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Eutanasia
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13 domande per saperne di pił
      Scritto da Movimento per la vita
02/05/01

iniezione_eutanasia.jpgda www.mpv.org

1. Che cosa vuol dire "eutanasia"?
La parola viene dal greco e significa "buona morte". In realtà, al di fuori della prospettiva cristiana (nella quale la morte può anche essere chiamata "dies natalis", giorno della nascita (cioè del doloroso parto che fa passare dal limitato mondo della realtà fisica allo straordinario mondo dove si vede il volto di Dio e si è accolti dall'abbraccio del Padre), la morte non è mai "buona". Anzi è il segno più drammatico e doloroso della condizione umana. Perciò nella prospettiva libertaria e radicaleggiante di quanti domandano la legalizzazione dell'eutanasia la parola fa parte del vocabolario dell'antilingua. Essa vorrebbe gabellare per cosa buona l'omicidio, così come la sigla Ivg vuol far dimenticare lo smembramento di un bambino e l'espressione "clonazione terapeutica" vuol far credere che sia un procedimento terapeutico l'uccisione di molti embrioni generati in provetta.
Bisogna poi considerare che la parola eutanasia è stata storicamente usata per indicare anche l'uccisione dei bambini deformi, dei malati mentali, degli anziani come tali. In senso più ristretto, che è poi quello a cui fanno riferimento le leggi e le proposte di leggi permissive, per eutanasia può intendersi "l'uccisione indolore, direttamente voluta e medicalmente attuata, di malati ritenuti destinati a una vita irrecuperabilmente inutile e sofferente".

2. Alcuni dicono d'essere contrari all'eutanasia attiva ma non a quella passiva. Voi che dite?
In questa distinzione si nasconde ancora l'inganno delle parole. La madre che uccide un neonato soffocandolo commette un reato, allo stesso modo della madre che lo lascia senza cibo e senza calore per farlo morire.

Il codice penale all'articolo 41 stabilisce che "non impedire un evento che si ha l'obbligo di impedire equivale a cagionarlo".

Perciò il medico il quale, di fronte ad un ferito che sta per morire dissanguato, non fa una trasfusione di sangue, per farlo morire, risponde di omicidio come se lo avesse avvelenato facendogli una iniezione letale.

Insomma la distinzione tra eutanasia attiva e eutanasia passiva deve essere respinta.

3. Ma allora perché si parla di "accanimento terapeutico" e di "staccare la spina" ? Che si intende dire?
Il vero problema non è quello di una distinzione tra eutanasia attiva e passiva – come già detto – ma quello di stabilire fino a che punto il medico deve continuare le cure. Facciamo l'esempio di un malato con un tumore così diffuso da rendere estremamente improbabile l'esito positivo di un intervento chirurgico. Il medico deve intervenire anche in questo caso? Se lo facesse al solo scopo di poter fare la sua relazione ad un congresso, anche se è certo che al 90% il suo paziente morirà sotto i ferri, come lo giudicheremmo? Giova insistere sulla distinzione tra rifiuto dell'accanimento terapeutico ed eutanasia.

Entrambi sono da rifiutare. La scelta di dare la morte e l'accettazione della morte non sono affatto la stessa cosa. Il medico può essere definito il servitore della vita. La sua professione è una continua lotta per mantenere la vita il più possibile nella pienezza, ma comunque vita. Questa lotta univoca, senza compromessi e senza ombre, costituisce la nobiltà della professione medica, e le attribuisce un senso umano estremamente profondo. In definitiva, è la lotta di ogni singolo essere umano dall'inizio della storia.

Ma è una lotta inevitabilmente destinata al fallimento finale. Per ogni uomo, e dunque anche per il medico che lo cura, viene il momento della resa, in cui bisogna alzare le mani e abbandonare le armi di fronte al nemico. "Quando si fa chiaro che la prosecuzione della lotta contro la morte non ha più alcuna prospettiva seria di successo, la lotta deve cedere il posto all'accettazione, e tutti gli sforzi vanno rivolti ad assicurare al malato le necessarie condizioni di tranquillità e la possibilità di valersi di ogni forma di sostegno e di conforto, da quello della vicinanza dei familiari e amici, a quello di un'assistenza religiosa delicata e attenta" (Ciccone).

