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Arte - Luoghi, artisti, opere
Architettura: l’infatuazione "verde" Stampa E-mail
Quando l'ecologia è un feticcio ideologico o uno strumento di marketing
      Scritto da Mariopaolo Fadda
13/12/10

In un periodo in cui persino Hollywood e Wall Street mettono il verde all’occhiello, potevano gli architetti restare esclusi da questa nuova religione universalista?

Non vogliamo minimamente mettere in dubbio l’importanza della selezione di tecniche e materiali, la ponderatezza nell’utilizzo delle risorse.
Ma farci complici di ben orchestrati allarmismi no, questo proprio no.
E nemmeno fans di quel radioso esempio di mammolette ambientaliste quali sono i divi di Hollywood che, come ben noto a tutti: vivono in case fatte di mattoni crudi e tetto in paglia, leggono (quando leggono) a luce di candela, usano bagni senza acqua corrente, si lavano nel Los Angeles River e usano il calesse per spostarsi da un party all’altro. Una sorta di romantica comunità Amish. Eppure, le ‘banali’ contraddizioni tra il loro effettivo stile di vita e quanto proclamano non impediscono loro di essere in prima fila nel sostenere bufale e imbrogli ecologici di ogni genere.

Se Hollywood non brilla per lucidità mentale, ci pensano le teste d’uovo della World Commission on Environment and Development (ONU) a mettere ben in chiaro i termini del problema. Sin dal 1987 hanno chiarito cosa significhi “sostenibilità”: “Sviluppo sostenibile è lo sviluppo che viene incontro ai bisogni odierni senza compromettere l’abilità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni.”

Non è, come sembra convinto il critico americano James Steel, un compromesso tra crescita e non-crescita, ma è – nella sua pericolosa ambiguità - una dichiarazione di guerra alla cultura, alla città, all’architettura e a tutto ciò che suona permanenza.

Le prossime generazioni, infatti, per soddisfare integralmente i propri “bisogni”, potrebbero ritenere necessario fare a meno degli ingombranti retaggi della nostra generazione e reclamare, ad esempio, un ampio eco-sistema disantropizzato “dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno”.

Anche noi potremmo benissimo fare a meno di fardelli che i nostri avi ci hanno caricato sulle spalle. Venezia ne è l’esempio più emblematico.
Costruita nel V secolo d.C. per soddisfare i bisogni di un pugno di padovani fuggiti sulle isole della laguna per non cadere nelle mani degli invasori barbari, ha compromesso l’uso, alle generazioni successive, di uno dei più spettacolari insiemi naturalistici dell’intera penisola. Simile insulsaggine ci costringe ad uno spreco enorme di denaro ed energia per tenerla a galla, per controllare le maree, per riscaldarla d’inverno e rinfrescarla d’estate, per adeguare costantemente le infrastrutture fognarie, elettriche e telefoniche.
Ma non sarebbe più “sostenibile” raderla al suolo? Un passo importante per il benessere di Madre Terra. Anche se probabilmente sarebbe meglio che fosse l’intera Umanità a togliersi da mezzo le scatole, perché è proprio la specie umana il vero problema della sostenibilità, come dicono tra le righe i soloni del Palazzo di Vetro.

Che fanno gli architetti in simile contesto? Usano lo spirito critico e rifiutano l’omologazione? Prendono le distanze da simili retrocessioni culturali? Neanche per idea. Si mettono tranquillamente a rimorchio di catastrofisti e politicanti ciarlatani. Se il concetto di sostenibilità è quello che intendono i burocrati dell’ONU, c’è da chiedersi: perché tutto questo sbracciarsi a voler apparire “verdi”?

“La democrazia conosce fin troppo bene il peso insano e le contraddizioni della pubblica opinione irresponsabile, la verbosità cronica, l’inerzia dell’ignoranza, i pregiudizi delle intelligenze condizionate che prendono posizione a destra o a sinistra per l’interesse egoistico di cuori induriti, al posto della profonda fede nell’Uomo - necessaria a ispirare illuminazione per generosità di motivi - che la democrazia significava per i nostri padri e deve ancora significare per noi. Il buon senso della semplice verità insita in questa nuova-antica filosofia, dall’interno all’esterno, se si risvegliasse nella nostra società come si è risvegliato nella nostra architettura, assicurerebbe il giusto uso della tecnologia, per costruire un rifugio umano e un ambiente pieno di reverente armonia, sia socialmente che politicamente. Immediato ne sarebbe il riflesso politico.” (F. Ll. Wright)

