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"Poveri, perché? Un cristiano s'interroga" Stampa E-mail
Un saggio chiaro per spiegare la globalizzazione, le cause (e i rimedi) alla povertà nel Terzo Mondo
      Scritto da Domenico Martino
01/02/03

Poveri, perché? Un cristiano s'interroga    
favela.jpgdi Desiderio Pirovano, ed. Sperling & Kupfer

  Uno dei fenomeni più incredibili (paradossali? ridicoli?) di questa modernità è il fervore che si è scatenato negli ultimi anni sul tema della cosiddetta “globalizzazione”. Non perché non investa problemi importanti ed appassionanti; ma semplicemente perché si è scatenata una guerra ideologica, un’animosità incandescente, fino ai moti di piazza, sull’esigenza di schierarsi pro o contro qualcosa... che nessuno sa cosa voglia dire! O che ognuno intende a modo suo.

Il libro di Don Desiderio Pirovano “Poveri: perché? Un cristiano s’interroga” (Sperling & Kupfer) è un libro di straordinario interesse, per come affronta il problema dello sviluppo nel Terzo Mondo. Innanzitutto, l’approccio è lontano sia dal cinismo economicista del tipo “ognuno si arrangi da sé”, sia dal vittimismo terzomondista, abbastanza inconcludente, del tipo “è tutta colpa dell’Occidente cattivo e delle multinazionali”. L’analisi nasce da una preoccupazione sincera di capire le vere cause di un fenomeno, nella convinzione che solo così sia possibile affrontarlo. L’altro grande merito del libro è la ricchezza di dati, l’accuratezza dell’analisi: poche teorie ideologiche ed astratte, molti fatti ed informazioni.

Ebbene, l’autore spiega che è fuorviante vedere le cause della povertà nello “sfruttamento” da parte dell’Occidente capitalistico. In primo luogo, il sottosviluppo non è nato certo col colonialismo: esisteva da prima, ed è restato dopo. Anzi, con l’indipendenza in molti Paesi è precipitato il reddito pro-capite, sono finite in abbandono le infrastrutture create nel periodo coloniale. Rilevare ciò non significa, naturalmente, rimpiangere il colonialismo, dimenticare la violenza che portò con sé, negare che fu anche sfruttamento. Né significa dimenticare che ancor oggi gli Stati occidentali spesso non sono solo “distratti”, ma sono anche protagonisti in negativo: molte guerre, pur avendo origine in rivalità locali, trovano sponda nella contrapposizione tra potenze straniere per conservare le loro “sfere d’influenza”; e accade che le classi dirigenti locali siano interlocutori rispettati anche quando esprimono la corruzione più grave. Ma inquadrare la giusta dimensione degli effetti del colonialismo significa solo puntualizzare che non è stato quello sfruttamento (senz'altro ingiusto) la causa dei mali che conosciamo.

Oggi si punta poi l’indice contro i rapporti commerciali internazionali, che costituirebbero un nuovo sfruttamento, una sorta di neocolonialismo sorto per depredare i Paesi poveri delle materie prime e per arricchire le multinazionali. Se questi rapporti fossero di sfruttamento, allora la “globalizzazione”, intesa come interdipendenza politico-economica sempre maggiore nel mondo, sarebbe “cattiva”, non farebbe altro che accrescere le disuguaglianze; per cui “i ricchi sono sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri”.

A queste accuse, don Pirovano oppone ancora i fatti. Se è vero che i Paesi ricchi consumano tre quarti del reddito mondiale, è anche vero che ne producono ben più dei tre quarti!

Si consideri poi che oltre il 90% dei commerci mondiali avviene tra Paesi ricchi, i quali non si “sfruttano” certo a vicenda; per di più, i Paesi poveri che hanno conosciuto il maggiore sviluppo sono proprio quelli che hanno rapporti più stretti con l’Occidente. Quanto all’importanza delle materie prime, si pensi alla ricchezza di Svizzera o Giappone, Paesi del tutto privi di risorse naturali.

Naturalmente, non si può ignorare che i commerci spesso non sono trasparenti, e non aiutano la parte più debole. Ridimensionare il concetto di sfruttamento globale non significa dimenticare i tanti casi locali di sfruttamento reale.

La soluzione è nel "commercio equo e solidale"? Con questa definizione si intende una rete di distribuzione parallela che cerca di privilegiare la qualità del prodotto e i diritti dei produttori poveri, garantendo a questi una remunerazione più alta. Si tratta di un'iniziativa interessante, ma con alcune ambiguità. Commercio "solidale", certo; ma la definizione di "equo" lascia sottintendere che il commercio basato sull'incontro di domanda e offerta sia "iniquo"... In realtà, le situazioni di "iniquità" o di "sfruttamento" non sono dovute alle leggi dell'economia, che servono a garantire il migliore utilizzo delle risorse. Lo sviluppo nasce proprio dallo sforzo dei produttori di contenere i costi per tenere bassi i prezzi; prezzi artificiosamente alti producono rendite. Questo non significa che il produttore debba essere costretto a vendere a prezzi che ne garantiscono a malapena la sussistenza. Se il suo potere contrattuale rispetto agli acquirenti-distributori (spesso le cosiddette multinazionali) è ridotto, bisogna intervenire su quei fattori: eliminando delle monoculture (spesso imposte dai regimi locali per avere un maggiore controllo del sistema produttivo), favorendo l'accumulazione di capitale da investire per migliorare le tecniche, stimolando una crescita di consapevolezza nei produttori che porti a "concentrare" l'offerta e pretendere migliori condizioni, ecc. Garantire prezzi più alti col commercio "equo e solidale" può essere utile se queste iniziative sono legate a progetti di sviluppo mirato; ma pensare che possa essere un modello di sviluppo economico significa illudersi e non affrontare i veri problemi dello povertà.

