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Arte - Luoghi, artisti, opere
Architettura contemporanea. Tra divismo, cinismo e ipocrisia Stampa E-mail
La qualità dell’ambiente urbano non è più un impegno etico
      Scritto da Mariopaolo Fadda
18/10/10

Rem KoolhaasL’architettura e gli architetti che contano sono, da qualche tempo a questa parte, sotto i riflettori. Se ne occupano la grande stampa, i programmi televisivi, i talk-shows. Strati sempre più ampi di cittadini dimostrano interesse per una disciplina che, nel bene o nel male, dà forma all’ambiente fisico in cui vivono, lavorano, studiano, pregano, si divertono. Si direbbe che l’architettura, nelle sue espressioni intellettuale e professionale, scoppi di salute. Non è esattamente così.

L’architettura contemporanea ha ormai imboccato la strada della spettacolarità fine a se stessa dove trionfano gli effetti speciali e il divismo più repellente. Un pericolo avvertito con decenni di anticipo dal più grande architetto del XX secolo, Frank Lloyd Wright: “Sembra ormai che oggi gli architetti non abbiano altro che una cosa in comune, qualcosa da vendere: per l’esattezza, se stessi. Ovviamente, ciò che viene venduto, in definitiva, non può essere altro che l’architetto. L’architettura non è in loro”. Un’accusa implacabile che aveva come obiettivo l’ideologismo dell’architettura funzionalista europea e l’anonimità dell’International Style, ma validissima anche nei confronti dell’architettura contemporanea.

Il funzionalismo europeo era arroccato su due slogans: “La forma segue la funzione” e “Il meno è il più”. Furono usati contro l’ornamento e i revivals storicistici nel tentativo di semplificare la produzione edilizia, che però è sfociato negli scatoloni in vetro e acciaio dell’International Style, deprivando l’habitat umano dei suoi valori psicologico-spirituali.

Dopo un breve intervallo - negli anni a cavallo tra il 1970 e il 1980 - dominato dalle regressioni storicistiche del post-moderno, l’architettura moderna sembrava stesse riprendendo la strada maestra tracciata da Frank L. Wright e dagli espressionisti europei, con un fiorire di nuove idee e nuovi approcci.
Invece era solo una corsa - dei vari Libeskind, Koolhaas, Foster, Hadid - a servire il potere economico-politico e a riverire ristrette élites mondane. Ossessionati dalla “novità” a tutti i costi, progettano con l’intenzione di creare edifici scioccanti e stravaganti per saziare gli appetiti di colleghi e critici amici, non certo per venire incontro alle esigenze di strati più ampi di cittadini.

Un’agghiacciante esibizione di divismo, cinismo e ipocrisia che non ha eguali se non in campo hollywoodiano. Architetti che avevamo salutato come innovatori, come menti creative, si sono trasformati, in poco tempo, non solo in divi mediatici, ma in intoccabili icone.

Come reagisce Daniel Libeskind alle critiche di Muschamp (all’epoca critico di architettura del New York Times) al suo progetto per Ground Zero? Con una sfilza di insulti via e-mail che, benchè non imputabili a lui personalmente, partono però dal suo studio. Come reagisce Rem Koolhaas alle critiche di Philip Nobel? Con una telefonata isterica al numero di casa del critico. E Lord Norman Foster alla richiesta dell’autorizzazione a pubblicare immagini del suo progetto per Ground Zero? Con un secco no, stizzito perché non ha vinto. Cosa fa Gehry? Invia t-shirts con la scritta “Fuck Frank Gehry” ai critici che dissentono. Koolhaas va ben oltre: propone il boicottaggio dei concorsi perché non gli consentono di vincere a suo piacimento. Estromesso dal discusso e discutibile concorso per la sede centrale della compagnia petrolifera russa Gazprom, a San Pietroburgo, lancia fuoco e fiamme contro il sistema dei concorsi e chiama le altre superstars dell'architettura - le cosiddette "archistars" - al boicottaggio. “Sono ora impegnato in una campagna per convincere il mondo che questo tipo di concorsi è senza speranze…”; una frase che suona come un’offesa sulla bocca di uno che su questo sistema dei concorsi ha costruito la propria fama e la propria fortuna. Un sistema corrotto dall’ingordigia di un’arrogante élite di prime donne, coccolate dai media e detestate da quel mondo che l’architetto olandese vorrebbe convincere della bontà della sua ipocrita campagna moralizzatrice.

