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Notizie - Nel Mondo
La Cina è un regime oppressivo e pericoloso per l’Occidente Stampa E-mail
Le violazioni dei diritti umani nella più grande dittatura al mondo
      Scritto da Giovanni Martino
30/06/08

Il caso Tibet non è che la punta di un gigantesco iceberg: la violazione grave e continua dei più elementari diritti umani del popolo cinese.
Dobbiamo prendere coscienza della gravità di queste violazioni. E dobbiamo anche riflettere su due ulteriori elementi:

1) non sono “problemi lontani” (per quanto la nostra sensibilità morale dovrebbe ugualmente indurci a farcene carico): la Cina è una dittatura aggressiva anche verso l’esterno, e pericolosa per tutti noi;

2) non siamo impotenti: gli interessi economici che spingono per non irrigidire i rapporti con la Cina sono interessi di singoli settori economici; la Cina ha da perdere molto più di noi da un inasprimento dei rapporti, per cui le pressioni possono fare effetto.

Le violazioni dei diritti umani, dunque.

Del “genocidio culturale” subito dal popolo tibetano abbiamo parlato in un altro articolo. Ma dobbiamo aggiungere che anche le altre minoranze etniche e linguistiche, oltre a quella tibetana, subiscono persecuzioni simili.

E non solo le minoranze: in Cina un miliardo e mezzo di persone sono private dei diritti politici, della libertà di espressione, della libertà religiosa (soprattutto i cattolici fedeli al Papa e i seguaci del movimento Falun Gong)...
In Cina finisce in galera – e può anche subire la tortura - chi naviga in siti internet non autorizzati, chi critica la corruzione dilagante, chi non accetta di essere deportato in pochi giorni dal proprio quartiere solo perché bisogna "ripulire" le città in vista delle Olimpiadi. Il capo della Suprema Procura Popolare ha parlato, per il solo 2005, di 811.102 arresti per “minacce alla sicurezza nazionale” (reati politici).
Permangono i campi di "rieducazione" e di lavoro forzato (i laogai) per i dissidenti: al settembre 2006 erano almeno 1045, e gli internati erano almeno 6 milioni (ovviamente calcoli più precisi non sono possibili per il riserbo cinese sul tema). Si tratta peraltro di una gigantesca massa di forza lavoro che alimenta le produzioni cinesi a bassissimo costo.
Esistono anche ricoveri forzati e cure psichiatriche coatte per gli oppositori, per i quali sono state create nuove patologie: “politicomania”, “sindrome oppositoria”, “mania di grandezza” !
La politica del "figlio unico" viene condotta incoraggiando e spesso imponendo l'aborto, infliggendo punizioni collettive ai villaggi dove si verificano troppe gravidanze, privando dei diritti sociali i genitori "colpevoli" di aver dato alla luce più figli. Ciò induce molti genitori, peraltro, all'infanticidio precoce delle bambine (si preferisce il maschio), o all'aborto selettivo delle stesse a seguito di diagnosi preimpianto (nelle realtà urbanizzate dove questi esami sono accessibili); creando un pesante squilibrio demografico: i giovani cinesi maschi non hanno un pari numero di ragazze con cui fidanzarsi e sposarsi (il rapporto medio è di 120 a 100, in alcune regioni 140 a 100), e sono afflitti da gravi disagi psicologici. Il 'rimedio' parziale è che ogni anno vengono deportate clandestinamente in Cina almeno 650mila giovani vietnamite, nordcoreane, birmane...
La pena di morte è usata massicciamente: oltre 5.000 esecuzioni l'anno (qualcuno parla di 10.000: i dati precisi sono segreto di Stato) per i casi ritenuti più gravi in reati come il gioco d'azzardo, la frode fiscale, la falsa fatturazione, la "diffusione della superstizione", la già ricordata "minaccia alla sicurezza nazionale"...
Dai cadaveri (e anche dal corpo di torturati non ancora deceduti?) vengono espiantati e rivenduti gli organi, senza il consenso dei familiari (lo ha ammesso anche Huang Jefu, viceministro della Salute pubblica, durante un convegno con chirurghi svoltosi nel novembre 2006 a Guangzhou).

Non sono stati rispettati gli impegni assunti, in tema di diritti umani, nel 2001, allorché fu accettato l’ingresso della Cina nel WTO (l’organizzazione del commercio mondiale) e decisa l’assegnazione delle Olimpiadi del 2008 a Pechino.

