"Io ho scoperto che sono le piccole cose buone delle persone comuni che tengono a bada l’oscurità. Piccoli atti di bontà e amore" (Gandalf il Grigio)
Lo Hobbit. Un viaggio inaspettato
(The Hobbit: an unexpected journey)
di Peter Jackson (dall'opera letteraria di J.R.R. Tolkien)
Con Ian McKellen, Martin Freeman, Richard Armitage, James Nesbitt, Ken Stott, Sylvester McCoy, Barry Humphries, Cate Blanchett, Ian Holm, Christopher Lee, Elijah Wood
USA, Nuova Zelanda 2012
È uscito nelle sale cinematografiche il nuovo film del regista Peter Jackson Lo Hobbit. Un viaggio inaspettato, tratto dal libro di John Ronald Reuel Tolkien Lo Hobbit o la riconquista del tesoro.
Il film in programmazione è il primo capitolo della nuova trilogia che Peter Jackson ha dedicato all'opera di Tolkien, dopo che con la trilogia su Il Signore degli Anelli lo stesso regista aveva realizzato il più grande successo della storia del cinema (replicando, peraltro, la fortuna dell’opera letteraria da cui era stata tratta).
Le vicende narrate in questo nuovo film si svolgono negli anni precedenti gli accadimenti descritti ne La Compagnia dell’Anello (primo episodio del Signore degli Anelli) e ne costituiscono l’antecedente, oggi si direbbe il “prequel”. Ritroviamo alcuni dei personaggi – e degli attori – conosciuti nella trilogia già prodotta e che il pubblico ha imparato ad amare.
Bisogna precisare che, mentre la trilogia cinematografica del Signore degli Anelli corrisponde esattamente alla trilogia letteraria, con Lo Hobbit Jackson ha sviluppato una serie di tre film a partire da un unico romanzo.
Non si è trattato, però - contrariamente a quanto affermato da alcuni frettolosi commentatori che non hanno visto il film e che probabilmente non conoscono le opere di Tolkien -, di una “dilatazione” a fini commerciali dell’opera originaria.
Piuttosto, Jackson ha dato forma al desiderio di ricostruire l’intero universo tolkieniano, attingendo ad altre opere fondamentali - come Il Silmarillion – che quell’universo fantastico avevano disegnato in maniera coerente.
Il regista ha dunque l’intuizione di ricomporre l’opera tolkieniana, tuffandosi in un’impresa che potremmo definire esegetica e dando vita ad una summa, il cui risultato appare mirabile sia dal punto di vista prettamente cinematografico sia dal punto di vista del contenuto narrativo.
Con Lo Hobbit, come per Il Signore degli Anelli, la storia di un popolo si intreccia con quella di un uomo. E l’avventura di un uomo non è impresa solitaria ed eroica, perseguita con determinazione; al contrario, come recita il sottotitolo del film, è “un viaggio inaspettato”. È la vita che ti sorprende.
Lo stregone Gandalf dovrà guidare una compagnia di tredici nani, ai quali, per una ragione imperscrutabile, sceglie di affiancare anche uno hobbit, Bilbo Baggins. I tredici nani sono capeggiati da Thorin Scudodiquercia, figlio di Thrain e nipote del re Thror, e sono i discendenti del popolo di Erebor, l’antico e prosperoso regno dei nani costruito sotto la montagna solitaria. Questi nani sono intenzionati a far ritorno nella loro patria, per uccidere il drago Smaug - che 100 anni prima li aveva cacciati - e rimpossessarsi del tesoro del loro popolo.
La narrazione del film alterna momenti di azione serrata, adrenalinica, con effetti speciali ancora una volta incredibili, a momenti di accurata e godibile ricostruzione d’ambiente, con tratti di ironia e di commedia.
Ma ciò che consente di assaporare fino in fondo la qualità del film è la nostra capacità di cogliere le simbologie e gli spunti di riflessione che Tolkien ha tratteggiato e Jackson fedelmente ripreso. Le parti del film dedicate a delineare ambiente e psicologia dei personaggi (soprattutto nella casa di Bilbo Beggins), da qualcuno giudicate un po’ troppo lunghe, sono necessarie proprio a cogliere tutte le implicazioni del film, che non è un banale action movie.