Il punto è che non risiede nello "sfruttamento" la causa principale della povertà di alcuni e della ricchezza di altri. I singoli episodi di ingiustizia ingrossano le tasche di sfruttatori poco lungimiranti, ma danneggiano le possibilità di crescita vera sia del Terzo Mondo sia dei Paesi sviluppati, i quali fanno affari maggiori quando hanno rapporti con interlocutori ricchi. Lo dimostra la grande crescita (che nessuno ha impedito) di Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Malesia (ed ora anche la Cina, i Paesi dell'Est, ecc.). Perdere di vista la causa effettiva dei problemi denunciati significa perdere di vista la via d'uscita.

Ma perché in molti sono vittima di questi equivoci? Il nodo è in un pregiudizio culturale: il pregiudizio che la ricchezza di qualcuno sia sempre fondata sulla povertà di qualcun altro: in un’economia “a somma zero” la ricchezza sarebbe sempre frutto della rapina. Si tratta di un pregiudizio che ha radici lontane, e che aveva anche qualche fondamento nelle vecchie economie rurali, in cui la ricchezza si fondava prevalentemente sul possesso della terra, che è un bene limitato. Ma questo schema mentale ignora la capacità del lavoro e dell’ingegno umano di creare nuova ricchezza, soprattutto nelle economie moderne: una capacità che è del resto evidentissima se guardiamo alla crescita esponenziale del benessere complessivo negli ultimi cinquant’anni. Una capacità che è stata esaltata anche dal magistero di Papa Giovanni   Paolo II.

Non bisogna ignorare, aggiungiamo noi, che quel pregiudizio è tenuto vivo anche da un altro retaggio: il bisogno degli orfani dell’ideologia comunista di riproporre lo schema “nel capitalismo c’è sempre la contrapposizione tra sfruttatori e sfruttati”.

Quale via d’uscita, allora, al sottosviluppo? La chiave sta nella crescita culturale dei Paesi poveri: scolarizzazione di massa; acquisto di una mentalità imprenditoriale; superamento di vecchie lotte tribali; sviluppo di una cultura delle garanzie giuridiche per proprietà e commercio; crescita delle classi dirigenti locali (che finora hanno saputo spendere le risorse interne o gli aiuti ricevuti solo per armi e clientele).

Ma se è vero che la ricchezza dell’Occidente non dipende dalla povertà di altri, ma anzi è nell’interesse di tutti una crescita comune, una “globalizzazione buona”, allora diventa più grave (stolta, oltre che immorale) l’indifferenza al dramma del Terzo Mondo: “è colpa loro, se la vedano loro”. A parte le nostre colpe dirette (politiche, economiche), è ridicolo limitarsi a chiedere crescita culturale a chi muore di fame; bisogna anche dare: l’Occidente ha in ogni caso una grande colpa d’omissione. Urge un gigantesco sforzo delle nostre società; uno sforzo che non dovrà ridursi a sussidi ed elemosine, ma dovrà investire in progetti di sviluppo solidi e a lungo termine.

Lo sforzo sociale e politico non esonera ognuno di noi da un impegno personale, diretto, concreto. Abbiamo gravi obblighi umani e morali. In quei luoghi manca tutto: cibo, acqua, strutture sanitarie. Ogni servizio pubblico è assente, medici e insegnanti sono pagati - quando è possibile - con collette tra i villaggi; per andare a scuola, i ragazzi fanno ogni giorno decine di chilometri a piedi. Per chi ha visto tali situazioni, risulta ancor più doloroso il confronto con gli sprechi della nostra quotidianità. Esemplare è stato il commento di un seminarista congolese, giunto a studiare in Italia, di fronte alla pubblicità del cibo per cani: “anche i vostri cani mangiano meglio di noi”.

Naturalmente dobbiamo distinguere il caso dei "Paesi poveri" in senso stretto da quello dei cosiddetti "Paesi in via di sviluppo", nei quali è assicurato un certo livello di sussistenza, di cure sanitarie, di istruzione. Sarebbe una forzatura, in questi casi, imputare all'Occidente di non garantire a questi Paesi lo stesso livello di sviluppo di cui godiamo noi. Gli aiuti umanitari ai più poveri possono essere trasferiti, con un relativo sforzo; però la crescita culturale e sociale necessaria a garantire un benessere diffuso deve essere interna ad ogni Paese. Possiamo (e dobbiamo) collaborare in questa direzione, ricordandoci però che i vantaggi del nostro sistema si accompagnano anche a svantaggi che altri popoli, gelosi della propria cultura, potrebbero non voler importare.

Concludendo: la vera rivoluzione da fare è quella dei cuori. Ognuno può  contribuire ai tanti progetti di cooperazione allo sviluppo, alle iniziative delle Missioni. Ognuno può vivere nel proprio quotidiano la pratica della solidarietà e della pace.



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