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Notizie - In Europa
L’Europa che non c’è (e che sarebbe bene ci fosse) Stampa E-mail
I contrasti su immigrazione, Libia, crisi finanziaria evidenziano i limiti degli assetti attuali
      Scritto da Francesco Cassani
02/05/11

L’attuale Unione Europea è un’Unione essenzialmente economica e non politica. Ma ci accorgiamo ogni giorno che ciò non basta.

Sul fronte immigrazione, assistiamo al deprimente balletto sul destino degli immigrati: “Teneteveli voi”; “Ma da noi non vogliono restare, vogliono venire da voi”; “Sì, però noi ne abbiamo già abbastanza”; “E le regole di Schengen dove le mettiamo?”

Sul fronte dell’attacco alla Libia, poi, gli interessi dei singoli Paesi europei si scontrano con cinismo imbarazzante.

Esiste certamente l’esigenza di dare sostegno al vento di cambiamento che emerge nei Paesi arabi.
Ma l’arbitrarietà con cui viene dato questo sostegno (Libia oggi – ed Iraq ieri – sì; Siria oggi – ed Iran ieri – no) e, soprattutto, l’approssimazione con cui si prepara l’eventuale successione al regime di Gheddafi dimostrano che le preoccupazione per la democrazia non è al centro dei pensieri dei Paesi interventisti.
Esemplare il caso della Francia. Nel 2003 si oppose alla guerra con l’Iraq perché le sue compagnie petrolifere avevano ricchi contratti con Saddam Hussein, e Chirac non voleva veder intaccata questa posizione di privilegio. Oggi accade l’esatto contrario: l’Italia è il Paese che ha i migliori rapporti commerciali con la Libia, mentre Francia e Gran Bretagna sanno di avere tutto da guadagnare da un rimescolamento delle carte e dall’acquisire meriti presso la nuova leadership libica, aiutandola a salire al potere.

Di recente, anche la crisi finanziaria ha investito anche i Paesi dell'area euro , mettendo a dura prova la compattezza europea, con la disputa se fosse più urgente stanziare aiuti per i Paesi in difficoltà (i cosiddetti P.I.G.S.) o fissare nuove regole di bilancio più stringenti.

Nel dibattito interno del nostro Paese questi fatti sono commentati nella solita prospettiva un po’ provinciale della polemica spicciola, delle schermaglie tra maggioranza e opposizioni: l’Italia si è mossa bene? Il Governo poteva fare di più e meglio, con migliori capacità di prevenire gli eventi? Abbiamo sufficiente credibilità internazionale?

Comunque la si pensi su questi aspetti, dovremmo sforzarci di ragionare con una prospettiva più ampia, la sola capace di affrontare davvero il cuore dei problemi: l’Unione europea è all’altezza dei suoi compiti? Serve più Europa o meno Europa?

Alcune voci si sono levate per invocare un passo indietro nel cammino europeo.

Sul tema immigrazione il presidente francese Sarkozy è incalzato – anche in vista delle imminenti elezioni presidenziali - dalla nuova leader dell’estrema destra, Marine Le Pen (figlia di Jean-Marie), la quale ha detto che si batterà per rimettere in discussione il trattato di Schengen (sulla libera circolazione delle persone tra gli Stati aderenti).
Parte la gara a chi riesce ad intercettare i timori popolari sulle nuove ondate migratorie. Timori anche giustificati, che però richiedono risposte serie e articolate, e non sparate demagogiche.

Anche il nostro Presidente del Consiglio ha lanciato una dichiarazione molto forte: "L'Europa - ha detto Berlusconi - o è qualcosa di vero e concreto o non è. Ed allora è meglio dividerci e tornare ciascuno a fare le proprie politiche nazionali e i propri egoismi".
Di questa dichiarazione, però, ci sembra di cogliere il chiaro intento provocatorio, che non è quello di voler effettuare un passo indietro (che non sarebbe certo indolore), bensì un deciso passo in avanti (qualcuno potrebbe rilevare che l’europeismo del nostro Governo è a corrente alternata, ma questo è un altro discorso).

In effetti, chiunque non voglia inseguire astratte ideologie, e non abbia l’esigenza di lanciare proclami elettorali, dovrebbe aver chiaro che le questioni sul tappeto non possono essere risolte dall’azione diplomatica o militare dei singoli Paesi.

Contenere le ondate migratorie, ad esempio, richiede politiche di ampio respiro che non sono alla portata dei singoli Paesi europei. Se bastasse “sigillare” i confini, del resto, lo si potrebbe fare già adesso, visto che gli accordi di Schengen impongono non solo l’abbattimento delle frontiere interne agli Stati firmatarî, ma anche il rafforzamento di quelle esterne.

La recente ondata migratoria dal Nord Africa, peraltro, è collegata alla precipitosa (?) azione militare in Libia di alcuni Paesi europei, le cui conseguenze si ripercuotono innanzitutto sull’area del Mediterraneo, ma anche a catena – inevitabilmente - sui Paesi che hanno intrapreso quelle iniziative o pensavano di restarne fuori.

