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Economia - Notizie e Commenti
"Privatizzare" l'acqua? Stampa E-mail
I problemi legati alla distribuzione di acqua, i possibili rimedi, le polemiche sul "decreto Ronchi"
      Scritto da Giovanni Martino
03/05/10
Le perdite delle condutture d'acqua...
Le perdite delle condutture d'acqua...
L’acqua è uno dei beni primarî, e la sua scarsità è il problema principale di molte aree depresse del pianeta. Al punto che da molti analisti viene ormai definita “oro blu”, e si teme che la lotta per il controllo delle fonti di approvvigionamento costituirà in futuro occasione di sempre maggiori conflitti.

La situazione italiana, per fortuna, non è così grave, grazie al fatto che siamo un Paese ricco di risorse idriche. Eppure esistono situazioni di carenze settoriali, legate anche a sprechi e inefficienze.


I problemi

Una di queste carenze riguarda l'agricoltura, nei periodi di scarse precipitazioni. E qui bisognerebbe intraprendere quelle soluzioni (sistemi di irrigazione "goccia a goccia", ecc.) - che abbiamo esaminato in altro articolo - utili per i Paesi in via di sviluppo.

Un'altra carenza riguarda alcune zone dell'Italia meridionale, in cui maggiori sono le dispersioni dovute alla fatiscenza degli acquedotti e agli allacci abusivi. In questo caso servirebbero maggiori controlli e notevoli investimenti di ammodernamento della rete distributiva. A metà degli anni '80 si investivano 4.000 miliardi di lire (2,3 miliardi di euro) l’anno per la manutenzione degli acquedotti . Attualmente s’investono 700 milioni di euro l’anno, nonostante le perdite degli acquedotti italiani siano aumentate, raggiungendo il 42 per cento dell’acqua trasportata.

Infine, c'è il problema legato agli sprechi: uso dell'acqua potabile per scarichi domestici, per innaffiare giardini, abitudini poco corrette (acqua lasciata scorrere mentre ci si lava i denti, ecc.).


Le soluzioni

La necessità di combattere gli sprechi passa attraverso una campagna di informazione e di educazione, nonché - non sembri uno scandalo - attraverso una politica tariffaria a scaglioni di consumo, che penalizzi maggiormente i consumi eccessivi (salvaguardando, naturalmente, gli usi standard, e tenendo conto del numero di persone che si servono di un'utenza). A Berlino (non in una città nordafricana...), l’acqua costa 4,30 euro al metro cubo (mille litri). In Italia le tariffe medie sono inferiori a 1 euro il metro cubo; il consumo pro capite, ovviamente, è doppio di quello berlinese. In poche città del mondo si registrano tariffe del servizio idrico integrato (acqua potabile + fognatura + depurazione) basse come le nostre.

Gli incrementi tariffarî, oltre a colpire gli sprechi, dovrebbero consentire di reperire le risorse per gli investimenti necessarî ad ammodernare gli impianti di distribuzione.
Gli incrementi tariffarî, peraltro, possono avere la capacità di suscitare investimenti indiretti, utili ad esempio all’ammodernamento degli impianti di irrigazione. Investimenti che le imprese agricole non fanno, perché trovano sinora più conveniente usare senza cautele l’acqua disponibile a poco prezzo, salvo invocare lo stato di calamità naturale (e i relativi rimborsi) nei periodi siccitosi...


"Privatizzare" la gestione?

Chi può realizzare le politiche descritte?

Le campagne di informazione e di educazione, ovviamente, sono innanzitutto compito delle strutture pubbliche. Qui basterebbe un po’ di buona volontà.

Più complesso è il discorso legato all’ammodernamento degli impianti e all’eliminazione degli sprechi. Interventi per i quali servono, come detto, grossi investimenti diretti e politiche tariffarie adeguate.

