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Notizie - Nel Mondo
La "decrescita felice": un ritorno alla società primitiva Stampa E-mail
Più che ricerca del bene comune, un’esaltazione del comportamento egoistico
      Scritto da Carlo Baratta
23/01/12

La causa del declino europeo è dovuta all’innervamento della cultura nichilista relativista nella società civile. Questa visione del mondo ha fatto della cosiddetta “decrescita felice” l’obiettivo da far perseguire alle politiche industriali e sociali. Consultando il web, con Google si osserva come questa chiave di ricerca - “decrescita felice” - presenta 1.300.000 pagine di risultati nella sola lingua italiana è perciò da considerarsi un concetto ampiamente diffuso tra i cittadini.

Considerando la rete come una bacheca di misura delle tendenze sociali, si può osservare quindi come l’idea dell’Occidente grasso e imperialista, che deve espiare colpe reiterate e non ben definite, sia molto diffusa.
Mentre lo è molto meno la ‘soluzione’ a queste colpe, cioè favorire i rapinati dall’Occidente: l’argomento “commercio equo e solidale” presenta solo 230.000 pagine (per dare un termine di paragone, la voce “pallone elastico” - sport popolare praticato nel basso Piemonte e in Liguria - conta 179.000 pagine).

Esiste, insomma, un’élite di occidentali (europei, statunitensi, ecc.)... antioccidentali, che si autodefinisce coscienza morale del mondo ed è capace di influenzare largamente l’opinione pubblica con l’idea della colpa dell’Occidente. Ma è molto meno influente nell'affermare le possibili soluzioni, anche perché essa stessa non sa elaborarne. I membri di questa élite, infatti, si comportano alla fine – come vedremo - da consumatori di nicchia, ben poco solidali.

L’idea che i problemi del mondo si risolvano rinunciando alla crescita economica è una posizione antinaturale (e che conflligge anche con la Genesi), ha alla base una concezione patologica di amore. L’Amore, infatti, sia quello inteso come eros sia quello inteso come agape, si fonda sulla relazione; il presunto amore che invoca la decrescita felice si basa sull’egoismo.

Leggendo su internet “Manifesto del movimento per la decrescita felice” si capisce la pochezza del progetto. Gli estensori di questo documento glorificano l'autoproduzione di yogurt e altri generi alimentari, la manutenzione fai da te e la riduzione dei consumi energetici, con lo scopo di ridurre il PIL e le tasse così da arrivare al paradiso in terra, cioè alla decrescita felice.

Pensando all'autoproduzione di yogurt, ho cercato di confrontarla con quella industriale. Quante professioni o mestieri stanno dietro una confezione industriale di yogurt e, quindi, quanti disoccupati crea l'autoproduzione? Per arrivare al consumatore finale di yogurt si inizia con l’allevatore di bovini o bufale (o, con un linguaggio più semplice, il pastore); poi ci sarà chi munge questi animali, il trasportatore del latte al luogo di trasformazione, gli addetti alla trasformazione, i veterinari e i dietisti che controllano il prodotto, i disegnatori del contenitore, i pubblicitari e gli attori che reclamizzano il prodotto, il commerciante che lo vende e forse ancora tanti altri.

Ecco, gli autoproduttori sognano un paese di disoccupati: solo i ricchi proprietari terrieri possono essere autosufficienti.

Questi eredi dello stile di Robespierre ignorano che nelle grandi città italiane - Roma, Milano, Torino, Napoli - non tutti hanno la possibilità di avere un attico con prato annesso, un gregge di capre, alveari, una piccola officina con tutti gli utensili per le manutenzioni domestiche, un capitale iniziale, e quant’altro utile per l'autoproduzione.
Non tutti i cittadini, poi, possono permettersi di avere proseliti disposti a produrre gratis. L’autoproduzione richiede tempo, e chi lavora otto ore o fa i turni non ha tempo per dedicarsi a questa amena attività; se poi il lavoro non ce l’hai (perché il PIL è “decresciuto”), forse preferisci dedicare il tempo a trovarne uno vero.

