta di vigilanza interna), per evitare il pericolo che si ripetano le cattive gestioni delle banche pubbliche.
Legato al secondo, è il terzo fattore, il tempo, che dovrà essere contenuto (tre/cinque anni; il salvataggio di Credito Italiano, Banca Commerciale e Banco di Roma, nel 1930-‘31, sarebbe stato cosa utile, se non si fosse trasformato in una presenza fissa dello Stato nel settore bancario).
L’ultimo fattore è la neutralità, per evitare che gli interventi alterino la concorrenza. A tal proposito, sarebbe utile che almeno l’Unione Europea,al suo interno, stabilisse criterî e strumenti di salvataggio unici.



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