Nel nostro Paese la rete distributiva è parcellizzata in migliaia di acquedotti appartenenti ad enti e società pubbliche, private, miste.
L’attore pubblico, ad ogni modo, è di gran lunga prevalente, e si è sin qui dimostrato incapace (salvo alcune lodevoli eccezioni) di gestire la situazione; punto che è riuscito a rendere scarsa una risorsa che in Italia sarebbe abbondante...

Il fatto è che gli enti pubblici non hanno il coraggio dell'impopolarità di eventuali aumenti (non solo rispetto ai cittadini, ma anche rispetto alle lobbies del consumo agricolo e industriale), non hanno i fondi per fare investimenti, non hanno la forza di perseguire gli abusi (allacci illegali, pagamenti inevasi), non brillano per efficienza amministrativa.

Il privato potrebbe avere maggior successo, perché deve far “quadrare i conti”.

Sentiamo già l’esclamazione di qualche lettore: “Ma come?! L’acqua è un bene pubblico, non può essere privatizzata!”
Questa esclamazione, però, risente dell’influenza di facili - e infondate - demagogie secondo cui "pubblico è bello, privato è brutto".

Bisogna allora chiarire che l'acqua è un bene fondamentale, ma non un "bene pubblico" in senso stretto. O meglio: se può essere considerata bene pubblico in senso giuridico, in relazione alla sua proprietà (proprietà delle fonti di approvvigionamento e della rete di distribuzione), non è servizio pubblico - nella corretta accezione economica del termine - in relazione alla gestione della distribuzione (manutenzione e sviluppo della rete, fornitura), in quanto questa può essere effettuata da privati.
A condizione però che esista una politica dei prezzi (e della qualità) controllata e calmierata da un'Autorità pubblica, poiché quello dell'acqua è un monopolio naturale che non può offrire i benefici della concorrenza: è uno dei rarissimi casi in cui un controllo pubblico trova giustificazione economica. Altrimenti, sarebbero fondate le accuse di voler privatizzare un bene pubblico e di voler lucrare su un diritto fondamentale.
Si badi bene: il controllo sui prezzi (e sulla qualità), da parte di un'Autorità pubblica, è cosa ben diversa dal controllo sulla gestione, che non trova nessuna giustificazione in termini di necessità.

Fino ad oggi in Italia abbiamo scelto la strada che unisce il peggio dei due sistemi: le cosiddette "municipalizzate", società per azioni a partecipazione pubblica che operano nel campo della distribuzione idrica (ma anche di quelle energetica, nel campo della raccolta dei rifiuti, dei trasporti, ecc.). Si tratta di aziende che agiscono come società di diritto privato, a volte aumentano i prezzi, producono utili (anche grazie ai 'risparmi' sugli investimenti).

Le amministrazioni locali, per evitare l'impopolarità, dicono di non poter "ingerire" nell'attività di queste aziende. E però ne nominano i dirigenti, ne incassano i dividendi, e le utilizzano come sistema di clientela e sottogoverno. Insomma, anziché controllare i prezzi e la qualità, tenendosi lontani dalla gestione, si fa l'esatto contrario...

Questo tipo di gestione pubblica aggiunge quindi un ulteriore elemento deteriore: non solo scarsa capacità di garantire la disponibilità del bene, ma anche inquinamento della vita democratica, visto che queste aziende sono utilizzate come centri di potere clientelare.
Questo spiega le resistenze degli apparati della politica, non solo a sinistra. Anche se la sinistra fa della proprietà pubblica una propria bandiera, cosicché il Governo Prodi ci ha propinato le finte liberalizzazioni sui parrucchieri e i farmacisti.

Le "vere" liberalizzazioni di cui il Paese avrebbe bisogno sono quelle delle municipalizzate, capaci di portare vero beneficio ai consumatori e di intaccare centri di potere non democratico.


Il “decreto Ronchi”: siamo ad una svolta?