Insomma: non basta l’integrazione economica interna (libero scambio, moneta unica), ma serve un’integrazione “politica”, che individui strategie, priorità, costi.

Intendiamoci: partire dall’integrazione economica e commerciale non è stato sbagliato.

Il primo vero mattone dell’Europa unita, dopo secoli di guerre fratricide, fu nel 1951 il trattato istitutivo della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), siglato da Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda, Lussemburgo (i Paesi allora guidati dai democratico-cristiani), ed entrato in vigore nel 1952. Ad esso farà seguito nel 1957 il trattato di Roma istitutivo della CEE (Comunità Economica Europea), il primo esperimento di “mercato comune” per la libera circolazione di persone, beni e servizi al di là dei confini nazionali.

L’integrazione economica è importante perché favorisce la conoscenza reciproca, il superamento delle diffidenze, ma anche perché fa nascere un’esigenza di collaborazione nel reciproco interesse. Si tratta di un’integrazione più “facile” di quella politica, perché i vantaggi che produce sono il frutto di un effetto moltiplicatore.
Le ricchezze dei popoli, infatti, non sono una quantità fissa che può essere diversamente distribuita, per cui qualcuno si può avvantaggiare solo a discapito di qualcun altro (è la vecchia e superata teoria dello sfruttamento). La ricchezza, piuttosto, può crescere esponenzialmente grazie alla libera iniziativa economica e all’ampliarsi dei mercati, con reciproco beneficio di tutti gli attori (si badi: lo sfruttamento può esistere, ma non è la legge generale dei processi economici, bensì un abuso da reprimere).

L’integrazione economica, però, è stata incompleta.

La crisi della finanza pubblica nei Paesi europei più indebitati ha investito l'euro, dimostrando che la moneta unica non è una panacea, se non è espressione di un'integrazione economica (fiscale, di bilancio) effettiva.

L’integrazione economica, inoltre, non basta.

La vita di una società non è fatta solo di economia. Esistono esigenze di sicurezza (interna e di difesa estera), di protezione sociale (previdenza, sanità), di istruzione, di libertà civili e democratiche, di solidarietà verso i più deboli, di diplomazia comune, di azioni economiche internazionali, ecc.
Anche il corretto funzionamento dei mercati economici, peraltro, non è spontaneo, ma richiede regole precise e iniziative politiche concrete.

La politica - la “scienza architettonica della pòlis”, la capacità di comporre le esigenze descritte (anche nelle questioni venute all’attualità in questi mesi: immigrazione, Libia, crisi finanziaria) - è un’esigenza ineliminabile.
Ne erano ben consapevoli i Padri dell’Europa unita – Schuman, Adenauer, De Gasperi -, i quali progettarono un cammino di integrazione europeo che doveva giungere ad un “edificio” comune con caratteristiche anche politiche.

L’integrazione politica è però più faticosa di quella economica
.

Il primo intoppo, infatti, nacque quando il tentativo di dare un nuovo impulso alla costruzione europea, mediante l’istituzione della CED (Comunità Europea di Difesa), venne bocciato nel 1954 dal nuovo Parlamento francese, in cui conquistarono un’ampia rappresentanza i gollisti (con impronta fortemente nazionalista).

Il fatto è che per garantire esigenze sociali non “produttive” (o non immediatamente produttive: alla lunga, ogni società stabile è anche economicamente più efficiente), è necessario fare qualche sacrificio, comprimere egoismi e particolarismi.

Proseguire in un cammino anche quando diventa faticoso, quando richiede sacrifici, è possibile solo se c’è una forte motivazione, coscienza della necessità di andare avanti, nonché una chiara consapevolezza della rotta da seguire.

Ad un’Europa politica, dunque, serve un idem sentire, un comune senso di appartenenza, che può essere recuperato solo nelle comuni radici culturali.
L’Europa “tecnocratica” ha sin qui eluso quest’esigenza. Anzi, gli effetti della globalizzazione sembrano aver indotto passi indietro, nella direzione di uno smarrimento dell'identità e dei valori europei.
Ma si tratta di un nodo destinato inevitabilmente a venire al pettine.

Se c’è senso di appartenenza comune, poi, può e deve esserci maggiore partecipazione democratica, con un ruolo rafforzato del Parlamento e nuove istituzioni che non siano percepite come estranee dai cittadini europei.

Senza mai dimenticare l’aureo principio di sussidiarietà (già assunto come fondamento dei trattati sull’Unione Europea), in base al quale all’ente superiore spettano solo quelle funzioni che non è in grado di esercitare l’ente locale più vicino alla persona. Un principio che consente ai singoli Paesi di conservare quelle tradizioni culturali e sociali che non interferiscono con le necessità dell’integrazione.
Troppo spesso, invece, abbiamo assistito ad istituzioni europee che, mentre latitavano nel costruire efficaci azioni politiche, capaci di risolvere problemi concreti, si davano però pena di effettuare azioni di indottrinamento ideologico.

Senza questi punti fermi, la costruzione europea è destinata a naufragare. E non per colpa degli “euro-scettici”, ma per colpa degli “euro-superficiali”.



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