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Cultura - Storia
Il crollo del comunismo, la fine di un incubo Stampa E-mail
A 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino: perché l’ideologia comunista ha segnato un’epoca
      Scritto da Giovanni Martino
16/11/09

“Tesori di intelligenza possono essere investiti al servizio dell’ignoranza, quando il bisogno di illusione è profondo” (Saul Bellow)

Nel simbolo dell'URSS, la falce e il martello dovevano dominare il mondo
Nel simbolo dell'URSS, la falce e il martello dovevano dominare il mondo
Il 9 novembre 1989 “cade” il muro che separava Berlino Est (la parte comunista) da Berlino Ovest (la parte libera). Tra tante rievocazioni di quei giorni, ci sembra utile ricordare – soprattutto ai più giovani - il significato che quell’evento ha avuto non solo per i berlinesi, ma per tutti noi: la fine di un incubo.

Nell’arco della storia, infatti, tante dittature sono cadute (tutte, prima o poi, cadono), e ciò ha significato un’enorme senso di liberazione innanzitutto per le popolazioni che avevano subito lutti e sofferenze. Magari quella gioia è stata condivisa anche da altre persone, di diversa nazione, sensibili alla sofferenza umana ovunque si manifesti e desiderose che la libertà si affermi ovunque.

Ma il comunismo è stata una cosa diversa. Non è stato una semplice dittatura, ma un totalitarismo ideologico con pretese di egemonia mondiale.
Cosicché è durato più a lungo di altre dittature, ha avuto un’estensione quasi planetaria, ha causato più vittime di ogni altro regime sanguinario, ha avuto conseguenze nefaste anche sulla vita sociale di Paesi che non erano direttamente sottoposti a questo giogo.

Il muro di Berlino, per 28 anni (la sua costruzione fu iniziata nella notte tra il 12 e il 13 agosto del 1961) fu il simbolo della “cortina di ferro” esistente, già dal dopoguerra, tra i Paesi del blocco sovietico e quelli del blocco atlantico. E fu anche la raffigurazione plastica che quella divisione consisteva in una prigionia per i popoli dell’Est. I famigerati Vopo (la “polizia del popolo” della DDR ...) sparavano a vista contro chiunque tentasse di fuggire da Berlino Est; negli anni si conteranno per questo circa 230 morti.

Pochi ricordano, peraltro, che anche l’Italia ebbe il suo muro, quello che separava Gorizia da Nova Gorica, la periferia annessa alla Jugoslavia socialista.

Nel 1989 i popoli dell’Europa Orientale ebbero la percezione che l’Unione Sovietica, ormai sull’orlo del collasso sociale ed economico, non era più in grado di reprimere brutalmente ribellioni negli Stati satellite. I partiti comunisti che erano al governo di questi Stati, senza l’appoggio di Mosca, non potevano più soffocare il desiderio di libertà dei loro popoli. Cosicché, uno dopo l’altro, crollarono i regimi di Polonia (che da anni, con Solidarność, manifestava le spinte democratiche più forti), Ungheria, Cecoslovacchia, Germania Est e – unico caso in cui fu necessaria una sollevazione violenta – Romania.

Il 9 novembre 1989, dunque, lungo quel muro non più sottoposto a vigilanza armata, i Berlinesi dell’Est e dell’Ovest potevano finalmente riabbracciarsi (molte famiglie si erano ritrovate separate) e levare l’urlo liberatorio: “Wir sind ‘ein’ Volk”, “Noi siamo un popolo” (correggendo un vecchio slogan propagandistico della DDR che campeggiava proprio sul muro: "Noi siamo il popolo").


La carica distruttiva del fenomeno comunista

Il fenomeno comunista è stato così immenso, anche nella sua carica distruttiva, che poteva essere difficile tracciarne un profilo complessivo.