Contro questa umana e ragionevole resa di fronte alla morte, sta l'accanimento terapeutico. Intendiamoci: l'impegno appassionato e inesausto per la salute e per la vita, che non trascura la benché minima possibilità di cura e di allontanamento della morte è altamente meritorio. Ad esso si debbono enormi, e un tempo impensabili, progressi della scienza medica. Semmai è da lamentare che non sempre, non per tutti, non in ogni paese, non in ogni ospedale, non in ogni medico, si riscontri un siffatto impegno. Tuttavia, in senso tecnico, non appare possibile, o perlomeno non appare doveroso (a meno che il paziente personalmente e coscientemente lo richieda) un accanimento terapeutico inteso come l'impiego di interventi sproporzionati, cioè, per esempio, fortemente invasivi e spesso umilianti, "volti esclusivamente a procrastinare per brevissimo tempo la morte imminente, con ciò prolungando congiuntamente situazioni fisiche di inutili agonie, quando non addirittura di intollerabili sofferenze" (Barni).

Quanto all'espressione "staccare la spina", che si usa giornalisticamente, va detto che essa si riferisce alla macchina di rianimazione che pompa il sangue o fa funzionare i polmoni. È evidente che non ha senso tenerla accesa quando è già sopravvenuta la morte (perché il cervello è distrutto), ma sarebbe colpevole "staccare la spina" quando vi è ancora una pur minima speranza di ripresa di vita autonoma.

4. Come fare a decidere quando bisogna insistere nella cura senza cadere nell'accanimento terapeutico e quando bisogna arrendersi alla morte incombente senza cadere nell'eutanasia?
I moralisti distinguono tra mezzi ordinari e straordinari, o forse più precisamente, tra mezzi proporzionati e mezzi sproporzionati: doverosi i primi, non obbligatori i secondi. In pratica, è difficile un giudizio di proporzionalità, ma proprio per questo è impossibile definire per legge in modo tassativo quando cessa il dovere di cura e quando, pertanto, la cessazione della terapia non è fonte di responsabilità. L'esperienza e la coscienza del medico possono fare nel concreto la giusta valutazione. Certamente può soccorrere la distinzione tra mezzi ordinari e mezzi straordinari. Ad esempio dare l'alimentazione e fornire l'ossigenazione ai polmoni, operazioni semplici, che corrispondono alle più elementari funzioni del vivere (il mangiare ed il respirare) non costituiscono mezzi straordinari né ulteriormente debilitanti e pertanto non sembra che sia mai lecito sospenderle. Quel che importa è il principio. Il rifiuto dell'accanimento terapeutico appare tanto più giustificato se proviamo ad immaginare che un medico sadico, in odio al suo paziente, usi ogni risorsa della scienza per farlo soffrire il più possibile e, a questo solo scopo, riesca a prolungare l'agonia del malato. Non v'è dubbio che tale comportamento sarebbe condannabile, sebbene si ottenga un certo il prolungamento della vita. Ciò dimostra che vi possono essere casi in cui l'impegno medico non ha significato terapeutico, e che il prolungamento della vita, quando ormai è certamente giunta al confine con la morte, non può essere perseguito "ad ogni costo".


5. Ma se uno vuole morire, perché proibirglielo? Non si deve rispettare la libertà degli altri?
Per rispondere in modo efficace si può portare qualche esempio. Supponiamo che un giovane, sano di mente e di corpo (che, dunque, si trova nelle condizioni migliori per esercitare la libertà) si butti in un fiume per suicidarsi, e che un'altra persona, gettandosi coraggiosamente in acqua, lo salvi portandolo a riva. Possiamo dire che il salvatore ha violato la libertà altrui? Se così fosse, egli andrebbe punito per il delitto di violenza privata, se non, addirittura, per sequestro di persona; invece, probabilmente, l'amministrazione civica darà una medaglia al salvatore.

Ciò dimostra che non può essere la libertà il valore che giustifica l'eutanasia. Proviamo allora a ragionare più in profondità.

