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Racconti
Lame(nti) Stampa E-mail
      Scritto da Daniele Comberiati

Prefazione

Questo racconto, scritto nel giugno 2000, è stato concepito in una serie di cinque storie che avrebbero dovuto dare un’immagine trasfigurata e irreale di Roma. Il titolo della breve raccolta era Alcuni racconti urbani. Roma, e qualcos’altro e l’aggettivo urbano racchiudeva per me le contraddizioni di Roma, sempre in bilico fra un passato da città dominatrice e un futuro da metropoli che, mi sembrava, poco le si addiceva. Tutti questi racconti mettevano in evidenza le rovine e le macerie della città antica, simbolo di un presente da ricostruire. Nei primi tre racconti Roma non era mai nominata direttamente, ma diventava una sorta di città ideale-irreale, come nei racconti di Borges e Calvino ai quali mi ero ispirato. Nel terzo, Cercavo una donna, nella città morta, la città, praticamente, non esisteva più: un uomo cercava una donna in luoghi dove la guerra era appena passata e dove le macerie antiche e moderne si assomigliavano fino a confondersi. 

Il primo e l’ultimo racconto avevano alcuni punti in comune: entrambi parlavano di città lontanissime nello spazio e forse anche nel tempo; in tutte queste città, però, rimaneva qualcosa di Roma: un tempo all’apparenza immobile e ciclico, un passato impossibile da dimenticare e a volte invadente, il senso incombente dell’attesa.

Vedevo Roma come una città impaurita dai cambiamenti: le rovine romane erano la sua bellezza e il suo declino, la sua unicità e (forse) il suo limite.

Fra questi cinque racconti ho scelto Lame(nti) per due motivi semplici: innanzitutto è l’unico in cui Roma è nominata direttamente, poiché tutta l’azione è ambientata nell’Isola Tiberina, antica prigione al tempo dei romani. Mi interessava l’idea di far rivivere un luogo della mia città che nel passato aveva avuto un uso completamente diverso. È questo il lato positivo di vivere in una città con una storia del genere: i luoghi sono serbatoi di racconti, ogni pietra è un ricordo e una voce. Una normale passeggiata diventa una considerazione sul passato, sul tempo, sul senso della storia.

Questo infatti è il secondo motivo per cui ho scelto Lame(nti): mi interessava una riflessione sulla storia, su chi la fa e su chi ne è semplicemente una comparsa. Nel racconto ho cercato di non esprimere giudizi definitivi: i Romani e i loro schiavi sono persone identiche, a cui il caso ha affidato ruoli diversi (“..e tutti siamo Dei, uomini e bestie”, dice il protagonista nel finale). Il punto di vista che ho scelto, però, è quello dello schiavo: mi serviva perché un uomo sull’orlo della disperazione, menomato fisicamente e ormai rassegnato a morire, poteva paradossalmente avere una visione più lucida della situazione che stava vivendo. Senza nessun ideale, infatti, l’unica cosa rimasta era l’analisi della realtà circostante, sia quella meramente fisica (la terra, le piante intorno a lui, i piccoli animali), sia quella più propriamente politica.

Solo nel finale l’uomo ha un sussulto di paura. Il suo grido arriva però troppo tardi.

 

LAME(NTI)

Mattino, mattina.

Termine temporale vago, generico. Dal colore delle foglie deduco il cammino del sole, dalla luce l’arrivo del buio. Odo e distinguo rumori, grida, fruscii; è poco che sono qui, ma il mio udito si è notevolmente raffinato ed ora l'intera isola è nelle mie orecchie.

La vista invece è notevolmente limitata. Piante, foglie, steli, tronchi, terra, brandelli di cielo (talvolta) e poi? Alzando il collo a tendendo i nervi, appoggiando il peso sulle braccia per non sforzare la gamba, riesco a scorgere l'inizio, la prua. O la fine, se si guarda l'isola dalla poppa.

Non ne ho mai capito il motivo: la prigione è a forma di nave.

Mattino inoltrato, mezzogiorno.