La Russia, divenuta Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, è stata l’esperimento più rilevante di realizzazione concreta del progetto comunista. Si tratta di un modello ispirato alla filosofia e prassi politica marxista-leninista, interpretata secondo la formula del “socialismo in un solo Paese”, che presupponeva il controllo dell’URSS sui regimi e i partiti dell’Internazionale Comunista.
Nell’ambito di tale filosofia, il modello sovietico corrisponde a quello che Marx definiva socialismo reale; esso doveva essere una fase transitoria verso il comunismo in senso proprio, stadio finale (rimasto sempre confuso) che avrebbe visto la scomparsa dei rapporti di lavoro, delle classi, del diritto, dello Stato.

In realtà, distinguere su di un piano teorico socialismo e comunismo è uno sforzo artificioso: gli elementi fondanti (visione della società, dell’economia, ecc.) sono sostanzialmente identici, ed incompatibili con ogni società democratica.

L’esperimento sovietico è durato oltre settant’anni (dal 1917 al 1991), e ha assunto un carattere “imperiale”: l’URSS, nell’Internazionale comunista, voleva essere il faro di un’espansione mondiale di quell’ideologia. A partire dal 1946 riuscì effettivamente a creare un “blocco” mondiale, sostenendo militarmente e finanziariamente “rivoluzioni” comuniste in ogni parte del pianeta, creando regimi di cui aveva il diretto controllo (innanzitutto nell’Europa Orientale).

I crimini commessi dal regime sovietico (non solo da Stalin, ma da chi lo ha preceduto e seguito) sono sempre stati conosciuti e conoscibili da chi non avesse gli occhi bendati dal fanatismo ideologico. Un saggio come Il costo umano del comunismo in URSS ce li ricorda.

Il progetto comunista ha conosciuto anche tentativi di realizzazione non uniformati all’ortodossia sovietica (benché spesso sostenuti da Mosca): Cina, Vietnam, Cambogia, Corea del Nord, Jugoslavia, Cuba, Nicaragua, ecc. Ognuno di questi “esperimenti” ha avuto per costanti: uccisioni degli oppositori (se non sterminî di massa); privazione delle libertà politiche, civili, religiose e sociali; miseria economica.

Solo agli occhi di chi non voleva vedere e capire questi orrori potevano sembrare episodî “deprecabili” ma isolati, scollegati, semplici “degenerazioni” di un’utopia benefica. O episodî assimilabili a quelli di cui si sono resi responsabili altri regimi in diverse epoche storiche.

Un libro ormai celebre si è fatto carico di tracciare un profilo complessivo del comunismo, definendone l’unicità: si tratta de Il libro nero del comunismo una raccolta di saggi coordinata da Stéphane Courtois.

Gli autori delle diverse sezioni sottolineano il denominatore comune delle variegate declinazioni del “comunismo”, nelle diverse parti del mondo (Europa orientale, Asia, America latina, Africa). Le violenze dei diversi regimi non possono essere considerate degenerazioni occasionali, ma la necessaria conseguenza di un’impostazione ideologica.

È difficile, del resto, considerare una “degenerazione” la scia di terrore di questo fenomeno: tra gli 80 e i 100 milioni di morti nell’arco di poco più di settant’anni.

Il terrore non si misura poi solo dai morti. Decine di milioni di internati nei gulag (o laogai, o come sono stati definiti nei diversi Paesi). Campagne di calunnia e di denigrazione contro gli oppositori, con privazione del lavoro e isolamento sociale. Deportazioni di massa di intere popolazioni. Soppressione delle più elementari libertà (di culto, di espressione, di associazione, di circolazione, di proprietà, di iniziativa economica). Soppressione di ogni creatività artistica che non fosse esaltazione dell’ideologia di regime. Tentativo di stravolgere gli affetti naturali e di aggredire la famiglia (osteggiata dai regimi assoluti in quanto presidio di libertà che fa schermo all’autorità pubblica), come negli esperimenti sociali di sottrazione di figli ai genitori per impartire un’educazione “comune”, o nell’esaltazione di quei figli che avessero avuto il coraggio di denunciare alle autorità i genitori “sovversivi”. Clima di perenne inquisizione: per fare solo un esempio, metà della popolazione della DDR era costretta, anche mediante ricatto, a svolgere il ruolo di spia, segnalando chiunque potesse essere sospetto – anche per il solo essersi lamentato – di avversione al regime.

