Le carceri sono affollate. I detenuti versano in condizioni di profondo disagio e di irrimediabile sconforto.
A volte sono detenuti sottoposti a carcerazione preventiva, e in alcuni casi risulteranno assolti. Altre volte si tratta effettivamente di criminali, che dovranno sì essere reclusi, ma non in condizioni di abbrutimento.
Ogni singolo istituto di pena contiene in media il doppio dei detenuti rispetto alla capienza regolamentare. Alcuni dati, presi dall’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone titolato Carceri nell’illegalità. La torrida estate 2011, possono aiutarci a comprendere l’entità del problema nelle sue dimensioni reali (1).
A fronte di una capienza regolamentare complessiva che al 31 maggio 2011 era di 45.551 unità, le carceri italiane ospitano oggi 67.174 detenuti, dei quali poco più del 50% (circa 37 mila) scontano una condanna definitiva. Gli altri (circa 27 mila) sono in attesa di giudizio.
Numeri tanto eloquenti e alcune sentenze di condanna emanate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nei confronti dell’Italia (famosa la sentenza sul caso Sulejmanovic del 16 luglio 2009, ricorso n. 22653/2003), hanno indotto stampa e televisioni a definire il problema come “emergenza carceri”.
Il termine “emergenza”, tuttavia, risulta improprio. Richiama infatti una situazione di disagio o di pericolo che si è venuta determinando in maniera tanto improvvisa da non potersi risolvere altrimenti che con l’adozione di provvedimenti eccezionali. Il problema delle carceri, al contrario, è annoso e si è dimostrato totalmente immune rispetto a misure legislative di emergenza quali l’amnistia o - più di recente - l’indulto.
Anzi, sorge il dubbio che l’emergenza sia funzionale agli interessi di qualcuno (vedi la similitudine col "caso" rifiuti a Napoli).
Un tentativo serio per risolvere la questione non può che provenire dall’elaborazione di un piano organico che preveda lo stanziamento dei fondi necessari per la realizzazione di nuovi istituti di pena, per l’incremento del personale penitenziario, per il migliore funzionamento della “macchina” giustizia e per la copertura dei costi di gestione.
C’è la “crisi”? Non ci sono i fondi? Un “sistema giustizia” efficiente ha ritorni economici enormemente maggiori dei costi sostenuti.
I disagi causati dal sovraffollamento incidono negativamente sia sul rispetto dei diritti del detenuto, la cui dignità, pur nella necessaria restrizione della libertà personale, non può essere in alcun modo avvilita dalle condizioni detentive, dalla sporcizia e dalla promiscuità degli ambienti, da trasferimenti illogici che allontanano il detenuto dai familiari; sia sull’intera collettività: l’assenza dei fondi necessari per un miglioramento delle condizioni detentive rende di fatto nullo il principio costituzionale del fine rieducativo della pena, il solo capace di trasformare la reclusione di un criminale in un beneficio per la collettività. Il carcere, oggi, quando non induce chi vi è recluso al suicidio o all’autolesionismo, abbrutisce i bruti e, quel che è peggio, non offre ai volenterosi la possibilità di emendarsi.
La mancata rieducazione dei detenuti che hanno espiato la pena produce un danno alla collettività anche in termini concreti: danni subìti dai cittadini per nuovi reati, aggravi di costi diretti (assistenza sociale, costi di pubblica sicurezza e giudiziarî nei confronti dei recidivi, ecc.), mancanza del beneficio che deriverebbe dal reinserimento sociale e lavorativo degli ex detenuti.
Ovviamente non ci si attende dalla politica e dai governi che trasformino le carceri in luoghi di villeggiatura. Sarebbe però utile riaffermare il principio della “giustizia della pena” che Cesare Beccaria aveva esposto in Dei delitti e delle pene. Secondo il pensatore illuminista, il diritto del sovrano di punire un crimine scaturisce dalla
“necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni particolari; e tanto più giuste sono le pene, quanto più sacra ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi […]. Fu la necessità che costrinse gli uomini a cedere parte della propria libertà: egli è adunque certo che ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzion possibile […]. L’aggregato di queste minime porzioni possibili forma il diritto di punire; tutto il di più è abuso e non giustizia. È fatto, ma non già diritto”.
Inoltre, alcuni passi del Beccaria, tutt’oggi illuminanti, possono aiutarci ad unire tasselli rimasti fin’ora isolati, in modo da inquadrare il problema del sovraffollamento delle carceri nella sua reale complessità. Nel breve capitolo in cui Beccaria contrappone all’inefficace splendore dei supplizi un’auspicabile dolcezza delle pene, si legge infatti che
“uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggior impressione che non il timore di un altro, più terribile, unito con la speranza dell’impunità”.
In un altro brano, infine, è scritto che
“Perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto […]. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico”.