Le stars dell’architettura hanno però ben poca voglia di meditare sulle sagge osservazioni di Wright. Vuoi perché non hanno troppo tempo per pensare, vuoi per affinità ideologica, vuoi per non apparire fuori moda, vuoi perché economicamente è un buon affare, sono diventate quasi tutte “verdi” doc. Sono diventate “verdi” non perché credono nell’approccio ecologico, ma perché il mercato e la lobby “verde” lo richiedono. E sono pronte a soddisfare queste richieste, naturalmente in una dimensione preferenziale: quella utilitaristica e quantitativa. Sono pronte, insomma a produrre oggetti “verdi” griffati. “L’architettura ‘verde’ o sostenibile - scrive David Pearson - si sta evolvendo rapidamente, troppo, ma c’è il pericolo che invece che l’avanguardia di un’architettura nuova, olistica, venga completamente presa in problemi di high-tech e di risparmio energetico. Pochi progetti eco-architettonici vanno oltre questi parametri, ad esplorare il mondo profondo dell’espressione spirituale e della forma organica, dove meraviglia e bellezza sensuale del mondo naturale sono combinate con i bisogni pratici di economia, efficienza e conservazione.”

Nella maggior parte dei casi, quindi, l’aspetto ecologico non è intrinseco al processo del fare architettonico contemporaneo, ma è appiccicato a posteriori per questioni di marketing.

Un esempio recente, ma non il solo, di simili oggetti “verdi” griffati è la piramide di Foster-Nazarbayev (1, 2).

“Gli edifici rettilinei non sono ideali edifici ‘verdi’ - scrive sempre David Pearson -. Mentre la maggior parte degli edifici è lineare, le leggi fisiche che governano la dinamica di fluidi, calore, luce, suono e forza sono per la maggior parte non-lineari... Gli edifici curvilinei, d’altra parte, funzionano in sintonia con la natura e consentono lo sviluppo di sagome e forme ottimali che sono più efficienti, economiche ed appropriate al clima e alle condizioni ambientali locali”.

Le forme aerodinamiche rispondono meglio all’azione del vento, basta guardare le macchine e gli aerei per rendersene conto. Un interno curvilineo consente una miglior distribuzione della temperatura interna, evitando angoli caldi e freddi. Constatazioni così semplici da sfiorare la banalità non possono giocare nessun ruolo nel farraginoso processo mentale della élite architettonica mondiale.

La Prairie House (1, 2), la Usonian House (1, 2, 3) di Frank Ll. Wright sono esempi che anticipano di decenni l’approccio organico all’ambiente: un approccio davvero "ecologico", nel più ampio senso di relazione tra essere vivente e ambiente, e quindi lontano dall'ambientalismo di facciata.

Wright, infatti, non era impegnato a progettare solo una casa che rispondesse alle condizioni climatiche del luogo, ma a mettere in atto un “processo ecologico dinamico” (James Steel), cioè un cambiamento continuo, come è cambiamento continuo la natura. Infatti la casa Usoniana non sarebbe dovuta rimanere statica, ma evolvere con lo scorrere della vita degli abitanti. Inutile aggiungere che Wright, con ben più profonda ispirazione degli odierni verdi doc, studiava con piglio la ventilazione naturale, l’esposizione, l’energia solare passiva, l’inerzia termica dei materiali. Taliesin West è il culmine, “ad un livello quasi mistico”, come scrive Steel, di questa nozione di unità tra uomo, tecnologia e natura.

La ricerca organica sopravvive solo grazie all’impegno di pochi individui isolati. Questi architetti, che si preoccupano ben poco della mondanità di burocratiche certificazioni, proseguono nella loro ricerca per un habitat in cui l’unità tra uomo, tecnologia e natura sia la componente fondante dell’intero processo progettuale. “Il nostro interesse nella sostenibilità – dice Thomas Rau - ci guida ad esplorare le possibilità di raggiungere il cosiddetto ‘edificio autonomo’, o, preferibilmente, un edificio che produca più energia di quanta ne consumi... Stiamo inoltre cercando di creare edifici che provvedano energia in senso non-materiale. L’idea basilare è chiara: un edificio in cui la gente si sente a suo agio dura più a lungo e quindi è più sostenibile. Questa qualità di durabilità è troppo spesso ignorata, e la sostenibilità si risolve intorno ad aspetti quantificabili, quali tecniche e materiali, dell’edificio... Siamo consapevoli della grave responsabilità verso i nostri clienti nel provvedere edifici di qualità non solo fisica ma anche sociale e spirituale”.

Un concetto di sostenibilità ben diverso da quello propinatoci dai soloni della World Commission on Environment and Development e sponsorizzato anche dalla Leadership in Energy & Environmental Design (LEED). Se guardiamo la checklist attraverso cui attribuisce le sue certificazioni – “certificata”, “argento”, “oro”, “platino” - non c’è nessun aspetto legato alla sfera psicologica e/o spirituale. Una gelida lista di aspetti fisico-tecnici-quantitativi per far felici gli oltranzisti. Prima o poi ci sarà, come per gli Oscar cinematografici, la notte delle premiazioni LEED, con tanto di tappeti rossi, dirette televisive, sfilate di stars e conigliette.