Queste forme di oppressione sarebbero da considerare evidentemente inaccettabili anche qualora avessero consentito di raggiungere non meglio precisate forme di “progresso sociale”. La beffa è che si accompagnavano alla miseria economica e a sfacciati privilegi a favore della classe dirigente. Beffa non casuale, perché la libertà è la molla di ogni progresso.

Il riflesso dell’oppressione nei Paesi comunisti si ebbe anche nei Paesi Occidentali.

Per la paura di una nuova guerra, anzitutto, visto il disegno chiaramente espansionista dell’Internazionale comunista, che si poneva l’obiettivo di esportare la rivoluzione proletaria in tutto il mondo.

E per l’azione dei partiti comunisti attivi nei Paesi liberi, come l’Italia, che ha corroso profondamente il tessuto politico e sociale.

Si può ben capire, dunque, perché all’urlo liberatorio dei Berlinesi si accompagnò un gigantesco sospiro liberatorio di tutti noi “occidentali”, che avevamo vissuto - in forme ovviamente diverse – l’incubo del comunismo.

A dire il vero, restano in piedi regimi autoritarî di matrice comunista come la Cina, la Corea del Nord, il Vietnam, Cuba, o semiautoritarî come il Venezuela. Ma questi regimi hanno perso le velleità di un’esportazione mondiale dell’ideologia comunista, che essi stessi hanno dovuto “annacquare” visti gli esiti fallimentari.


Il carattere totalitario del comunismo

La forza del comunismo non si è basata solo sulla feroce determinazione di un dittatore o di un gruppo di potere, ma su un insieme di fattori in larga parte originali. Alcuni di questi fattori sono stati analizzati da François Furet nel suo fondamentale saggio Il passato di un’illusione.

Innanzitutto, come si è accennato, il carattere totalitario. Un carattere che ha consentito – una volta preso il potere – il consolidamento del fenomeno comunista.

Che differenza c’è – a grandi linee - tra una dittatura e un totalitarismo?

Una dittatura, per capirci, è un governo gestito da pochi con la violenza. Il gruppo dominante priva innanzitutto i cittadini delle libertà politiche. Quanto alle libertà umane, civili, economiche (culto, espressione, associazione, proprietà, iniziativa economica, ecc.), queste vengono limitate nella misura in cui possano avere riflessi politici; ma non eliminate del tutto.

Il totalitarismo, invece, si basa su un’ideologia – una visione del mondo – che non solo ha la pretesa di poter interpretare ogni aspetto della vita umana; non solo ha la pretesa che questa interpretazione sia l’unica “liberante”; ma ha anche la pretesa di imporsi con la forza. Per cui, per “liberare” davvero l’uomo, bisognerebbe... privarlo di ogni libertà. Bisognerebbe creare un “uomo nuovo”, capace di pensare, esprimersi, vivere secondo i dettami di quell’ideologia. Il potere invade in toto la vita delle persone: si fa “totalitario”.
Il rifiuto della religione è un tratto fondamentale del totalitarismo, che si fonda su una ‘religione laica di Stato’, con un fondamento ontologico - le capacità di elaborazione umane - insufficiente a questo scopo. Ogni ‘religione laica di Stato’ è tendenzialmente totalitaria: infatti lo Stato, nel momento in cui non rinvia ad un fondamento (culturale, morale, religioso) che lo preceda e che esiga rispetto, riduce tutti i valori a valori politici; facendosi, appunto, ‘totalitario’.

Un incubo da romanzo di fantascienza? Uno scenario da 1984, il celebre romanzo di George Orwell?
No. Fu Orwell (che pure inizialmente aveva simpatie socialiste) ad ispirarsi alla tragica realtà del comunismo sovietico (dello stalinismo in particolare).

