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La bioetica non è un problema della Chiesa, ma una questione decisiva per la democrazia
      Scritto da Ernesto Galli della Loggia
07/10/04
gallidellaloggia.jpg
lo storico Galli Della Loggia

Pubblichiamo l'articolo apparso sul Corriere della Sera del 7-10-2004 a firma del noto storico (non credente).
 Le evidenziazioni in neretto sono nostre)

Si ha l'impressione molto spesso, in Italia, che la vera sostanza del laicismo (cosa ben diversa dallo spirito laico) consista nella superficialità (talora assai rozza) con la quale esso è solito definire e/o interpretare la posizione cattolica. Lo si sta vedendo ancora una volta da qualche tempo a proposito della legge sulla fecondazione assistita e di tutte le questioni relative. Lo schieramento politico culturale laicista è infatti incline ad additare al pubblico disprezzo quanto sostiene la Chiesa e ricorrendo abitualmente ai graziosi epiteti di "o­scu­ran­tista", "medievale", "nemico delle donne", "reazionario". Ne parla come un punto di vista fuori dalla storia ma soprattutto privo della benché minima dignità culturale, intriso di pregiudizio antiscientifico e al servizio del puro e semplice desiderio della Chiesa e del clero di essere gli unici tribunali della coscienza. È difficile immaginare una delegittimazione più radicale. A me pare, invece, che non ci sia bisogno di essere dei cattolici osservanti né di aderire alle posizioni della Chiesa sulla questione specifica (personalmente io non sono la prima cosa e non aderisco alle seconde: in particolare mi lascia molto perplesso l'estensione che il Magistero fa del concetto di "vita", inclusivo dell'embrione, fino a farlo coincidere di fatto con il concetto di "persona", con conseguente estensione dei diritti di questa all'altro), non c'è bisogno di tutto ciò per capire che al fondo degli orientamenti della Chiesa e dei suoi ostracismi si agitano questioni decisive, per il futuro non già della Santa Sede bensì per quello di tutta l'umanità.
Questioni ineludibili che meritano ben altra attenzione di quella, per lo più infastidita e sprezzante, che tanta parte della società italiana, in particolare del ceto dei colti, è solita riservargli. Voglio citarne solo due: quelle che tra tutte a me sembrano della massima importanza.

La prima è riassumibile in alcuni interrogativi: può esserci, è ammissibile o no che ci sia, un limite all'applicazione delle scoperte scientifiche alla realtà sociale? (Attenzione sto parlando non di un limite alla ricerca scientifica, ma di un limite, alla sua, per così dire, traduzione nel corpo sociale, nella vita quotidiana di uomini e donne)? Oppure è giusto - ecco l'altro corno del dilemma - acconsentire a tutto ciò che la scienza rende e renderà domani possibile, consentire che ogni possibilità diventi concreta, sia fatta transitare senza alcun vaglio nella trama dei rapporti umani di cui siamo in certo senso i depositari storici e gli eredi? Ancora: è giusto che domani ci si disfi di un embrione qualunque malattia gli sia diagnosticabile per il futuro? Oppure per alcune malattie ciò sarà ammissibile e per altre no? E come scegliere? In base a quale criterio? In altre parole, e in generale: è lecita o no una discussione pubblica sulla scienza e sui suoi effetti sociali? E si può parlare della scienza a prescindere dal suo proprio punto di vista o di quello di coloro che, per essere addetti ai lavori, pretendono che la propria opinione abbia un valore superiore a quella dei profani? È permesso parlare ad esempio della fecondazione assistita e delle sue conseguenze sulla società umana infischiandosene del parere del celebre ginecologo o di quello della famosa astronoma? I quali, tra l'altro, non si vede quale titolo abbiano a pronunciarsi su cose che non conoscono o conoscono né meglio né peg­gio di chiunque altro? Oppure sulle conseguenze sociali delle sco­per­te scientifiche è lecito che prendano la parola solo gli esperti, e che la decisione in merito spetti esclusivamente alle singole volontà de­gli individui dal momento che ciò corrisponderebbe ad un loro "diritto", che domani potrà estendersi chissà a quali altri desideri?

Ecco alcune delle questioni di qualche peso che la posizione della Chiesa cattolica, con la sua netta ostilità alla manipolazione artificiale della riproduzione umana, contribuisce a porre e a tenere aperte. Questioni che ne sollevano una ulteriore: a che cosa si ridurrebbe mai una sfera politica che nel governo della società, dopo essersi spogliata - come almeno in parte si sta spogliando - di molte decisioni in materia economica, si spogliasse pure di quelle in materia di applicazioni sociali della scienza? La seconda questione che la posizione cattolica contribuisce più o meno direttamente a sollevare e ad agitare riguarda anch'essa chiunque di noi, dal momento che riguarda né più né meno che la natura degli umani. In realtà, infatti, le accanite discussioni sull'inizio della vita, sul concepimento, sull'embrione e via dicendo, non riguardano tanto il mondo intrauterino quanto il mondo dei già nati, dei già vivi ad ogni effetto, il mondo nostro, la sua organizzazione e i suoi princìpi.

Dalla notte dei tempi fino ad oggi infatti quella che chiamerei l'apparente casualità genetica è stato un elemento costitutivo della persona. Nessuno è in grado di conoscere le qualità e il destino di un essere umano che vede la luce: in esso si può nascondere un genio o un imbecille; così come di conseguenza nessuno è in grado di conoscere le sue potenzialità evolutive, sia fisiche che intellettuali. Ebbene, l'esistenza di questo vero e proprio velo di ignoranza intorno al progetto biologico nonché intorno alle capacità e al carattere del singolo individuo, è decisivo, nel legittimare la rivendicazione di una piena eguaglianza tra tutti gli esseri umani e la loro necessaria libertà.

Se quel velo d'ignoranza viene meno, infatti, se un'appropriata diagnosi genetica fosse in grado domani di farci conoscere qual è il destino biologico di questo o di quello, quali la sua speranza di vita, le sue possibilità di ammalarsi, quali, anche, la sua capacità di apprendere, di applicarsi al lavoro, e così via ipotizzando (ma la ricerca autorizza ormai quasi ogni genere d'ipotesi), ognuno capisce che diverrebbe in pratica difficilissimo mantener saldo quell'orientamento ideologico, oggi di gran lunga prevalente nella nostra società, che non solo reputa imprescindibile l'uguaglianza dei diritti, ma non rinuncia neppure ad augurarsi anche l'eguaglianza delle chances, dei punti di partenza. C'è bisogno di aggiungere che l'orientamento ideologico in questione si chiama democrazia? Ancora domande dunque, e sempre sullo stesso punto decisivo: il limite. C'è un limite? E dove lo si fissa? E chi lo fissa? E in base a quale criterio? Oppure, viceversa, è tutto mobile, si cambia di continuo tutto a seconda dell'avanzamento della ricerca scientifica, o magari in base al semplice desiderio di ognuno di noi, per l'occasione ribattezzato con il sacro nome di diritto?

 



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