Mangio foglie, radici e qualche verme. Più o meno il cibo degli uccelli, il cui fruscio non odo (troppo alto), la cui ombra non scorgo (troppo lontana). Fuggirò, volerò anch'io come loro? Intanto, a forza di mangiare vermi, ho imparato a strisciare silenzioso ed a portarmi dietro la mia parte morta, suppongo, eppur dolorosissima e bruciante che a volte, più spesso, oltre che un corpo è un pensiero, oltre ad un pensiero un'idea, ed oltre ad un'idea, un grande, intensissimo dolore.

La gamba. La gamba. La gamba. Potrei non pensarci, è vero, ma il dolore non diminuirebbe affatto. La gamba. La gamba. L'hanno ferita mentre scappavo, le guardie dell'imperatore. La gamba. Vorrei che fosse davvero morta, per non sentirla più.

Primo pomeriggio, caldo.

L'odore è la terra, sempre, nelle sue variazioni. Terra bagnata, terra asciutta, terra umida, terra secca, terra feconda. È tutto qui il mio olfatto, a ciò si è ridotto un senso. Mi sento un po' indovino, un po' medico, poiché capisco quando è fradicia di vita, comprendo quando germoglierà. È questa, per ora, la mia gioia più grande.

Ora riesco a sentire tutto quello che mi accade intorno.

Odo i romani, le loro armature pesanti, i loro metalli che si scontrano tintinnando, la spada che sbatte per terra, il carico delle calzature e dei corpi.

Mio padre direbbe che sono stupidi a cercare un evaso con tutte quelle cose addosso, che limitano l'agilità. Mio padre, i Romani l'hanno ucciso. Ma lui, forse, era ancora più stupido di loro.

Percepisco l'avvicinamento, percepisco il termine della mia resistenza e comprendo l'ineluttabilità della mia situazione. Vorrei mangiare un topo, un rettile, qualche serpente che di certo sarebbero più sostanziosi di vermi e foglie, ma gechi e ramarri sono troppo veloci, e gli uccelli mai si posano nelle vicinanze.

Quando si poseranno, saranno corvi, ed a me non importerà più nulla

Pomeriggio inoltrato, quasi sera.

Vomito un lombrico troppo lungo, che mi si strozza in gola.

Il concetto di onore è vitale per i Romani. Altrimenti non sarebbero diventati tale popolo di guerrieri, altrimenti Scipione non avrebbe insistito tanto per radere al suolo una città già vinta, altrimenti non avrebbero intensificato le ricerche per un solo prigioniero evaso, un piccolo prigioniero, per di più, e pure con una gamba rotta.

Non mi salverà la notte e non mi salverà il sole, poiché il carro passerà di qui anche domani, e la mia fine mai sarebbe elusa, ma fatta attendere, rimandata.

Morirò da eroe, mi dico, sarò una leggenda. Poi ricordo le letture del feroce liberto di cui ero schiavo e la verità neanche mi fa piangere, ma sono solo brividi, paure. L'eroe non fugge, l'eroe non si nasconde, e le leggende sono loro, dei Romani, e mai nostre, mai mie.

La leggenda dell'isola è la prigione, non i prigionieri; è la nave, non il carico che porta; sono gli uomini, non gli schiavi.

Gli Dei? Ma anch'essi sono come gli umani, ed anch'essi hanno schiavi e carceri e prigioni. Le guardie dell'imperatore molto li avranno pregati dopo la mia fuga ed è giusto che esaudiscano le loro, di preghiere, piuttosto che i miei bisogni tutti umani, blasfemi.

Morirò. Aspetterò.

Notte chiara, appena iniziata.

Già conosco le frasi, le voci e le parole delle donne che vedranno il mio corpo immobile: << …avrà undici anni, è poco più di un bambino, ma che pelle ancora liscia… >>

Ma nessuna di loro inorridirà, poiché l'onore è sacro per i Romani, e molto onorevole è punire un prigioniero, un evaso, un duplice colpevole.

Ho peccato davvero, avevo colpe? Le ho dimenticate, ma in fondo io sono innocente, come sono innocenti le guardie che mi danno la caccia.

E tutti siamo dei, uomini e bestie.

Poi mi sento percuotere, colpire, battere.

- No, non così, vi prego! - penso gridando.

Ed espio la mia colpa: non morirò da eroe, non morirò con dignità. Purtroppo, sono solo schiavo.



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