Perché uccidersi, o farsi uccidere, non è un atto di libertà? Perché la libertà non può negare se stessa Anche a questo proposito può servire un altro esempio. Se qualcuno, ridotto alla estrema povertà, decidesse di vendere la sua libertà, cioè di rendersi schiavo di un'altra persona, il contratto sarebbe valido? Certamente no, perché non è conforme alla dignità umana privarsi totalmente della libertà. Ma anche la morte toglie ogni libertà. La vita, infatti, è il necessario presupposto della libertà.

Inoltre è difficile dire che il malato in preda a gravi sofferenze sia libero. Certamente egli è meno libero del giovane sano che si butta nel fiume. Non si è liberi sotto tortura. Anche dal punto di vista giuridico vi sono delle condizioni della libertà. Essa ha bisogno di consapevolezza e di assenza di costrizione. Per questo è prevista l'invalidità degli atti di disposizione giuridica, dal matrimonio a qualsiasi contratto, quando il consenso risulta viziato da errore o violenza. In sede penale, la illiceità di certi fatti, altrimenti criminosi, è eliminata se vi è il consenso dell'avente diritto, ma è necessario che costui possa "validamente disporne". Il consenso non è valido non solo se il diritto è indisponibile, ma anche se è frutto di costrizione. Nel caso del malato in preda a gravi sofferenze è quanto mai dubbio che il suo consenso possa ritenersi libero. La situazione di piena consapevolezza sembra rarissima. Nello stato agonico o preagonico la coscienza è di regola obnubilata, ed è perciò difficile immaginare un malato "pienamente cosciente", a meno che non si voglia estendere molto il concetto di malato terminale, con intuibili pericolosissime conseguenze. Il caso più frequente in cui si pone il problema dell'eutanasia è quello del malato in coma che, per definizione, non è in grado neppure di manifestare alcun desiderio.

Bisogna poi chiedersi che cosa significhi realmente una invocazione della morte. Spesso essa è una protesta contro la solitudine, l'abbandono, la mancanza di attenzione dei familiari. Non solo le cure fisiche, ma anche una costante vicinanza psicologica, una mano tenuta nella mano possono fare abbandonare la domanda di eutanasia.

6. Ammettiamo che un malato, giunto alla fase terminale della malattia, spesso non è libero di decidere. Ma egli avrebbe potuto dichiarare prima, quando era perfettamente cosciente, e magari sano, che la sua libera scelta in caso di grave sofferenza era per lui l'eutanasia. Che cosa pensate del cosiddetto "testamento di vita" o "dichiarazione di volontà anticipata"?
Si può usare un argomento pratico: la libertà implica la possibilità di cambiare scelta quanto alle proprie personali decisioni. Ma la morte esclude inequivocabilmente questa possibilità. Dunque essa è contro la libertà. L'esperienza conferma che molti, dopo essere stati salvati da un suicidio, non lo tentano più, e ringraziano chi ha loro impedito di portarlo a conclusione.

Molti che si uccidono col veleno cambierebbero idea, se qualcuno potesse tirarli fuori dallo stato di incoscienza che precede la morte. Quindi anche ad ammettere la disponibilità del diritto alla vita, è perlomeno dubbio che sia valida una manifestazione di volontà lontana nel tempo, non confermata al momento della scelta suprema.

7. Ma se non esiste un problema di libertà, ammetterete almeno che c'è un problema di pietà per chi soffre...
Il problema non è quello di uccidere, ma quello di eliminare, o almeno di ridurre e rendere sopportabile, la sofferenza. In primo luogo bisogna capire a quale sofferenza ci riferiamo, se a quella del malato, o a quella dei vicini e dei parenti. Un malato grave cambia la vita, le carriere, il lavoro delle persone in vario modo legate a lui. Inoltre, un mondo dominato dall'edonismo non sopporta facilmente la vista della sofferenza e della morte. Preliminarmente perciò, è giusto chiedersi se la morte del malato non possa talora essere vista come una "liberazione" non per il malato, ma per i vicini.

Inoltre, bisogna considerare che chi sente avvicinarsi la morte subisce una sofferenza non solo fisica, ma anche psicologica. Egli avverte la solitudine di trovarsi senza compagnia in un passaggio difficile verso l'ignoto. Perciò allora come non mai vorrebbe sentirsi stringere la mano da una mano amica; vorrebbe sentire le parole affettuose delle persone care; forse il conforto di una promessa religiosa. Invece spesso egli diventa un numero in una stanza di ospedale. Chi, dunque, vuole davvero il suo bene, non dovrebbe lasciarlo solo.