Delle nuove libertà economiche, peraltro, beneficiano in pochi (si calcola il 12-15% della popolazione): la gran parte dei cinesi sono lavoratori privi di ogni tutela (10-12 ore di lavoro al giorno, in molte fabbriche divieto di parola durante l’orario di lavoro, pene corporali, paghe ridicole e spesso in notevole ritardo - solo il 6% degli operai edili è pagato puntualmente -, niente liquidazione e pensione irrisoria per chi viene licenziato, divieto di sposarsi e aver figli per molti lavoratori, assenza di coperture sanitarie e di misure di sicurezza – solo tra i minatori si calcolano 10.000 morti l’anno -, diffusione del lavoro minorile, ecc.). È lo stesso Ministero della Pubblica Sicurezza cinese ad ammettere che nel 2003 si sono verificate 58.000 rivolte popolari, 74.000 nel 2004, 87.000 nel 2005 (nel 2006 è diminuito il numero, perché è aumentata la violenza della repressione, anche con spari sulle folle): rivolte contro le condizioni di lavoro descritte, contro il gigantesco inquinamento ambientale (che provoca 400.000 morti l'anno per malattie respiratorie e porta alla fame i contadini per la rovina dei campi), contro esproprî e deportazioni forzate, contro la corruzione dilagante.
A proposito di corruzione: si calcola che nel 2004 il volume di affari legato a fenomeni di corruzione fosse del 4% del PIL. Nel 2006, su 33.000 casi denunciati, i funzionarî arrestati (membri del Partito Comunista) sono stati solo 1.600; e di questi solo il 20% ha subito una condanna.

La mancanza di democrazia e di rispetto dei diritti umani non è solo un problema interno alla Cina (ammesso che si possa essere indifferenti a problemi “interni” tanto gravi ed estesi). La Cina ha ambizioni espansionistiche. Conduce da anni una corsa al riarmo, anche atomico. Sostiene regimi tirannici ad essa vicini (Birmania, Corea del Nord, ...) o che le possano procurare materie prime (Iran, Sudan, Zimbabwe, ...), fornendo armi e utilizzando con spregiudicatezza l’arma del potere di veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Tant’è che l’Alto Commissario ONU per i diritti umani, Louise Arbour, ha dovuto annunciare il suo ritiro per protesta contro quell’alleanza di Paesi che volevano imbavagliarlo (Cina, Russia, Organizzazione della Conferenza islamica e numerosi Paesi africani).

Inoltre, la produzione cinese – per com’è adesso – nuoce alla piccola e media impresa occidentale.
È vero che, in linea di principio, la sempre maggiore apertura dei mercati provoca benefici a tutti gli operatori e fa crescere la ricchezza complessiva (per cui non dovrebbero essere previsti dazî et similia). Ma ciò vale se vengono rispettate le regole della concorrenza. Attualmente, però, la competitività dei prodotti cinesi è “drogata” dal basso costo di una mano d’opera costretta, come visto, a condizioni di lavoro disumane; c’è il pericolo del dumping, cioè della conquista di quote di mercato (a discapito delle produzioni nostrane) con prodotti sottocosto, per poter sfruttare successivamente le posizioni raggiunte aumentando i prezzi.
È vero anche che il nostro futuro non può essere nella competizione in produzioni di bassa qualità con alta intensità di manodopera, bensì in produzioni ad alto tasso di qualità o innovazione; e che dietro le lamentele contro la concorrenza cinese si nasconde a volte la difficoltà di alcune imprese poco competitive e abituate al sostegno statale. Attualmente, però, non c’è reciprocità nelle esportazioni verso la Cina, fortemente ostacolate.

La produzione cinese nuoce anche ai consumatori occidentali, perché si tratta di prodotti che non rispettano gli standard minimi di qualità e sicurezza, e sono spesso contraffatti (persino i medicinali!).

Come si giustifica, allora, l’indifferenza dei Paesi occidentali rispetto all’aggressività cinese?

Ci sono ovviamente considerazioni di realpolitik nei riguardi del Paese più popolato al mondo e con enorme arsenale atomico. Ma queste considerazioni valgono fino ad un certo punto: non si tratta di muover guerra al gigante asiatico, ma di porre paletti ben precisi (economici, politici): la Cina stessa, saprebbe di non avere interesse a superarli.

C’è poi un’indifferenza mascherata con un cinismo ideologico e ottuso, che sostiene: “in un Paese di un miliardo e mezzo di abitanti bisogna pensare a sfamare le persone, prima ancora che ai buoni sentimenti e ai diritti umani”. Parliamo di cinismo, perché i diritti umani non sono un ‘accessorio’ della vita; di ideologia, retaggio in alcuni dell'antica simpatia per una forma di comunismo "alternativo"; e di ottusità, perché si continua a non imparare la lezione della storia, cioè che lo sviluppo sociale ed economico può e deve sposarsi con quello politico e civile. Le due forme di sviluppo non sono “automatiche”, richiedono un’intelligente azione di sostegno politico; ma sacrificarne una provoca conseguenze devastanti.
La vicina e quasi altrettanto popolosa India è l’esempio lampante che il faticoso cammino verso la democrazia è possibile anche per le grandi nazioni-continente.
Alcuni osservatori eccepiscono che molti cinesi sono orgogliosi del loro Paese. Questi "osservatori", alquanto distratti, dovrebbero sapere che ogni regime totalitario riesce ad organizzare una base di consenso, privando i suoi cittadini di termini di paragone. Ma la democrazia non si misura da questo; le persecuzioni (della maggioranza della popolazione, peraltro) non sono "compensate" dal consenso delle burocrazie che beneficiano di un sistema. Anche qui: ottusità o malafede ideologica?

