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Focus TV - Notizie e commenti
Sul diritto di replica Stampa E-mail
L’attuale struttura dei talk show televisivi trasforma il diritto di replica da cura in veleno
      Scritto da Simone Arseni
29/11/10

Alla faziosità dei programmi di informazione politica si risponde con atti di limpida prepotenza.
La prepotenza del potere è analizzata attraverso programmi di informazione faziosi.

Cosa è peggio, la faziosità o la prepotenza? Chi sbaglia di più, l’ospite (quando non il conduttore) fazioso o il politico prepotente? È più scorretta la faziosità, che è prepotenza velata, oppure la prepotenza, che è faziosità dirompente?

A queste domande, la televisione pubblica italiana, ad oggi, non ha rischiato una risposta. Ha solo fornito dei campi di battaglia sui quali faziosità e prepotenza possono scontrarsi e autoalimentarsi. Insomma, per non essere scorretti, si è data ad entrambi gli istinti la possibilità di esprimersi secondo il nobile schema della par condicio. Credo sia questa la genesi di programmi televisivi come Porta a Porta, Ballarò o Annozero. Persino la disposizione degli ospiti, in questi programmi, rievoca lo schieramento di eserciti contrapposti: il centro destra alla destra dei teleschermi e il centro sinistra rigorosamente alla sinistra (dovesse confondersi il povero spettatore).

Nel corso di questa annosa battaglia tra schieramenti nemici, sono sorte delle leggi non scritte, una sorta di ius in bello, una giustizia parallela valida di fronte agli spettatori. Lo strumento eletto da questa giustizia, nonché il meno contestato, è il diritto di replica, ovvero la possibilità di controbattere a tesi parziali e opinabili con argomenti altrettanto opinabili e parziali.

Il contraddittorio è uno strumento derivato dal diritto penale, e caratterizza la fase dibattimentale di un processo. Scrive Franco Cordero in Procedura penale: “il concetto di dibattimento come rito accusatorio implica che i protagonisti siano i contraddittori e cioè le parti, due delle quali sono necessarie: non è concepibile, infatti un dibattimento senza gli uffici dell’accusa e della difesa; quello che fosse celebrato senza l’uno o senza l’altro sarebbe viziato di manifesta nullità”. Tale principio è sancito anche a livello costituzionale dall’art. 111, che al secondo comma recita: “ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità” e aggiunge “davanti a un giudice terzo e imparziale”.

Nella strutturazione di alcuni programmi televisivi si è dunque stabilita una singolare simmetria tra informazione pubblica e fase dibattimentale di un processo. Credo sia opportuno evidenziare l’infondatezza e la pericolosità di un simile parallelo. Esso è tanto più pericoloso quanto più il dibattito televisivo pretende, in virtù di questo accostamento, di assurgere a parametro di giustizia e completezza informativa. La fase “dibattimentale” del talk show, infatti, non è preceduta da alcuna fase “istruttoria” (ossia alla raccolta delle prove di reato – o degli elementi a discarico degli indagati - da parte dell’accusa e della difesa).

Uscendo dalla metafora delle dinamiche processuali, i dibattiti televisivi pretendono di imitare un canone di giustizia processuale che vuole essere obiettivo, ma finiscono per somigliare più a una resa dei conti, a un duello di tipo medievale, dove, in assenza del giudice terzo, l’onore personale va difeso con la spada.

Il dibattito non fornisce al cittadino/spettatore, che dovrebbe essere il giudice terzo, alcun elemento empirico per valutare oggettivamente le opinioni dei politici. Ed è qui che l’accostamento del dibattito televisivo alle dinamiche processuali si fa pericoloso: non esiste una fase istruttoria che fornisca al cittadino elementi oggettivi di valutazione. Questa fase è lasciata alla volontà o alla pigrizia dei singoli.

In poche parole: chi si interessa al tema del dibattito in maniera assidua e per proprio conto può ascoltare e giudicare criticamente le opinioni litigiose degli ospiti tv; chi invece guarda i talk show senza conoscere bene il tema che trattano rischia di illudersi soltanto di essersi informato, mentre non fa che aderire all’interpretazione altrui di fatti poco chiari. Ed è tristemente risaputo che l’orientamento politico di gran parte degli italiani si forma sulla base dei dibattiti televisivi, e dei servizi di telegiornale (che spesso ricalcano lo stesso schema del dibattito).

Il diritto di replica, inserito in un simile sistema, non fa che confondere le acque, rinsaldare gli opposti schieramenti, approfondire la parzialità delle analisi  - la faziosità delle argomentazioni è quasi legittimata: “tanto c’è il diritto di replica!” -, non lasciando altra alternativa che la squallida adesione al partito dei prepotenti, al sindacato dei faziosi o alla grande famiglia dei vittimisti colpiti dall’altrui ingiustizia.

Un altro errore comune che commette colui che rivendica a sé il diritto di replica è quello guardare alla sua negazione come a un attentato alla libertà di espressione. Nulla di più falso. Viene, anzi, da pensare che laddove il diritto di replica si sostanzia esclusivamente nel diritto di negare le tesi dell’interlocutore, sopprime e non supporta il diritto di espressione. Un sistema che legittima tutte le tesi mentre e perché consente di ribattere a ogni tesi è un sistema che chiude ogni dibattito in una nicchia dalla quale non è in grado di uscire, e anzi trasforma ogni dibattito nel regno del relativismo assoluto. L’unica vittima di un simile sistema è il cittadino, che si vede negato il diritto ad essere informato.

Oggi l’informazione attraverso dibattito televisivo, pur avvalendosi di alcuni strumenti tipici del diritto moderno, pur facendone il mimo, ha i caratteri tipici dell’autodifesa e della vendetta, e aggira, dunque, gli schemi del diritto moderno per tornare alle dinamiche di un hobbesiano stato di natura in cui il principio “homo homini lupus” è trasposto sul piano verbale e raggiunge l’unico risultato di trasmettere allo spettatore quella che chiamerei un’opinione impressa.

In breve, il diritto di replica non deve considerarsi come un male in sé.
Lo diventa, però, quando viene utilizzato per giustificare un sistema di informazione che confonde e maltratta il bisogno di sapere dei cittadini, che non si pone impegni di responsabilità, obiettività e completezza
.
Se proprio si vuole scegliere il meccanismo processuale come riferimento per la costruzione di programmi televisivi, sarebbe opportuno che somigliassero più a una fase istruttoria, cui si aggiunga l’elemento della “pubblicità” (carattere pubblico) e dell’oralità, tipico della fase dibattimentale. Un’istruzione (nel senso di fase istruttoria) coram populo.

Senza un simile cambiamento di paradigma, e quindi senza un’emancipazione della televisione dalla politica, il diritto di replica perde la sua dimensione curatrice per trasformarsi in veleno, smette di affiancare e supportare il diritto di espressione per sopprimerlo, cessa di essere rimedio a un’informazione parziale dei cittadini per gettarli nel labirintico regno del “tutto relativo”.



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