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Cinema - Recensioni e Profili
"Fino all’ultimo respiro" Stampa E-mail
Il capolavoro di Godard tra coerenza e innovazione
      Scritto da Simone Arseni
20/09/10

Fino all'ultimo respiro  
di Jean-Luc Godard
Francia 1960


Film decisamente innovativo per quanto riguarda le tecniche di ripresa e l’organizzazione della messa in scena nelle diverse sequenze, Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, girato nel 1960, rappresenta forse la colonna vertebrale della Nouvelle Vague francese (il movimento cinematografico che si affermò in quegli anni).

Grazie ad alcuni accorgimenti tecnici (tra gli altri: la frammentazione visiva; l’eliminazione dei raccordi; l’espediente del jump cut, cioè del taglio di una parte centrale di una scena, che dà l’idea del “salto” temporale), Godard riesce a rendere perfettamente “l’idea di estraneità o di opposizione al mondo del soggetto protagonista” (Paolo Bertetto, La libertà e il nulla, Biblioteca Marsilio, 2003, p 195), pur costruendo uno spazio filmico fluido.

Il protagonista del film è Michel (interpretato da Jean-Paul Belmondo), un poco di buono che si guadagna da vivere rubando e rivendendo automobili. Dopo l’ennesimo furto, durante la fuga, uccide un poliziotto. È un omicidio tanto estemporaneo da apparire irreale. Un omicidio cui non si dà alcun peso narrativo, ma che condiziona inevitabilmente il decorso successivo degli eventi.

Viene alla mente Lo straniero, il celebre romanzo di Albert Camus, nel quale Mersault, un giovane impiegato di Algeri, si trova coinvolto in una lite e uccide un arabo con cinque colpi di pistola. Segue un processo per omicidio che il protagonista vivrà come estraneo ai fatti, come inquilino di sé stesso, senza rimorsi e senza pentimenti. In un brano essenziale del libro, il giudice del processo, con un crocifisso nella mano, dice privatamente a Mersault:
“Non ho mai  visto un’anima più incallita della tua. I criminali che sono venuti dinanzi a me hanno sempre pianto di fronte a questo simbolo del dolore”.
E Mersault pensa tra sé:
“Stavo per rispondere che era precisamente perché si trattava di criminali. Ma poi ho pensato che anche io ero come loro”.

Altra riflessione significativa è quella in cui il protagonista, dalle mura della prigione, pensa:
“Al principio della mia detenzione la cosa più dura è stata che avevo pensieri di uomo libero. Per esempio mi veniva voglia di essere su una spiaggia e scendere verso il mare […]. Ma questo durò poco. In seguito ebbi pensieri di prigioniero […]. Ho pensato spesso, allora, che se avessi dovuto vivere dentro un tronco d’albero morto, senz’altra occupazione che guardare il fiore del cielo sopra il mio capo, a poco a poco mi sarei abituato”.

La scarsa coscienza della propria condizione unita alla rinuncia ad ogni forma di lotta e passione. Ciò che vince il dolore, la sofferenza, è l’abitudine a quel dolore e a quella sofferenza. Manifesto dell’esistenzialismo, l’opera di Camus ha effettivamente influenzato la regia di Godard.

Così Michel è simile a Mersault, privo di una reale profondità psicologica e schivo rispetto alle grandi passioni. A spingerlo all’azione è una sorta di inerzia, un’apatica necessità. Non vi sono grandi ideali né grandi sentimenti. Deciso a fuggire verso Roma con la splendida Patricia, un’aspirante giornalista dal forte accento americano che vive e lavora a Parigi, egli le propone di seguirlo, ma incontra la resistenza riflessiva e un po’ timorosa della giovane. I due protagonisti rappresentano tipologie umane contrapposte e inconciliabili. Lui ha un amore quasi futurista per l’azione, la risolutezza del carattere, l’indole coraggiosa. Questo carattere emerge molte volte nel film. Due esempi su tutti:
“Le donne amano le mezze misure. A me questo mi deprime”.
O ancora, quando Patricia gli chiede cosa sceglierebbe tra il nulla e il dolore, egli risponde:
“Il dolore è idiota. Io scelgo il nulla. Non è meglio, ma il dolore è compromesso. O tutto o niente”.

Assai diverso, più femminile, è l’atteggiamento di Patricia, fortemente intrecciato alla paura di compiere una scelta avventata che potrebbe rivelarsi fallace. Patricia desidera scegliere in base a ragionamenti e sentimenti certi, ma non saprà risolversi in maniera definitiva tra l’amore per Michel e il bisogno di alleggerirsi la coscienza denunciandolo alla polizia.

In un certo senso i due protagonisti rappresentano l’azione e l’inazione, e si incontrano sul terreno dell’esistenzialismo di matrice sartriana. Il non-senso della vita, l’impossibilità di individuare una finalità ultima delle azioni umane, la sensazione che tutto sia illusione, gioco di specchi in attesa del nulla, è un’idea abbracciata da Godard e perfettamente riprodotta nei dialoghi e nei rapporti tra protagonisti.

Tuttavia, pur nell’inutilità di ogni azione, nel non senso del quotidiano, nel perenne ed eterno sforzo dell’uomo per condurre il proprio macigno in cima alla montagna (come il mito di Sisifo insegna), i protagonisti mantengono un’intrinseca coerenza di comportamento.

Michel preferirà effettivamente il nulla della morte al dolore del tradimento, così come Patricia non saprà risolversi e, pur denunciando Michel alla polizia, gli correrà dietro con sguardo apprensivo e contrito fino agli ultimi passi della sua inutile fuga.

Insomma, il film di Godard è un capolavoro di coerenza e innovazione condensate in una storia breve, semplice e apparentemente priva di risvolti filosofici.



Giudizio Utente: / 5

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