Il racconto ha inizio con la rappresentazione del regno di Erebor guidato da re Thror. Al popolo dei Nani era stata data una terra (meglio: un sottoterra) ricca, che la loro operosità aveva saputo trasformare e rendere prosperosa per se stessi e per i loro vicini.
Questa operosità diviene però avidità, che spinge a ricercare e accumulare ricchezze sempre più grandi. Fino al ritrovamento della più splendente delle gemme, che il re decide di incastonare sul suo trono, sopra di lui: il re stesso, quindi, pone quel cristallo al di sopra della sua persona, considerandolo simbolo di un potere innanzi al quale tutti si devono inchinare (compreso Thranduil, re degli elfi silvani di Bosco Atro).
Scioccamente ha impresso su stesso e sul suo popolo il sigillo della “bestia” e quella ricchezza si rivela per ciò che realmente è: un’illusione, che viene spazzata via dal drago Smaug, la bestia che improvvisa si materializza, da simbolica diviene reale, si abbatte su di te e ti toglie tutto ciò che hai (o credevi di avere).
Il popolo di Erebor aveva scelto di essere guidato da un vitello d’oro ed ora, cacciato da Smaug, è un popolo in esilio.
Il popolo di Erebor - se leggiamo in controluce le immagini tratteggiate da Tolkien (e da Jackson) - diventa metafora del popolo dell’esodo. Commovente il canto dei nani davanti al fuoco che ricordano la patria perduta; un canto che ha la forza evocativa di un “Nabucco”.
Dove inizia la storia di redenzione del popolo dei nani di Erebor?
Nella Contea, il paese degli Hobbit, una piccola contrada ai margini del mondo conosciuto, dove non vi sono né re né imperatori. Di nuovo, il richiamo ci pare evidente: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele” (Mt 2, 6).
L’impresa del ritorno a casa è preparata da un saggio con il compito di guidare i passi di questa compagnia: un “sacerdote”, che ha l’intelligenza e l’umiltà di capire che c’è una realtà che ci supera e da cui dobbiamo farci aiutare, a differenza di quanti credono solo in se stessi: i nani, spesso testardi e accecati dall'orgoglio; o il grande stregone Saruman, più 'sapiente' che saggio, perché l'incapacità di prestare ascolto ad una coscienza morale lo confina in uno cinico scetticismo.
Come nel Signore degli Anelli, il protagonista è un piccolo hobbit, Bilbo Baggins.
Anche in questo caso, come per Frodo, non siamo in presenza di un “eroe”. Bilbo ha la statura, ha l’inedia, ha la paura tipica degli hobbit e, in particolare, della famiglia Baggins.
Però nelle sue vene scorre anche sangue di una famiglia avventurosa come i Tuc… In fondo al suo cuore, sa che non è stato creato per cose piccole - mediocri -, ma per qualcosa di più alto e grande.
Proprio la sua 'modestia' lo rende capace di grandi imprese, come spiega Gandalf (nella citazione che riportiamo in epigrafe) a Galadriel, quando questa gli chiede ragione della scelta di questo piccolo hobbit.
Bilbo giustamente non si sente un eroe e non sceglie di esserlo. Ma è stato “chiamato” (da Gandalf) e intuisce che deve rispondere alla chiamata; intuisce che la vita ha un senso solo se vissuta e non conservata; intuisce che la vita confortevole condotta sino a quel momento è una gabbia.
L’obiettivo di un hobbit - di un uomo - non dovrebbe essere quello di morire in salute… La vita è un viaggio (un pellegrinaggio…), bisogna avere la forza di partire e di trovare la meta.