Quanto alla sofferenza fisica, fortunatamente la scienza moderna sembra in grado di lottare sempre più efficacemente contro il dolore, come è stato asserito al Congresso europeo per le cure palliative, tenutosi a Parigi nell'ottobre 1990 e, con un ampio articolo su "Le Monde" del 5 giugno 1991, dal presidente della "Società francese per le cure palliative", Maurice Abiven. Conseguentemente si è sostenuto che "le cure palliative sono in netta contrapposizione con ogni forma di eutanasia attiva: l'eutanasia legale è un modo per sfuggire all'approccio delle cure palliative" (Ventafridda).

8. Che cosa sono le cure palliative?
Sono le cure, non solo fisiche, ma anche psicologiche, che combattono il dolore, anche se non guariscono la malattia. In un parere della Commissione giuridica del Parlamento Europeo adottata nel 1992 si legge: "Molti decisivi progressi sono stati compiuti in questo campo. Ma molto resta ancora da fare, soprattutto per diffondere e generalizzare metodiche già efficacemente sperimentate in taluni centri. Il compito è grande, perché molti ostacoli si frappongono: l'assenza di una politica sanitaria sul dolore, la carenza di educazione del personale sanitario e di coloro che si occupano della sanità pubblica, la paura che l'uso medicinale della morfina e degli altri oppioidi possa contrastare con le leggi sugli stupefacenti, la mancanza di disponibilità di farmaci contro il dolore, talune restrizioni degli ospedali e dei centri sanitari, la scarsa professionalità dei medici nel prescrivere gli analgesici, la mancanza di risorse economiche per la ricerca e lo sviluppo delle cure palliative, l'atteggiamento culturale generalizzato che rifiuta come un tabù la morte e quindi omette gli sforzi per affrontarla ed umanizzarla".


9. Allora non siete contrari all'uso degli analgesici anche se sono narcotici?
Vi è già l'insegnamento tradizionale della Chiesa Cattolica, che fin dal 24 febbraio 1957, con Pio XII (discorso al I Congresso della Società Italiana di Anestesiologia) affermò che per combattere il dolore, se non esistono altri mezzi, è lecito l'uso dei narcotici anche all'avvicinarsi della morte, e anche se si prevede che l'uso dei narcotici abbrevierà la vita del malato.

Oggi, fortunatamente, esistono altri mezzi, e comunque esiste tutta una trattatistica sugli effetti tossici dei farmaci e sul modo di controllarli, tanto che si portano esperienze secondo le quali "il controllo del dolore si risolve in molti casi persino in un allungamento della vita" (Zimmermann). Tuttavia questo tema dell'uso legittimo degli analgesici, ne introduce un altro più generale. Ogni scelta terapeutica, non solo in sala di rianimazione, ma in molti casi implica una valutazione di costi-benefici. Un qualsiasi intervento chirurgico può essere scelto o evitato ponendo sulla bilancia da un lato i risultati positivi prevedibili che se ne possono ricavare, ma dall'altro il loro grado di incertezza, gli effetti collaterali, il sacrificio psicologico e fisico, la debilitazione che l'intervento provocherà.

Poiché il fine della cura non è soltanto la guarigione, ma anche l'eliminazione o la riduzione del dolore, si comprende la differenza sostanziale tra l'uccisione per far cessare la sofferenza, ed il somministrare sostanze analgesiche, anche se da ciò possa derivare il rischio di un abbreviamento della vita. Molti altri interventi comportano questi rischi. Una operazione chirurgica può non riuscire, ed avere così l'unico effetto di indebolire l'organismo. Spesso succede anche che si muore "sotto i ferri", e magari tale possibilità era stata ipotizzata, anche se evidentemente non voluta. Alcuni farmaci possono compromettere certi organi ad avere conseguenze collaterali negative. Si comprende perciò la saggezza dell'insegnamento tradizionale della Chiesa cattolica.

