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Cultura - Scienze e natura
Il «papą» di Dolly dice addio alla clonazione Stampa E-mail
«Pił promettenti le ricerche su staminali adulte»
      Scritto da Elisabetta Del Soldato
18/11/07

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Ian Wilmut, lo scienziato britannico famoso per aver fatto nascere la pecora Dolly, ha deciso di abbandonare la ricerca nel campo della clonazione per occuparsi di una nuova tecnica di impiego delle cellule staminali che consente di creare cellule-madri senza ricorrere agli embrioni. Lo ha scritto ieri il quotidiano inglese The Daily Telegraph, precisando che lo scienziato è interessato alla ricerca per la cura di malattie come il morbo di Parkinson. «Ho deciso qualche settimana fa di non andare avanti con il trasferimento nucleare (il metodo della clonazione)», ha dichiarato Wilmut, che insegna all’Università di Edimburgo, in Scozia. Lo scienziato è certo che la tecnica messa a punto in Giappone dall’équipe del professor Shinya Yamanaka offre migliori possibilità di sviluppare cellule dallo stesso paziente per curare una serie di malattie. A differenza delle attuali ricerche sulle cellule staminali, questa nuova tecnica non prevede il ricorso a embrioni umani ed è dunque, ha sottolineato Wilmut, «più accettabile socialmente ed eticamente».

La decisione di Wilmut di voltare le spalle alla cosiddetta «clonazione terapeutica», è giunta pochi giorni dopo l’annuncio, sulla rivista Nature, di un gruppo di ricercatori guidati dal professor Shoukhrat Mitalipov dell’Università di Beaverton in Oregon (Stati Uniti), sui progressi ottenuti nella clonazione dei primati, ed è ora de- stinata a far discutere l’establishment scientifico. Wilmut diventò famoso nel 1997 quando lui e la sua équipe presentarono al mondo la pecora Dolly, nata l’anno precedente. Non è ancora chiaro se Wilmut sia stato spinto a prendere la decisione di abbandonare la clonazione terapeutica, di cui è pioniere, per ragioni puramente pratiche, come lui stesso ha dichiarato, o anche etiche e morali come quelle sottolineate dalle associazioni per la vita che da anni in Gran Bretagna si battono contro la clonazione e l’uso di embrioni umani nella ricerca. Al momento l’unica certezza è che Wilmut non userà la licenza per la clonazione di embrioni umani, ottenuta due anni fa dalla «Human Fertilisation and Embryology Authority», l’organo che regola in Gran Bretagna il campo della fecondazione artificiale ed embriologia, al fine di trovare nuove terapie per malattie finora incurabili come la sclerosi laterale amiotrofica. Una decisione che potrebbe ora segnare la fine della clonazione terapeutica, per la quale negli ultimi dieci anni sono stati spesi milioni di sterline, e l’inizio di una nuova era per la creazione di cellule staminali e la cura di malattie gravi. «Il metodo giapponese portato avanti dal professore Shinya Yamanaka – ha spiegato Wilmut al “Telegraph” – suggerisce una tecnica per creare cellule staminali embrionali senza il bisogno dell’utilizzo di ovociti umani, che come sappiamo bene sono estremamente scarsi». Usando il sistema giapponese, ha continuato, «si eviterebbe dunque la creazione e la conseguente distruzione di embrioni umani clonati», una procedura osteggiata fortemente da molti gruppi e associazioni, religiose e non, in Gran Bretagna.

Il professore Yamanaka ha dimostrato di poter tramutare le cellule dell’epidermide di topi in cellule staminali capaci di curare malattie e secondo alcuni colleghi britannici avrebbe ottenuto lo stesso risultato usando cellule dell’epidermide umana. Il lavoro di Yamanaka dimostrerebbe dunque che per esempio dopo un infarto le cellule epidermiche di un paziente potrebbero essere riprogrammate in cellule muscolari e usate per la cura della malattia. Lo stesso metodo potrebbe essere usato anche per curare altre malattie, per esempio il morbo di Parkinson producendo cellule cerebrali. «Siamo molto entusiasti di questo passo avanti – ci spiega Josephine Quintavalle di CORE (Comment on Reproductive Ethics) –. Finalmente vince il buonsenso. Questo lavoro potrebbe mettere fine anche a un’altra follia: la proposta di creare embrioni ibridi, composti da cellule in parte umane e in parti animali».


Pubblicato su Avvenire



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