La figura di Bilbo ci sembra quanto mai profetica e attuale, perché richiama molto l’immagine di certi giovani dei nostri tempi (laddove per “giovane”, oggigiorno, sembra doversi intendere una persona di età compresa tra i 16 e i 55 anni). Con però alcune piccole differenze: infatti, se Bilbo era adagiato sulla poltrona, il giovane di oggi è spesso sprofondato in posizione da invertebrato sul divano; se Bilbo era intento nella lettura, il giovane di oggi è inebetito innanzi alla Playstation; se Bilbo aveva il buongusto della cucina, il giovane di oggi distingue a malapena un hamburger da un cheesburger. Ma, soprattutto, il giovane di oggi non ha più la consapevolezza che anche nelle sue vene scorre sangue Tuc e che fatto non è a viver come bruto, ma per seguir virtute e canoscenza.
Oppure, per usare una citazione musicale moderna: “Ma che sapore ha una giornata uggiosa, una vita non spesa?” La risposta dovrebbe essere quella di Bilbo (o Frodo): nessuno.
(L'avrete capito, non sposiamo il giovanilismo di maniera. I giovani in gamba che ci leggono perdoneranno le forzature del nostro discorso.)
Dunque Bilbo si lascia coinvolgere nell’impresa; che affronterà restando se stesso e, al tempo stesso, maturando (eccellente l’interpretazione del personaggio da parte dell’attore Martin Freeman).
La strana compagnia parte, l’avventura decolla, il pathos narrativo cresce, sino ad un finale che… non vi possiamo ovviamente raccontare!
Da segnalare che la qualità visiva di questo film segna – come già era accaduto per la prima trilogia – un nuovo salto rivoluzionario.
Se pensavamo che nei film degli ultimi anni gli effetti speciali avessero raggiunto vette di realismo ormai insuperabili, ebbene non avevamo ancora visto questo film: anche i personaggi fantastici (come Gollum) sembrano davvero autentici, ci aspettiamo quasi di poterli incontrare all’uscita dal cinema.
Inoltre, si tratta della prima opera cinematografica ripresa con la nuova tecnica del 3D a 48 fotogrammi al secondo, che ci introduce in un nuovo incredibile iperrealismo (per qualcuno addirittura eccessivo).
Avrete capito che giudichiamo il film un nuovo capolavoro, anche se forse non ha la compiutezza della trilogia cardine dell’universo tolkieniano, perché diverso è il respiro che hanno le opere letterarie di riferimento.
Va però riconosciuto a Jackson il merito di essere riuscito - come ricordato inizialmente - nell'intento di ampliare l'orizzonte dell'Hobbit, inserendolo in un vero continuum artistico e conferendogli così una dimensione epica.
Bisognerà aspettare gli ultimi due episodi per dare un giudizio definitivo.
Per quanto detto, ci sembrano poco fondati i principali rilievi mossi al film, che abbiamo brevemente richiamati.
Se proprio vogliamo trovare una pecca, dobbiamo farlo per alcuni momenti in cui la serietà-profondità della narrazione perde qualche colpo.
Non ci riferiamo – giova ribadirlo – alle ricostruzioni d’ambiente e ai momenti con tratto di commedia, che servono ad alleggerire la tensione e a preparare/sedimentare i contenuti narrati.
Ci riferiamo, piuttosto, ai tratti grotteschi – ai limiti del pulp - di alcuni personaggi, come il Grande Goblin; o all’ironia paradossale che stempera eccessivamente la drammaticità di alcune scene, come quando i protagonisti, dopo essere sopravvissuti ad aspri combattimenti, sembrano togliersi la polvere di dosso come se nulla fosse.
Si tratta, ad ogni modo, di stonature occasionali, che non alterano assolutamente la qualità del film. Da vedere assolutamente, anche perché ci offre l’opportunità – in attesa del secondo episodio – di riscoprire il libro di Tolkien: un volume apparentemente indirizzato ai giovanissimi, ma che può essere ancor più apprezzato dagli adulti che sappiano dedicargli una lettura attenta e meditata.
Riferimenti bibliografici
Paolo Gulisano
Tolkien. Il mito e la grazia
Ancora editrice, Milano 2007
Andrea Monda, Saverio Simonelli
Tolkien, il signore della fantasia
Frassinelli editore, Milano 2002