10. Ma come si fa ad iniziare obbligatoriamente una cura ad uno che non la vuole?
Questo è un problema diverso da quello dell'eutanasia. È chiaro che se un malato non si vuole operare di un tumore, non si può legarlo al letto e operarlo per forza.

Diritto alla salute non significa né dovere di curarsi ad ogni costo, né possibilità per i medici di curare ad ogni costo, anche contro la volontà dei pazienti. È principio di civiltà che nessuno possa essere sottoposto coattivamente a trattamenti sanitari non voluti. La "Carta dei diritti del malato" (pubblicata sul New York Times del 9 gennaio 1973), elaborata dalla Associazione americana degli ospedali, dice all'art. 4: "Il paziente ha il diritto di rifiutare il trattamento nell'estensione permessa dalla legge e di essere informato delle conseguenze mediche della sua azione". Questo principio non vale soltanto per le cure destinate al malato terminale, ma per qualsiasi cura, e concerne sia l'inizio del trattamento, sia la sua sospensione: chi riceve il consiglio di effettuare una tonsillectomia può rifiutarsi, allo stesso modo di chi respinge il consiglio di sottoporsi a un trapianto di cuore. Non mancano, per la verità, forme di confine, dove si possono trovare delle eccezioni: si pensi alle vaccinazioni obbligatorie e alle prescrizioni legali in caso di malattie epidemiche (colera e simili). Ma in questi casi è la difesa della salute altrui che impone al singolo l'obbligo giuridico di non rifiutare le cure. In altri casi la discussione avrebbe esiti più incerti: si pensi alla alimentazione forzata per via parenterale di chi per protesta rifiuta il cibo, o alle trasfusioni di sangue per un Testimone di Geova che le considera peccaminose, quando ormai il rischio per la vita è imminente. Qui, però, si potrebbe invocare più lo stato di necessità per giustificare il medico che viola la volontà del paziente piuttosto che affermare un suo dovere di intervenire. Inoltre l'alimentazione e la trasfusione di sangue non sono interventi straordinari o rischiosi, ma semplici e dall'esito sicuro.

11. Per opporsi all'eutanasia ci vuole una legge?
Assolutamente no. La legge italiana già considera illeciti (art.5 Cod. Civile) gli atti di disposizione del proprio corpo che ne diminuiscono permanentemente l'integrità fisica. Figuriamoci se è possibile acconsentire alla propria uccisione! Il Codice penale poi, proibisce sia l'omicidio del consenziente, sia l'istigazione e l'aiuto al suicidio. In questi reati è già ridotta la pena prevista per l'omicidio e può essere ulteriormente ridotta, se si riconoscono alcune attenuanti ipotizzabili: sarebbe, quindi, sbagliato sia chiedere una legge per inasprire le pene, sia per diminuirle.

È giusto chiedere, invece, un impegno maggiore per l'assistenza ai malati, ai morenti e agli anziani. Ma probabilmente per ottenere questo scopo – in sé complesso – non c'è bisogno di una specifica legge, ma piuttosto di un rafforzamento delle risorse finanziarie e delle attenzioni amministrative.

12. Da un punto di vista giuridico quali indicazioni vengono dall'ordinamento internazionale?
L'Italia ha ratificato fin dal 1954 la "convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali" redatta dal Consiglio d'Europa fin dal 1950. Perciò tale convenzione è giuridicamente vincolante per l'Italia. L'art. 2 di tale trattato dice: "Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un Tribunale, nei casi in cui il delitto sia punito dalla legge con tale pena". Il suddetto articolo prosegue indicando i casi "in cui la morte non è considerata inflitta in violazione di questo articolo" ed elenca i casi della "legittima difesa", di "evasione", di "repressione di una sommossa o insurrezione" se l'uso della forza appare assolutamente necessario.

Ora si può considerare che: a) nessuno fino ad ora ha mai messo in dubbio la qualità di "persona" del malato. La ingiusta e impossibile distinzione tra "essere umano" e "persona" che si tenta di introdurre riguardo al bambino non ancora nato, non è stata proposta (finora) riguardo al già nato; b) l'eutanasia consiste senza dubbio – sia nella forma attiva che in quella passiva – in un "dare intenzionalmente la morte"; c) l'uccisione del malato non è una forma di legittima difesa, né il malato è un "evaso", né partecipa a una "sommossa o insurrezione". Perciò non si vede come sia possibile consentire l'eutanasia in uno stato che aderisce alla Convenzione europea sopra citata. Naturalmente è possibile di fatto calpestare il diritto, come è avvenuto in Olanda.