Lo scorso settembre il Governo ha adottato il cosiddetto “decreto Ronchi salva-infrazioni” (D.L. n.135/2009, convertito in L. 166/2009), un decreto legge che prende il nome dal ministro per le Politiche europee Andrea Ronchi, e che contiene una serie di misure per ottemperare ad obblighi posti dall’Unione Europea, tra cui la riforma di servizi pubblici locali come la gestione dell'acqua e la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti.

Subito si è scatenata la polemica delle opposizioni di sinistra, che hanno accusato il Governo di voler “privatizzare un bene pubblico essenziale come l’acqua”. Alcune forze politiche – Italia dei Valori, Sinistra ecologia e libertà – si sono addirittura lanciate nella raccolta di firme per un referendum abrogativo.
Le cose, però, non stanno come vengono descritte.

Il decreto (e la legge che lo recepisce) riafferma la "piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente
alle  istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità e prezzo  del  servizio, (...)  garantendo  il  diritto alla universalità ed accessibilità del servizio".
Del resto, si tratta di un bene appartenente al demanio dello Stato, e in quanto tale indisponibile: sarebbe ben difficile, nel nostro ordinamento, pensare ad una sua “privatizzazione”.

Ciò di cui si occupa il decreto è la gestione del servizio di distribuzione dell’acqua (come di altri servizî attualmente pubblici), imponendo agli enti locali che tale gestione sia affidata con procedure di evidenza pubblica. Non più, dunque, affidamento diretto ad aziende “municipalizzate” controllate dagli enti locali e dai partiti; ma gare trasparenti, basate su criterî di qualità e convenienza per i cittadini.
Gare a cui potranno partecipare anche aziende a capitale pubblico, se avranno dimostrato di saper offrire un sevizio qualitativamente valido (come accade in alcune realtà).

Niente privatizzazione dell’acqua, dunque. E neanche privatizzazione forzata della gestione. Ma solo obbligo di trasparenza ed efficienza.

Il decreto, dunque, ci pare un passo nella direzione che abbiamo poc’anzi indicato.
Le resistenze, come dicevamo, sono ideologiche. O esprimono gli interessi di alcuni apparati politici; compreso quello della Lega Nord, forte negli enti locali, la quale ha fatto approvare un ordine del giorno che impegna il Governo a valutare deroghe per i comuni più “virtuosi”.

Ci sembra di conforto anche l’opinione dell'Antitrust, la quale definisce il decreto Ronchi “un buon provvedimento, perché dà luogo a una liberalizzazione da tanto tempo da noi auspicata. L'acqua rimane un bene pubblico ma il servizio finalmente viene liberalizzato". Il presidente Antonio Catricalà aggiunge però: “Rimane da chiarire chi sarà l'autorità che dovrà verificare e stabilire gli standard di qualità minimi essenziali e che vigilerà sulle tariffe”.

Non sono stati ancora adottati, infatti, i decreti attuativi della legge. E qui emerge un nodo critico della legge, perché sarebbe stato opportuno che l'individuazione dell'Autorità regolatrice avvenisse con la legge stessa.
Così come sarebbe stato opportuno che fosse definita con chiarezza la proprietà pubblica non solo delle fonti di approvvigionamento (se con esse si identificano le "risorse idriche"), ma anche della rete di distribuzione.

Solo esaminando i decreti attuativi si potrà stabilire se questi avranno svuotato la legge (lasciando concretamente in essere la situazione attuale), se l’avranno stravolta (ponendo criterî troppo evanescenti nell’effettuazione delle gare e nei controlli), o se finalmente il nostro Paese è giunto ad una svolta positiva nell’erogazione dei servizî ai cittadini.

In ogni caso, i referendum abrogativi per i quali è iniziata la raccolta delle firme non mirano a correggere gli evidenziati punti critici della legge, ma a riportare indietro le lancette dell'orologio, all'epoca degli sprechi e del clientelismo mascherati sotto l'etichetta dell' "interesse pubblico".



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