Totalitarî sono stati, in forma diversa ma altrettanto piena, il maoismo cinese e il comunismo dei khmer rossi cambogiani. Un’approssimazione di totalitarismo la possiamo trovare negli altri regimi comunisti creati – a volte precariamente – in diverse parti del mondo.

Il carattere totalitario, dicevamo, è stato un fattore del consolidamento del comunismo. Perché se è vero che un regime così oppressivo suscita un immediato desiderio di ribellione, è anche vero che la sua pervasività è capace di soffocare non solo qualsiasi tentativo di ribellione, ma anche la capacità di organizzare la ribellione.
Basti pensare che il comunismo ha provveduto a uccidere preventivamente i nemici considerati ideologicamente pericolosi; a uccidere con essi anche i loro familiari, per stroncare ogni possibile risentimento personale; a sterminare intere categorie sociali (i piccoli coltivatori in Russia, il ceto intellettuale in Cambogia, ecc.) o popolazioni potenzialmente ostili.


Comunismo e nazismo: totalitarismi uguali e contrarî

Va anche ricordato che il totalitarismo è uno dei caratteri che accomunano il comunismo (impostosi in molti Paesi del mondo) con il nazismo in Germania. Benché si debba rilevare che la Germania nazista, nonostante la sua ferocia, non è riuscita (non ne ha avuto il tempo) a portare a perfezione il concetto di totalitarismo come è invece riuscito a fare il comunismo, che ha soggiogato per decennî centinaia di milioni di persone in tutto il mondo.

Ricordare che la parola nazismo è la crasi di nazionalsocialismo può aiutare a comprendere che esistono numerosi altri elementi di parentela tra questi due sistemi che si sono ferocemente combattuti pur avendo numerosi caratteri comuni o simmetrici: l’idolatria dello Stato come realizzazione di una visione ideologica totalizzante e semireligiosa; la conseguente avversione per le religioni rivelate (il cristianesimo in particolare) che potevano sottrarre l’uomo al controllo della nuova ideologia; l’odio antiborghese; l’idealizzazione di una categoria (la “classe” o la “razza”); l’esaltazione della forza come strumento di conferma storica (la “rivoluzione” o la “guerra purificatrice”).
Non è un caso se lo scoppio della seconda guerra mondiale fu reso possibile dall’iniziale alleanza dei due regimi, con il patto Molotov – Von Ribbentrop per la spartizione della Polonia.

Molti dei caratteri comuni – o simmetrici – ai due sistemi, che li rendono uguali e contrarî, sono stati ricostruiti da Hannah Arendt nel suo celebre Le origini del totalitarismo; o da Furet nel saggio citato. Una sintesi ce la offre anche Augusto del Noce in un articolo che abbiamo pubblicato (in cui si ricorda l’originaria intuizione in merito di un gesuita, padre Fessard).

Alcuni caratteri dei due totalitarismi sono, come visto, simmetrici e rovesciati. Ciò spiega in parte la loro contrapposizione.
Un altro elemento di tale contrapposizione risiede nel fatto che ogni regime dispotico ha bisogno di un nemico esterno per giustificare – in base ad un presunto stato di necessità e di pericolo imminente – restrizioni della libertà, sacrifici, fallimenti. I due regimi ideologici avevano bisogno anche di un nemico ideologico. Hitler (e con lui Mussolini, Franco, Pinochet, ecc.) si propose come diga alla rivoluzione comunista, vista altresì come espansione dei popoli slavi ai danni del germanesimo; i comunisti, reciprocamente, si proposero come antidoto al “nazifascismo”.
Il comunismo ancora nel secondo dopoguerra alimentò questa contrapposizione radicale per legittimarsi come forza “democratica” e mascherare il proprio carattere totalitario. Bisognava costruire un Nemico Assoluto, un Male Storico, il nazismo; chi lo aveva combattuto (e qui bisognava far dimenticare il patto Molotov-von Ribbentrop, o il sostegno dei comunisti francesi all’invasione nazista) doveva avere un’indiscutibile patente di democraticità.