La Cina, con spregiudicata apertura liberista e sfruttando la potenza mediatica delle Olimpiadi, decide di “agganciare” la locomotiva dell’architettura moderna? Nessun problema. Gli architetti occidentali, sempre pronti a sbeffeggiare le distorsioni dell’occidente democratico, non si fanno scrupolo di dare copertura ideologico-culturale a questo “balzo in avanti” dell’oligarchia al potere. Guarda caso l’edificio simbolicamente più significativo, la nuova sede della TV cinese, è stato progettato da Koolhaas, il Moralizzatore. Non meno deprimente lo spettacolo offerto dai critici tutti intenti ad illustrare, nelle loro patinate riviste, le qualità formali del bastione della propaganda di stato. Un esempio di viltà intellettuale da incorniciare tra le aberrazioni dell’epoca della “ragione”.

“L’architettura è come il tennis, c’è un piccolo gruppo che gioca ad Wimbledon e il resto nei campi di quartiere. Non si può dire che nei campi di quartiere non giochino grossi tennisti”, dice Allan Temko. Tra i "tennisti" di quartiere, gli emarginati, i paria di una disciplina che si pavoneggia “umanistica” e “liberale” serpeggia però aria di rivolta. Sotto la patina risplendente del successo si nasconde l’inquietudine di chi rifiuta l’esibizionismo mondano delle stars, l’intellettualismo élitario, l’irresponsabilità sociale, la rapacità professionale. Come se non bastasse, anche i cittadini cominciano a mostrare segni di un’insofferenza che non può essere liquidata con un’alzata di spalle. “Oggi l’architettura – scrive Nicolai Ouroussoff, critico d’architettura del New York Times – è riverita come fatto estetico, non come forza sociale.”

L’insensibilità - ma sarebbe meglio dire l’irresponsabilità - sociale degli architetti più affermati (e non) trae origine dalla débâcle della pianificazione burocratica, delle politiche di mummificazione dei centri storici e dal riciclaggio selvaggio di ambiti urbani degradati.

La pianificazione territoriale elevata al ruolo di culto, soprattutto da forze che si riconoscono a sinistra, ha preteso di calare un modello di organizzazione del territorio dall’alto verso il basso, dove una ristretta cerchia di politici e intellettuali affini si è fatta carico di stabilire regole che, emarginando la partecipazione dei cittadini, hanno concentrato nelle mani di rapaci oligarchie il processo pianificatorio.

Anche la convinzione che le forze di ispirazione socialista fossero in grado di garantire una pianificazione corretta, equilibrata, giusta si è dimostrato un mito. E i miti, si sa, sono duri a morire. Corruzione, speculazione, abusivismo sono gli effetti perversi di questo processo statal-paternalistico. La cosiddetta partecipazione democratica si è risolta in una messa in scena dominata da gruppi di potere organizzati intorno ai partiti, ai sindacati, alle lobbies finanziarie, la cui unica preoccupazione era solo quella di garantirsi una fetta della torta. E alla spartizione non potevano mancare le superstars della professione che con spregiudicatezza e cinismo la giustificano “Stiamo ora lavorando ad un progetto in Cina – dice Rem Koolhaas – un Paese che è ancora, checché ne dica la gente, comunista. Comunismo non nella forma di slogans maoisti ma in quello dello stato e, particolarmente, uno stato che può ancora avere un progetto. In America ed in Europa, lo stato non ha più un progetto e questo ha portato al ridimensionamento del ruolo dell’architetto...” Ouroussoff si chiede se queste superstars non “abbiano fatto un patto con il diavolo, compromettendo i loro valori in misura sempre più consistente”.

Gli architetti meno disposti a muoversi e ad agire in questa palude affaristica si sono ritirati dall’agone per tornare a coltivare in modo esclusivistico la disciplina. I cittadini, sempre più restii ad accettare passivamente decisioni calate dall’alto, si sono ritrovati così tra l’incudine della voracità delle lobbies economico-politiche e il martello dell’estraniamento dei professionisti non asserviti.

Siamo ben lontani da un impegno etico-intellettuale che prenda di petto il problema di un’architettura per il “piccolo uomo”, come diceva Alvar Aalto, di un’architettura di qualità che al basso costo associ quei valori profondi, quei valori di sacralità che hanno animato i costruttori degli ziggurat così come quelli dell’Acropoli, delle cattedrali gotiche come del Machu Picchu, del giardino Zen come di Stonhenge, delle abitazioni hogan dei Navajo come dei villagi Dogon. Aspetti sacrali che, rivisti con occhi contemporanei, possono fornire un valido antidoto alle gelide utopie della “forma segue la funzione” che hanno devastato esteticamente, psicologicamente e spiritualmente il nostro habitat.

Aveva perfettamente ragione Wright quando affermava: “La sola cosa sbagliata dell’architettura sono gli architetti”.



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