“Mezzo milione di emigrati, vale a dire quasi tutta la popolazione valida; l’agricoltura completamente abbandonata; le zolfare chiuse e sul punto di chiudere le saline; il petrolio che è tutto uno scherzo; il governo che ci lascia cuocere nel nostro brodo… Stiamo affondando, amico mio, stiamo affondando… Questa specie di nave corsara che è stata la Sicilia, col suo bel gattopardo che rampa a prua, coi colori di Guttuso nel suo gran pavese […] affonda, amico mio, affonda”. Così diceva don Benito nel romanzo di Sciascia del 1988, A ciascuno il suo, forse il più riuscito tra i suoi scritti.
Oggi, fra i venti che insidiano la stabilità della nostra penisola, torna a soffiare forte quello dell’analfabetismo funzionale (o di ritorno).
Per lo meno questo è ciò che emerge dai dati di numerose ricerche, estere e nostrane, sul tema dell’istruzione.
Studi approfonditi della Commissione Europea, della Statistic Canada e dell’UNLA (Associazione Nazionale per la Lotta contro l’Analfabetismo) ci offrono risultati sconcertanti: secondo le indagini della Statistic Canada, il 5% degli italiani non è in grado di affrontare qualsiasi questionario scritto (parliamo di 2 milioni di persone circa); un 33% si ferma alla sola lettura di un testo senza riuscire a comprenderne realmente il significato; un altro 33% è in grado di abbozzare appena qualche risposta. Il fenomeno dell’analfabetismo funzionale o di ritorno minaccia di colpire il 20% dei laureati italiani e il 30% dei diplomati.
Un secondo studio condotto dall’UNLA, descrivendo le condizioni dell’istruzione in Italia come una piramide immaginaria, evidenzia come questa sia sorretta da una base di circa 19 milioni e mezzo di persone (il 36.5% della popolazione) prive di qualsiasi titolo di studio o in possesso della sola licenza elementare. Seguono più di 16 milioni di cittadini (il 30% della popolazione) con il diploma di scuola media inferiore; quasi 14 milioni di italiani (un altro 25.8%) studiano fino ad ottenere il diploma di scuola superiore, mentre soltanto 4 milioni circa sono i cittadini che possiedono la laurea.
Per dirla con il linguista Tullio De Mauro, “solo il 20% degli italiani è in possesso degli strumenti minimi, indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari ad orientarsi nella società moderna […]. Parecchi italiani uniscono alla laurea un sostanziale, letterale analfabetismo”.
La cultura è un bene pubblico, non rivale e non escludibile, portatore di esternalità positive. Un alto tasso di istruzione e un buon livello di cultura all’interno di un Paese avvantaggia l’intera società. L’insofferenza verso i luoghi comuni e le frasi preconfezionate, verso soluzioni semplicistiche a problemi complessi, lo sviluppo di un senso civico che porti al rispetto di leggi e istituzioni e, infine, la consapevolezza degli obblighi che derivano dall’appartenere ad una comunità statuale sono elementi che possono essere acquisiti assai più facilmente laddove i cittadini dimostrino di essere culturalmente preparati e sappiano vagliare le informazioni che ricevono alla luce di conoscenze pregresse e approfondite continuativamente nel tempo. Laddove, in breve, abbiano i mezzi adatti per valutare criticamente i comportamenti dei propri concittadini e di coloro che occupano posizioni di potere. I dati riportati sopra, invece, descrivono una situazione profondamente diversa: le regioni del Centro e del Sud Italia mostrano tassi di analfabetismo superiori al 10%, con picchi del 12-13% in Basilicata, Molise e Calabria.
Le conclusioni che mi sento di proporre non possono che esprimersi in forma interrogativa: in un Paese poco coeso, per non dire spaccato tra Nord e Sud, che ha subito uno sviluppo economico eccezionale nel corso degli anni Sessanta non controbilanciato, però, da un altrettanto esteso sviluppo sociale e culturale (spesso frenato, anzi, dalla “fiumana del progresso” ); in un Paese che va perdendo anche quel vincolo etico e di fede che spesso ha funzionato da strumento educativo e da regolatore dei rapporti sociali; in un Paese, infine, che sembra destinato a tornare a livelli di analfabetismo sostanzialmente tragici, mi chiedo in che modo si possa rianimare e diffondere quella fiducia nel prossimo e nelle istituzioni, necessaria per la sopravvivenza di una comunità statale coesa, se non con una rinnovata azione culturale (nonché educativa).
Nella sua prefazione a I Malavoglia, Verga scrisse: “chi osserva questo spettacolo” (e si riferiva al “bozzetto marinaresco” di Aci Trezza e dei suoi abitanti) “non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione e rendere la scena nettamente”.
Concordo appieno nell’astenermi dall’esprimere un giudizio di valore. Eppure non riesco a frenarmi dal pensare che siamo di fronte a un bivio: o si crea una maggioranza consapevole, o la maggioranza è gregge e il governo democratico finisce per sostanziarsi nelle forme di una subordinazione dei savi agli ignari, dei consapevoli agli sprovveduti (o a coloro che ne sanno carpire la fiducia).