L'autoproduzione, inoltre, costa meno perché si basa sul lavoro nero, sul lavoro gratuito; un lavoro che non produce entrate fiscali per lo Stato (e quindi risorse per i servizi sociali). Questo comportamento è una forma di egoismo sociale, di spocchioso consumismo a sbafo, mascherato; un egoismo che può condurre anche ad un sistema autoritario neoschiavistico: se mi rifiuto di fare l’autoproduttore (perché non ho capacità o strumenti) o di lavorare gratuitamente per altri, che succede?
La degenerazione autoritaria sarebbe del resto coerente con l’ideologia che anima questo progetto: l’ideologia del semidio che vuole plasmare una plebe che presume incolta e senza coscienza. Insomma, lo stalinismo globalizzato.

Un’altra falsità è il risparmio energetico che sarebbe conseguenza dell’autoproduzione o del suo più vicino surrogato: il consumo di prodotti locali (a “chilometri zero”).
Giordano Tedoldi, su Libero del 3 gennaio 2012, afferma che mangiare a chilometri zero non riduce il consumo di energia, perché il contributo energetico maggiore si ha nella produzione e non nel trasporto delle merci. Inoltre, la ricerca del chilometro zero pone in difficoltà i beni prodotti dalla rete del commercio equo e solidale, nato per dare un mercato agli autoproduttori dei paesi del Terzo Mondo. Una bella contraddizione.

Oltre all’egoismo economico (quello che rende gli autoproduttori benestanti più ricchi e lo Stato più povero), c‘è una forma di egoismo più nascosta, ma più pericolosa, perché sviluppa una tendenza socio-culturale.
L'autoproduzione contemporanea non è un ritorno al mitico paradiso terreste, ma il tentativo di rendere la persona “autosufficiente”, e perciò tendenzialmente impermeabile alle relazioni sociali, ai rapporti con gli altri.

Decrescita non solo economica, ma demografica: perché fare figli se posso io vivere in eterno, grazie all'auto produzione di cibi sani, vestiti di qualità ecc.?
Un postulato dell’autoproduzione è il salutismo, la cultura dell’ “equilibrio biopsichico”, la riduzione dell’istinto sessuale (non vissuto come agape, dono di sé, ma trasformato per realizzare il proprio narcisismo): non c’è nessuno che possa relazionarsi con me, visto che sono autosufficiente.

Chi non la pensa come questi paladini dell’autoproduzione è un servo della pubblicità, un consumista e predatore della natura. Esagero? Provate a discutere con un autoproduttore o con un salutista, e poi ne riparliamo.
Eppure non c’è nulla di più consumistico, di più funzionale alle esigenze produttive, della cultura della “qualità della vita” (e della cultura della morte che in fondo la ispira).

La decrescita demografica è in effetti l’unico risultato della propaganda che denunciava l’eccessivo consumo di risorse, iniziata nel lontano 1968: stiamo diventando una società di vecchi.
Nell’ultimo studio sulla demografia italiana l'Istat conclude: “Cumulando gli eventi demografici relativi al periodo 2011-2065, l’evoluzione della popolazione attesa nello scenario centrale è il risultato congiunto di una dinamica naturale negativa per 11,5 milioni (28,5 milioni di nascite contro 40 milioni di decessi) e di una dinamica migratoria positiva per 12 milioni (17,9 milioni di ingressi contro 5,9milioni di uscite). La popolazione è destinata ad invecchiare gradualmente. Nello scenario centrale l’età media aumenta da 43,5 anni nel 2011 fino ad un massimo di 49,8 anni nel 2059. Dopo tale anno l’età media si stabilizza sul valore di 49,7 anni, a indicare una presumibile conclusione del processo di invecchiamento della popolazione” (fonte Istat, Il futuro demografico del Paese, 28-12-2011).

Fa tenerezza pensare a ottantenni auto produttori, quando forse servirebbero badanti o una crescita economica per garantire servizi medici e assistenziali alla popolazione anziana. Alla società nichilista serve l’educazione all’autocontrollo che si acquisisce relazionandosi con altri, scoprendo così i propri limiti e il bisogno di altre competenze. Ma gli autoproduttori lo ignorano.



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