Da Robert H. Oshatz a Nicholas Grimshaw, da Javier Senosiain a Jacques Gillet, da Gregory Burgess a Kendrick B. Kellogg, per fare qualche nome, arriva invece una lezione di umiltà, di intima aderenza all’ecologia umana di chi ha ancora “il buon senso della semplice verità”. Non si vendono per assicurarsi un posto al fianco dell’ “interesse egoistico di cuori induriti”, ma perseguono la loro ricerca architettonica con autonomia di spirito e serena creatività.

Architetti che non conquistano le prime pagine dei quotidiani o le copertine patinate delle riviste d’architettura della nuova “razza ariana”, ma che, con la loro fede nei valori duraturi dell’architettura, fanno si che questo fiume carsico sia sempre pronto a riemergere in superficie quando la disciplina sembra condannata a morte dal tradimento dei chierici.

Iniziative quali quelle di Builders without Borders, Architects without Borders, Architecture for Humanity, per certi versi encomiabili, scadono troppo spesso, per l’ossessione del politically correct, nel mito del buon selvaggio.
La litania che la saggezza tradizionale dei popoli indigeni sarebbe rispettosa e vivrebbe in armonia con l’ambiente è una sciocchezza. La rivoluzione agricola in Mesoamerica e in Oriente ha provocato lo scombussolamento di interi sistemi collinari, con la creazione di terrazzamenti adatti alla coltivazione; l’allevamento del bestiame, in paesi come Scozia, Sardegna, Nuova Zelanda, ha significato la distruzione di enormi aree boschive. Se oggi qualcuno si azzardasse a proporre la riforestazione di queste aree o il ripristino dei pendii scoscesi delle colline cinesi finirebbe diritto alla neuro.

Posto che ormai oltre metà della popolazione mondiale vive in ambiti urbani, che la stragrande maggioranza di essa vive in squallidi tuguri e che la tendenza non conosce regressioni di sorta, posto anche che sono questi insediamenti che bruciano un’enorme quantità di risorse naturali e che producono la quasi totalità dell’inquinamento fisico-psicologico, ci chiediamo a cosa possa servire incoraggiare un pugno di malinesi o thainlandesi a mantenere la loro arcaica tradizione costruttiva. Il problema dei senza-tetto e di quelli che vivono negli slums non può certo essere affrontato su queste basi, e tanto meno con la demonizzazione della tecnologia occidentale.

Se per risolvere il problema dei 600 milioni di senza-tetto e di quelli che vivono al di sotto della decenza dovessimo ricorrere ai sistemi costruttivi tradizionali, ci sarebbe davvero una catastrofe. Quante nuove cave si dovrebbero aprire, per esempio, per estrarre il calcare necessario alla produzione della calce? Oppure c’è qualche ingenuo che pensa di risolvere il tutto con le balle di paglia o con i mattoni crudi di fango e paglia?

La più abbondante, rinnovabile e biodegradabile risorsa al mondo è il legno, ma è anch’essa soggetta al diktat degli oltranzisti, che paventano catastrofici scenari se continuiamo ad usare il legno. Anche qui siamo semplicemente alla mancanza non di dati scientifici, ma del buon senso comune.

Il direttore generale del WWF, Claude Martin, sosteneva nel 1996 che nei paesi industrializzati era in atto una massiccia deforestazione, dovuta al commercio del legno, mentre secondo la FAO la superficie occupata dalle foreste nei paesi industrializzati sta crescendo al ritmo dello 0.2%.

“Le foreste sono stabili o stanno crescendo dove la gente usa soprattutto legno – dice Patrick Moore - e stanno diminuendo dove è usato meno. Quando usiamo legno, stiamo inviando un messaggio al mercato di piantare più alberi e produrre più legno. Il nord America usa, pro capite, più legno di ogni altro continente e c’è la stessa superficie di foresta che c’era 100 anni fa”.

Occorre quindi porre all’ordine del giorno, senza ulteriori indugi, un approccio olistico alle tecnologie contemporanee nella conformazione dell’habitat, cioè un approccio completo in termini materiali, psicologici e spirituali e non limitato agli aspetti puramente e rozzamente utilitaristici (cosa distinta da una certa “architettura olistica” contemporanea, che – nel rimando a pseudodiscipline come il feng-shui - rivela un approccio prettamente neo-pagano, dove la natura  - da adorare - predomina sull’uomo - l’adoratore). Bisogna abbandonare atteggiamenti demonizzanti, luddistici e moralisti. Occorre rileggere, senza paraocchi, la lezione dell’architettura organica in generale e quella di F. Ll. Wright in particolare, e da lì ripartire “per costruire un rifugio umano e un ambiente pieno di reverente armonia, sia socialmente che politicamente”.



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