13. Non vi pare che gli argomenti contro l'eutanasia siano solo cristiani? Perché imporre una visione religiosa a chi non è credente?
Dire di no agli atti che uccidono non significa affatto imporre qualcosa a qualcuno. Abbiamo già dimostrato, rispondendo alla domanda n. 5, che l'eutanasia non si può giustificare in nome della libertà (di vivere o di morire). Non abbiamo usato argomenti religiosi, ma di sola ragione. Ora proviamo ad indicare altri argomenti esclusivamente "laici".
Il più importante è quello che nasce dalla riflessione sui "passi successivi", che costituiscono un pericolo minaccioso quando essi non sono qualche cosa di "essenzialmente nuovo", di radicalmente diverso, perché le scelte future appaiono già comprese nel passo precedente. "Se diventasse lecito uccidere per pietà i malati gravissimi, prossimi alla morte, i passi successivi potrebbero diventare, per così dire automatici, proprio perché non sostanzialmente nuovi e diversi: dalla depenalizzazione dell'uccisione dei malati incurabili non terminali, alla depenalizzazione dell'uccisione per pietà dei malati di mente, dei deformi, dei vecchi e via discorrendo" (Stella). È facile l'allargamento della breccia aperta nel principio della intangibilità della vita umana.

Che cosa significa "terminale"? Il tempo è una nozione relativa. Che cosa significa sofferenza? Quella psichica è forse meno importante di quella fisica? Il carico di sofferenza che nasce dalla prospettiva di una lunga e dolorosa malattia è forse inferiore a quello di una agonia di poche ore? Se la prospettiva della morte imminente fa sentire al malato ormai inutile la vita che gli resta, che dire dell'handicappato grave che si sente un peso per la famiglia e la società?

Da più parti si osserva poi che l'introduzione del principio della eutanasia snaturerebbe la professione medica; renderebbe meno determinato l'impegno per le cure palliative; darebbe per certe prognosi che talora possono essere erronee, e che diverrebbero irrimediabili; almeno in qualche caso, metterebbe il medico ed i familiari in condizione di orientare il malato, che da essi è psicologicamente dipendente, a chiedere la fine della vita; introdurrebbe, almeno in certi casi, il sospetto che un clima favorevole all'eutanasia possa essere creato non per far cessare le sofferenze, ma per altre ragioni, magari nobili (come l'esecuzione di un trapianto) o meno nobili, come anticipare una successione ereditaria (si sa bene quanta importanza abbia, nel diritto, la premorienza di una persona rispetto ad un'altra), o liberarsi della tensione psicologica e dalla sofferenza determinate dalla presenza di un morente che si deve accudire. Quest'ultimo non è argomento da poco, anche perché il desiderio di liberarsi di una persona scomoda può essere incosciente, nascosto nelle strutture profonde dell'essere e tuttavia manifestarsi in comportamenti conseguenti.

Anche il rischio di una accelerazione della morte, o addirittura di prognosi infauste affrettate, al fine di poter disporre di organi da trapiantare non è teorico. Il settimanale der Spiegel; nell'agosto 1991, ha fatto gravi rivelazioni sul sistematici abusi che nella Germani dell'Est sarebbero stati compiuti in uno dei più importanti ospedali berlinesi controllato dalla polizia Stasi: al fine di procurare valuta o per soddisfare pazienti eccellenti, non si sarebbe esitato ad uccidere vittime di emorragie cerebrali e di gravi infortuni. Anche se non sappiamo se tali rivelazioni corrispondano a verità, sono purtroppo verosimili.

Ma è certo che la tentazione di affrettare la morte svolgendo pressione sul paziente perché la chieda è un fatto gravissimo. Il malato è psicologicamente nelle mani del medico e dei parenti. Solo affermare che la vita umana è una "frontiera intransitabile" costituisce l'unica, indispensabile garanzia contro l'abuso e la prevaricazione.



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