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Temi caldi - Aborto, pillola Ru 486
Le donne e l'aborto Stampa E-mail
Chi pretende di parlare in nome delle donne spesso le vuole solo strumentalizzare
      Scritto da Emilia Riccardi
08/03/06

mamma_abbraccia_bimbo.jpg“L’aborto è una conquista delle donne, che non si può rimettere in discussione”. La perentorietà di questa affermazione, il rifiuto anche della sola “discussione”, è la spia della povertà di argomentazioni di molti abortisti. I fautori dell'aborto "libero e senza condizioni" sono del resto una minoranza, che però pretende la rappresentanza esclusiva delle variegate posizioni dei cittadini su questo tema. Si vuole spacciare l’aborto per qualcosa di diverso – di più innocuo, di meno problematico – di quello che è in realtà.

Il rifiuto della discussione passa anche per l’uso strumentale che si fa delle donne; si vuole dare per scontato che l’aborto sia un bene per le donne, che sia desiderato da tutte le donne, e che chi osa affrontare l’argomento sia ipso facto un “nemico” delle donne. Un maschilista, insomma; o una donnina ingenua e succube del maschilismo.

Io penso che la donna sia ridotta ad ‘oggetto’ da questi ragionamenti, molto più che dal vecchio maschilismo. Si vuole ingabbiare il pensiero femminile, si vuole imporre come ammissibile un’unica visione degli interessi delle donne, del loro rapporto con la vita.

Ebbene: come donna – oltre che come cittadina – non accetto di farmi rinchiudere negli schemi, non voglio delegare ad altri il diritto a ragionare sui miei interessi. Aggiungo che la discussione sui problemi sociali, secondo me, deve uscire dagli schemi degli scontri tra categorie: donne contro uomini, cittadini contro immigrati, lavoratori dipendenti contro autonomi, ecc. Le scelte giuste sono quelle che tengono in conto i pareri, gli interessi, i diritti (e i doveri) di tutti. Per cui, sul tema dell’aborto, ascolto con interesse il parere degli uomini, cerco di riflettere su tutti gli aspetti del problema, considerando anche gli altri interessi e diritti (del concepito, del padre) che sono in gioco.

Una riflessione simile - che ha avuto la forza esplosiva della rottura di un tabù - l'ha fatta una storica (anche di mestiere) femminista come Anna Bravo, in un'intervista rilasciata nella primavera del 2005 a Repubblica. Ricordando la battaglia degli anni '70, ha dichiarato: "Tendevamo a sorvolare sul fatto che le vittime erano due, la donna ed anche il feto. E che non sempre la donna era una vittima: poteva sceglierlo (l'aborto, ndr) per rifiuto della maternità, perché non si sentiva pronta, per ostilità alla propria madre, perché c'erano altre priorità".

Tra le caratteristiche delle donne - penso - ci sono proprio il senso di responsabilità, la capacità di ascoltare e di accogliere, di non chiudersi nel recinto dell’egoismo; non mi sembrano debolezze da superare, ma qualità da valorizzare.

In ogni caso, vorrei provare a riflettere sul tema dell’aborto anche in una prospettiva femminile, ponendomi la domanda: l’aborto è davvero una conquista della donna? Io non lo penso, soprattutto se guardo alla cultura che promuove l'aborto.

I numeri parlano di circa quattro milioni e mezzo di aborti, in Italia, negli ultimi trent’anni. Nel mondo, oltre un miliardo. Si sta parlando davvero di un “diritto” delle donne? O, piuttosto, di uno strumento per il controllo delle nascite? L’aborto è stato tollerato come male minore, oppure viene promosso e incentivato da una vera cultura abortista (e più in generale di rifiuto della vita, non solo con l'aborto: una "cultura della morte") che si nasconde dietro i “diritti delle donne”? Una cultura che in Italia ha portato a disapplicare (nelle sue parti a sostegno della donna che vuole portare avanti la gravidanza) proprio quella legge che a parole viene difesa con tanto vigore?

Capovolgendo le accuse che ho ricordato poc’anzi, potrei dire che quella cultura è per molti aspetti funzionale ad una società poco femminile: una società competitiva, aggressiva, economicista, poco disponibile al dono (compreso quello di una nuova vita). La vera cultura maschilista – per un attimo mi rifugio anch'io nella polemica tra sessi - è probabilmente quella di chi propaganda l’aborto, e certe “femministe” sono funzionali a quella cultura.

Appare ipocrita, quindi, la premessa che molti abortisti fanno ai loro proclami: “nessuno nega che l’aborto sia un dramma per ogni donna”. Se fosse davvero ritenuto un “dramma”, non bisognerebbe scandalizzarsi quando qualcuno (come i volontarî per la vita) cerca di aiutare le donne ad evitarlo. In questo “dramma” la donna è lasciata sola di fronte ad una scelta lancinante. Anziché aiuto, le si offre una soluzione che si cerca di far passare come la più facile e più comoda. Ma le conseguenze è la donna a portarle su di sé: i due terzi delle donne che hanno abortito conservano per anni il trauma psicologico. Si vuole banalizzare l’aborto persino a rischio della salute della donna, come dimostra la vicenda della pillola ru486. L’ipocrisia, purtroppo, è uno dei metodi con cui viene eluso il dibattito, con cui si afferma una cosa e se ne promuove un’altra.

