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Notizie - Attualità e Costume
Saviano: buon giornalista, pessimo messia Stampa E-mail
Il coraggio nelle battaglie sulla legalità non giustifica superficialità e supponenza su altri temi
      Scritto da Francesco Cassani
29/11/10

Roberto Saviano è indubbiamente un giornalista coraggioso. Ma questa qualità, da sola, ne può fare un oracolo della cultura e della politica?

Il coraggio e la virtù civile di Saviano sono indubbi. Ha accusato la camorra con nettezza e con precisione, facendo nomi e cognomi, denunciando collusioni sulla base di fatti. Queste denunce gli hanno procurato minacce di morte serie, che rendono necessaria una continua custodia da parte di una scorta.

Certamente, è diventato ricco e famoso (ora ha anche l’agente televisivo). Ma questa considerazione non può squalificare il suo coraggio: una vita blindata non è il modo migliore per godersi ricchezza e fama.
Se Saviano fa affermazioni che non condividiamo, quindi, possiamo – e dobbiamo – criticarlo, evitando però di scadere nel deprezzamento totale del suo operato o nelle facili etichettature.

Dobbiamo però evitare di cadere anche nell’eccesso opposto (lo dovrebbe evitare Saviano stesso): ritenere che il coraggio, o il gusto per la denuncia giornalistica, siano di per sé la patente di infallibilità per salire sul pulpito della denuncia culturale e politica.

Parlare di cultura e di politica è lecito a chiunque, figuriamoci. Ma dire cose intelligenti e profonde su temi vasti e impegnativi (economia, finanza, diritto, religione, bioetica, ambiente, ecc.) è impresa alla portata di pochi, che richiederebbe grande umiltà, voglia di mettersi in discussione, di documentarsi, di studiare, di interpellare fonti diverse (e, possibilmente, una cultura di vasto respiro, che non si improvvisa).

Saviano più di tutti avrebbe bisogno di un bagno di umiltà, sia nei contenuti sia nei toni.
Per la popolarità raggiunta, che dovrebbe indurre ad un più di responsabilità.
Ed anche perché l’abitudine ad esprimere opinioni utilizzando lo strumento della “denuncia” rischia di confondere in uno stesso calderone i suoi bersagli: feroci criminali, e umili – quanto tenaci – difensori della vita.

Già in Gomorra si leggeva tra le righe qualche “ingenuità” ideologica (vogliamo essere gentili) nel Saviano "economista", quando ad esempio sosteneva che “Tutte le merci hanno origine oscura. È la legge del capitalismo” (p.25), o che “La logica dell'imprenditoria criminale, il pensiero dei boss coincide col più spinto neoliberismo” (p.97). In queste affermazioni si sposano una scarsa conoscenza delle teorie economiche e una preoccupante tendenza a criminalizzare idee diverse.

In Vieni via con me Saviano si è prodotto in un’escalation di superficialità (nei contenuti) e di supponenza (nei toni) nell’affrontare il tema dell’eutanasia, giungendo ad un capovolgimento della realtà: quanti si sforzano di sostenere i deboli, i malati che vivono in una condizione di abbandono sociale, vengono fatti passare per “prevaricatori”, che negano ad altri la “libertà” di morire (cioè la scelta disperata di chi si sente abbandonato da una società che vuole disfarsi di lui, una società che anziché aiuto offre la “libertà” di togliere il disturbo).
Ai presunti “prevaricatori”, ovviamente, non è offerta la parola, né pare che Saviano si sia mai preso la briga di ascoltarne con attenzione le ragioni o di affrontare con serietà la materia della bioetica.

Saviano, alle lacune già evidenziate, ne aggiunge di preoccupanti quando si improvvisa giurista (seguire la cronaca giudiziaria non è la stessa cosa).
Parlando di Welby, Englaro e Coscioni, invoca con enfasi il “diritto”, confondendone le varie accezioni: pretesa giuridica soggettiva, ordinamento giuridico, “giustizia”. E dimenticando, peraltro, che le pretese delle persone indicate, sostenute dai radicali, sono state pretese contro il diritto – inteso come ordinamento normativo - costituito, contro la “legalità” tanto invocata, in quanto tese a costruire un nuovo diritto, una nuova legalità.

Saviano si improvvisa poi - maldestramente - teologo quando critica la negazione dei funerali a Piergiorgio Welby, offrendo riflessioni ardite del tipo: "Ti viene voglia profonda, anche se non sei religioso, di credere in un Dio (?!), che sicuramente, da qualche altra parte, è disposto ad aprire porte, piuttosto che chiuderle". Ohibò! 
Anche qui: i funerali religiosi non sono un “diritto” civile, ma un rito officiato dalla Chiesa secondo le sue regole; che possono apparire incomprensibili (anche con l’impudenza di fare paragoni con i funerali officiati per altri personaggi considerati immeritevoli) a chi non si dia la pena di interrogarsi sul loro significato. Magari potrebbe essere più utile interpellare la parte in causa, e rinunciare alla curiosa smania di spiegare alla Chiesa che cosa deve fare per essere cristiana...

Saviano fa cadere le braccia anche come filosofo (e qui siamo ancora più preoccupati, perché è laureato in Filosofia), quando definisce Giordano Bruno un “faro del pensiero”.
Bruno era un gran furbacchione, che cercò potere nelle corti europee presentandosi come mago e iniziatore di una nuova religiosità egizia, millantando, ricattando, manipolando, facendo il doppio gioco. Intendiamoci: non per questo meritava il rogo. Ma farne un “faro del pensiero”…

Saviano ha sposato, su questi temi, i luoghi comuni della sinistra post-sessantottina, anche se non proviene da quella cultura.
E li ha sposati anche con l’atteggiamento: predicatorio, ieratico, ultimativo, non sembra ammettere né concepire orizzonti diversi.

Peraltro, parlando di eutanasia, rinuncia agli argomenti e sceglie la "narrazione", cioè si rifugia nel sentimentalismo, cerca di far passare alcune azioni come insindacabili in quanto si pretendono dettate dall'amore.

Perché ha compiuto questa scelta?
È stato spinto tra quelle braccia da una certa destra che troppo affrettatamente lo ha etichettato come avversario politico?
Ha pensato che “Parigi val bene una messa”, cioè che può essere utile lasciarsi strumentalizzare politicamente, se ciò gli vale la possibilità di levare più alta la propria voce a difesa di battaglie che gli stanno più a cuore?
O forse crede fino in fondo in quello che dice, e nella necessità di utilizzare i toni messianici che usa (e quindi la “cultura” della sinistra radicaleggiante, se non è stata la sua partenza, è divenuta il suo approdo)?

Nessuna delle risposte possibili ci rasserena. E ci dispiace, perché se Saviano getta discredito su se stesso, rischia di danneggiare anche la parte meritoria delle sue battaglie.



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