Più spesso l’indifferenza è la copertura di uno spregiudicato calcolo economico di pochi centri di potere industriale e finanziario.

Abbiamo visto, infatti, che alla grande maggioranza dei produttori e consumatori europei l’apertura alla Cina non sta procurando vantaggi. Chi ne beneficia, allora?

L’importazione di prodotti a bassissimo costo consente discreti margini ad importatori e grossisti. Inoltre, il gigantesco mercato cinese fa gola ad alcune grandi industrie che vi vorrebbero esportare i proprî prodotti (anche se la Cina fa ancora grandi resistenze: l’Italia importa beni per 22 miliardi di euro e ne esporta per 6!), o che vorrebbero installarvi produzioni a basso costo. Le pressioni di queste industrie inducono i governi ad una “prudenza” che si traduce in un vergognoso silenzio. Addirittura, abbiamo assistito al caso di multinazionali come Microsoft, Google, Yahoo e Cisco che hanno accettato di collaborare alla creazione di versioni modificate dei motori di ricerca accessibili in Cina, per consentire al Governo la censura, nonché l’identificazione di quanti cerchino di aggirarla (Yahoo nel 2005 aveva fornito direttamente al Governo cinese gli elementi utili ad identificare due dissidenti).

Concludendo: spingere la Cina al rispetto dei diritti umani, oltre che dovere morale, è interesse generale dell’Occidente, anche se non di qualche singolo operatore economico. Ed è anche concretamente possibile.
In che modo?

Forme di "boicottaggio" spontaneo di merci cinesi (prima di acquistare un bene a bassissimo costo, la coscienza personale dovrebbe interrogarci sulle modalità con cui è prodotto) o degli sponsor olimpici sono moralmente auspicabili; ma probabilmente non darebbero grandi risultati concreti.

Più efficace sarebbe la mobilitazione dell'opinione pubblica perché i nostri Governi intraprendano azioni di dissuasione economica e politica verso la Cina.

Intendiamoci: un braccio di ferro economico che danneggi una nostra grande industria o una multinazionale avrebbe conseguenze spiacevoli per i lavoratori di quell’industria e, in parte, per il settore produttivo ad essa collegato. Non è un rischio da sottovalutare. Ma se teniamo in conto gli interessi complessivi del sistema economico e di quello politico, capiamo che è un prezzo che dobbiamo essere pronti a pagare. Del resto, la Cina non dovrebbe essere insensibile alle nostre pressioni: è il Paese che ha goduto più di tutti dei benefici della globalizzazione, e avrebbe da perdere molto più di noi da un raffreddamento degli scambi commerciali.
Non si tratta di chiudere le frontiere o rinunciare alle opportunità di sviluppo. Si tratta, piuttosto, di legare lo sviluppo ulteriore degli scambi a garanzie precise sulla correttezza commerciale e su un maggiore rispetto dei diritti umani.

Nessuno dovrebbe ritenere anomala l'applicazione di sanzioni economiche: è già successo, negli ultimi decenni, col Sud Africa, col Cile, con l'Iraq (certo, non erano Paesi comunisti...). Sanzioni alla Cina, che ha fatto dell'ingresso nel mercato globalizzato la molla del suo sviluppo, sarebbero ancora più efficaci.

Inoltre, dovrebbe diventare obbligatoria in tutti i Paesi (attualmente lo è solo in Germania e, in parte, negli USA) l'etichetta etica sui prodotti importati, che attesti l'assenza di sfruttamento del lavoro minorile o dello schiavismo.

La mobilitazione dell'opinione pubblica dovrebbe essere indirizzata anche alle multinazionali che collaborano col regime cinese. Questo tipo di pressioni, ad esempio, hanno incontrato la sensibilità degli azionisti di Yahoo!

Quanto alle pressioni politiche e diplomatiche, bisogna prendere in considerazione anche iniziative di protesta legate ad eventi pubblici come i Giochi Olimpici, visto che il regime cinese tiene tanto alla sua “immagine”...


Riferimenti bibliografici:

Bernardo Cervellera
Missione Cina. Viaggio nell'Impero, tra mercato e repressione.
ed. Ancora, Milano 2006


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