Arlecchino e Pulcinella, forse, sono le ultime maschere italiane ancora conosciute.
Conosciute, ma rilegate in soffitta, considerate come un’eco lontana: quanti bambini – o adulti – le indossano? E, soprattutto, quanti ne conoscono la storia, il significato, il carattere?
Sì, perché le maschere tradizionali italiane non si distinguono solo per la “linea”, i colori. Ogni personaggio è espressione di una tradizione locale e ha una sua indole ben precisa, una sua fisionomia, un campionario di pregi e difetti.
Il Pulcinella della Commedia dell’Arte era la maschera napoletana per eccellenza, ed aveva una caratterizzazione simile all’Arlecchino bergamasco (in una singolare e spontanea unione tra Nord e Sud!): servo sciocco e opportunista, divertente e grottesco nei disperati tentativi di scansare il lavoro, rimediare qualcosa in più da mangiare, cavarsi dagli impicci.
Queste maschere hanno conosciuto variazioni sul tema, incarnando anche il personaggio burlone o l’uomo del popolo ribelle e irriverente.
Per non parlare di altre maschere oggi quasi del tutto dimenticate, che costituivano il contraltare del duo Pulcinella-Arlecchino e arricchivano i caratteri del carnevale: il “traffichino” Brighella (anche lui bergamasco), il sapientone pomposo Dottor Balanzone (bolognese), il vecchio mercante avido e vizioso Pantalone (veneziano), la servetta civettuola e risoluta Colombina (pure veneziana); o, più “recenti”, il rubicondo Gianduia (piemontese), lo strafottente Rugantino (romano) e molte altre minori.
Perché si va perdendo questo grande patrimonio culturale e di divertimento popolare?
Qualche genitore potrebbe ripondere, un po' semplicisticamente: "Ho comprato a mio figlio (o mia figlia) la maschera di un Gormita (o di Barbie), perché me l'ha chiesta!"
Legittimo - e forse inevitabile - il desiderio di compiacere il desiderio di un bambino (almeno finché non contraddice apertamente l'indirizzo educativo che riteniamo corretto per i nostri figli).
Ma bisogna ricordare che i bambini "scelgono" tra i modelli che noi adulti forniamo. Noi vorremmo interrogarci proprio sul perché si sia andato affermando un contesto culturale in cui non c'è più posto per le vecchie mascherine.
Alcune cause del mancato apprezzamento per le maschere della tradizione italiana nascono da un fraintendimento del loro significato.
Qualcuno ha pensato che l’esistenza di maschere-tipo limiti la fantasia. E il loro rifiuto odierno nasce anche dal diffondersi di un atteggiamento esibizionista e individualista (o pseudo-tale: perché poi si diffondono maschere tratte da prodotti commerciali, spesso cinematografici, che di originale hanno ben poco).
Eppure le maschere tradizionali riuscivano a garantire divertimento e spensieratezza, perché costituivano un patrimonio comune in cui tutti potevano riconoscersi e da cui poteva scaturire la satira di costume e persino quella politica.
Inoltre, indossarle significava recitare una parte, ma anche caratterizzarle e personalizzarle. Una personalizzazione che veniva dai grandi attori della Commedia dell’Arte, ma anche dalla gente comune che le vestiva a carnevale.
Per questo scopo, ovviamente, era necessario aguzzare l’ingegno, dimostrare originalità e fantasia particolarmente raffinate. Doti forse in disuso al giorno d'oggi, in tempi di grossolanità ed esibizionismo.
Un'altra remora alla diffusione attuale delle maschere tradizionali è venuta dal “politicamente corretto”, cioè dal timore che i difetti della maschera siano attribuiti al territorio di provenienza e alla sua popolazione.
In realtà il fatto che ogni maschera portasse con sé un profilo (carattere, scene tipiche, battute), espressione del territorio in cui era nata, aiutava la conoscenza reciproca delle diverse regioni e creava un senso di appartenenza comune: quei personaggi facevano ridere allo stesso modo in tutta Italia (e non solo). Allo stesso tempo, ricchezza di sfumature e autoironia allontanavano i luoghi comuni (come dimostra la somiglianza di fondo tra il “nordista” Arlecchino” e il “sudista” Pulcinella).
I motivi più profondi per cui le maschere italiane sono finite nel dimenticatoio, però, non vanno ricercati in un rifiuto più o meno esplicito, ma – più semplicemente – nell’imporsi di una mentalità poco “accogliente” per la loro diffusione.
Ha influito anzitutto un clima generale di abbandono del binomio cultura-divertimento e delle tradizioni.
A questo abbandono ha contribuito anche la sordina messa al significato indirettamente religioso del carnevale. Sì, perché “carnevale” viene da carnem levare e indica gli ultimi giorni in cui è possibile folleggiare e mangiar carne prima della penitenza quaresimale. Cosicché va diffondendosi Halloween come nuovo carnevale.
Infine, molto semplicemente, sulle maschere della tradizione italiana (ma anche su alcune maschere di “tradizione” più recente: Zorro, cow boy, damina, fatina, ecc.) non c’è… il diritto d’autore.
L’industria del divertimento spinge verso maschere derivate da personaggi di film e cartoni animati, dalle quali può ricavare corposi introiti. Indossando queste maschere, forse abbiamo perso la “libertà” di Arlecchino e Pulcinella: servitori sì, ma che sapevano almeno farsi beffa dei loro padroni.