Perché sostengo che la cultura che promuove l’aborto non è espressione della sensibilità femminile? Alla base di aborto e contraccezione c'è l’esigenza di separare la sfera affettivo-sessuale dalla procreazione, e dalla necessità di un rapporto stabile che questa richiama. Ebbene, mi sembra che la visione del sesso come esperienza “mordi e fuggi”, come puro divertimento, la paura di “legarsi”, siano atteggiamenti storicamente - e naturalmente -maschili; per cui una certa forma di "libertà sessuale" può diventare oppressiva per la donna.

Intendiamoci: ognuno (uomo o donna) è libero di indirizzare come preferisce le proprie scelte affettive (sperando che siano consapevoli). Ma alcune scelte hanno conseguenze sociali pesanti, e non è un bene pretendere di mettere il silenziatore al dibattito su queste conseguenze.

L’aborto non è solo lo scotto da pagare ad una gestione del proprio corpo libera – sì –, ma anche superficiale e consumistica, prigioniera della dittatura di desiderî contradditorî.
È anche, insieme con la fecondazione artificiale che lo accompagna, lo strumento per controllare socialmente la riproduzione. Ed anche qui, mi sembra, andiamo pesantemente contro i veri diritti della donna, che viene espropriata della sua centralità nel mistero della trasmissione della vita.

Il figlio deve nascere solo se entrambi “si sentono pronti”: e spesso è l’uomo a non esserlo. Il figlio deve nascere solo quando i tempi della vita professionale lo consentono: e si tratta di tempi ritagliati a misura maschile. La donna è indotta a rinviare sempre di più l’età della gravidanza. E improvvisamente si accorge che il suo “orologio biologico” segna che il tempo sta scadendo: la gravidanza non arriva più con la facilità di qualche anno prima, il desiderio di un bambino diventa angoscia.

Il figlio, infine, deve nascere solo se è “socialmente adatto”: sano (niente Sindrome di down, ma neanche labbro leporino), bello, efficiente (per il sistema produttivo). Categorie che vanno incontro più alla rigidità maschile che alla capacità di accoglienza femminile.

L’aborto è scelto “liberamente”, nel senso che di rado (?) è frutto di un’imposizione. Ma non è scelta “libera”, nel senso di scelta priva di condizionamenti, effettuata avendo di fronte più opzioni. Quasi sempre è scelta obbligata, espressione di una profonda solitudine: la donna che abortisce – e che potrebbe tenere il figlio - sente di non avere il sostegno del suo uomo, né della società. Per molti uomini l’aborto è la strada più veloce per evitare di assumersi le proprie responsabilità. Quando la madre è assistita, quando sente di poter contare su un aiuto (economico, morale), spesso la scelta è di tenere il figlio, come dimostra il successo dei Centri di aiuto alla vita.

Assistiamo invece al paradosso che alcuni abortisti considerano una "violenza psicologica" il fatto che alla donna sia offerto aiuto, che sia concretamente - e non solo in astratto - messa in condizione di scegliere. Dove sta scritto che la scelta davvero "libera" è solo quella in favore dell'aborto? A ben guardare, emerge l'arroganza ideologica di chi pretende di parlare in nome delle donne e scegliere al posto loro; magari perché pensa che la donna 'realizzata' è quella che non ha la 'scocciatura' o la 'schiavitù biologica' dei figli, quella che deve scimmiottare gli stili di vita maschili.

Non mancano nemmeno, purtroppo, le donne che scelgono deliberatamente di abortire, anche più volte. Detto quanto era doveroso a difesa delle donne e di una cultura genuinamente femminile, bisogna altrettanto sinceramente riconoscere che la donna non può essere sempre dipinta come "vittima delle circostanze". In certi casi non sarebbe sbagliato riaffermare il concetto di responsabilità, di rispetto degli altri (anche del nascituro e del padre che lo ha generato), a cui nessuno - qualunque sia il sesso - dovrebbe sottrarsi a cuor leggero.

Se in Italia permane ancora un certo velo di ipocrisia, dietro cui si nasconde la spinta per un aborto senza controlli, nel mondo sembra esser caduto anche tale velo. Organizzazioni internazionali come la IPPF e la WEDO, finanziate dall’ONU, parlano apertamente della necessità di promuovere l’aborto e la sterilizzazione femminile (150 milioni di donne del Terzo Mondo sottoposte alla legatura delle tube: alla faccia dei diritti femminili…), fatti rientrare tra i “diritti riproduttivi”! Qui troviamo interessi miliardari, vecchie e superate teorie sui sistemi per evitare la sovrappopolazione; tutto tranne che la preoccupazione per il sesso femminile.

Le donne dovrebbero guardarsi da chi dice di parlare a loro nome, e in realtà se ne serve per i suoi interessi o le sue ideologie.



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