Lungi dal voler strumentalizzare il pensiero di Beccaria e, quindi, dal voler applicare i suoi ragionamenti contro la tortura e la pena di morte a un contesto, quello dell’Italia odierna, nel quale questi istituti sono stati aboliti da decenni, vorrei, ugualmente, prendere spunto dal linguaggio e dalla logica del pensatore italiano al fine di individuare una politica efficace intorno al problema delle carceri.
Da un lato, infatti, sarebbe necessario realizzare quella “certezza delle pene” che funge da deterrente rispetto alla commissione dei crimini: velocizzando l’andamento dei processi – intervenendo sui mali della giustizia italiana - ed eliminando il ricorso ai cosiddetti provvedimenti “svuota-carceri”. (Si badi: meno crimini non significa solo carceri meno affollate, ma anche un sistema di diffusa legalità che accresce la sicurezza dei cittadini, stimola lo sviluppo economico, ecc.)
Questo tipo di provvedimenti, uniti a una restrizione dei comportamenti sanciti come reato (da trasformare eventualmente in contravvenzione) e all’affermarsi di “pene alternative” (diverse dalla detenzione), permetterebbe di frenare a monte l’afflusso di detenuti.
Dall’altro lato, invece, bisognerebbe investire nell’edilizia carceraria in modo da rendere la “crudeltà delle pene” realmente proporzionale al tipo di reato. Parafrasando Beccaria, oggi la “crudeltà delle condizioni detentive” rendono di fatto squilibrato il rapporto esistente tra la pene da scontare e il tipo di reato commesso.
La condanna al carcere deve significare “soltanto” restrizione della libertà personale del detenuto per un periodo di tempo stabilito e quindi certo. Non possono aggiungersi alla reclusione le angherie, le umiliazioni, i disagi di condizioni detentive fuori controllo a causa del sovraffollamento e dell’assenza di fondi.
Neanche è da escludere l’ipotesi (già sperimentata in alcuni Paesi) di regimi carcerari differenziati: impianti con controlli rigorosi, per detenuti recidivi o autori di crimini ad alto allarme sociale o protagonisti di cattiva condotta carceraria; impianti con controlli meno rigorosi (e costi considerevolmente più bassi) per incensurati che siano stati autori (o presunti tali) di delitti di minore allarme sociale, e si distinguano per l’attitudine al reinserimento.
Infine, non dovrebbero mancare investimenti per la formazione professionale e il reinserimento lavorativo dei detenuti: anche in questo caso il ritorno economico sarebbe ben maggiore dei costi sostenuti.
Le prospettive cieche sul problema hanno condotto finora i governi di ogni colore politico ad adottare provvedimenti emergenziali e del tutto inefficaci, ma è solo ragionando sulla questione in termini di problema e non più di emergenza; è solo collegando il tema della diffusione della criminalità con quello altrettanto stringente della “certezza delle pene” (e quindi dell’efficienza del sistema di giustizia); è solo, infine, tornando a considerare il fine rieducativo della pena come una risorsa per l’intera comunità che la politica potrà pretendere di elaborare una risposta degna al problema delle carceri italiane.
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(1) La tabella riporta le statistiche degli istituti più sovraffollati d’Italia:
Istituto | Regione | Capienza | Presenze 20.3.11 | Numero detenuti per ogni 100 posti |
Busto Arsizio | Lombardia | 167 | 442 | 264,7 |
Vicenza | Veneto | 146 | 373 | 255,5 |
Brescia C.M. | Lombardia | 206 | 518 | 251,5 |
Ancona Mont | Marche | 172 | 406 | 236,0 |
Catania P.L | Sicilia | 247 | 582 | 235,6 |
Milano San Vittore | Lombardia | 712 | 1658 | 232,9 |
Savona | Liguria | 36 | 82 | 227,8 |
Piacenza | Emilia Romagna | 178 | 386 | 216,9 |
Venezia SMM | Veneto | 168 | 363 | 216,1 |
Reggio Calabria | Calabria | 164 | 354 | 215,9 |
Castrovillari | Calabria | 131 | 281 | 214,5 |
Pozzuoli | Campania | 91 | 193 | 212,1 |
Treviso | Veneto | 128 | 270 | 210,9 |
Bari | Puglia | 296 | 621 | 209,8 |
Bologna | Emilia Romagna | 497 | 1039 | 209,1 |
Reggio E. – C.C. | Emilia Romagna | 132 | 275 | 208,3 |
Lecce | Puglia | 659 | 1369 | 207,7 |
Palmi | Calabria | 140 | 285 | 203,6 |
Monza | Lombardia | 405 | 815 | 201,2 |
Pesaro | Marche | 178 | 357 | 200,6 |
Pavia | Lombardia | 247 | 495 | 200,4 |