Le cause del “successo” del comunismo sono le stesse che hanno condotto alla sua sconfitta

Il carattere totalitario, dicevamo, è l’elemento principale che ha consentito il consolidamento del comunismo laddove ha preso il potere, fin quasi a rendere impensabile ogni ribellione.
È anche vero, però, che un sistema totalitario viene sentito come intimamente estraneo dai popoli che lo subiscono. E respinto quando i rapporti di forza – dopo anni o decenni – lo consentono.

Esistono peraltro numerosi altri fattori che hanno contribuito all’ascesa del fenomeno comunista.
Questi stessi fattori, però, ne hanno decretato la condanna nel momento in cui ne hanno rivelato la fallacità: il comunismo ha idolatrato la storia, profetizzando la propria necessaria affermazione. Il marxismo, infatti, con il “materialismo storico”, ha costruito una sorta di “storicismo”, cioè di teoria che si afferma capace di individuare presunte leggi razionali del corso storico e di predirne lo sviluppo.
Se però la storia si incarica di smentire quelle profezie, rivelatesi contrarie alla realtà e alla natura dell’uomo, la condanna è inappellabile.

Il comunismo si è servito, innanzitutto, di una certa base di consenso. Si badi bene, si è trattato sempre di consenso da parte di minoranze: nessuno regime socialista o comunista ha mai preso il potere con libere elezioni. E si è trattato sempre di un consenso comprato con lusinghe e denaro (come quello dei cosiddetti intellettuali “organici”) o estorto con l’inganno e la minaccia: chi ha appoggiato in buona fede movimenti comunisti, se ne è sempre pentito quando questi sono giunti effettivamente al potere, e hanno dovuto eliminare ogni residua libertà per potervi rimanere. Le pagine della storia sono piene di omicidi di comunisti che denunciavano il “tradimento” delle loro utopie: dalle “purghe” di Stalin contro i suoi compagni di rivoluzione, all’eliminazione (ad opera degli stessi sovietici che li avevano sostenuti) dei partigiani della guerra civile spagnola, alla persecuzione di ogni “eresia” comunista (anarchici, trotzkisti, ecc.).

Ad ogni modo, il comunismo si è sempre preoccupato di ottenere una certa dose di consenso, perché cercava la sua legittimazione - come tutte le ideologie del Novecento – nell’essere o sembrare ideologia di massa.

Passiamo rapidamente in rassegna gli strumenti principali utilizzati per ottenere il consenso (gli stessi che, come detto, caduto l’inganno hanno decretato la sconfessione del comunismo).

1) La promessa di uguaglianza e giustizia sociale. Una promessa che risponde ad aspirazioni antiche quanto l’uomo, sebbene un po’ vaghe.
La promessa di uguaglianza, se viene intesa come egualitarismo assoluto che vuole soffocare la libertà umana e il merito, si traduce in disuguaglianza profonda e ingiustizia sociale.
“Uguaglianza” significa trattare in modo uguale ciò che effettivamente uguale: senza dubbio la dignità di ogni individuo, con i diritti fondamentali (anche economici) che ne derivano.
Il benessere, però, è un’altra cosa: deve corrispondere all’impegno e al merito. Le differenze, se sono espressione della creatività dell’individuo (e non della prepotenza), non sono necessariamente frutto di ingiustizia, e sono anzi il motore dello sviluppo. Senza premiare merito e responsabilità, si ottiene solo un’uguale… miseria.

Peraltro, il preteso egualitarismo del comunismo, proprio perché irreale, conduce beffardamente a disuguaglianze manifeste.
L’economista francese Christian Morrisson, in un saggio (“Income distribution in east European and western countries”) pubblicato sul numero di giugno 1984 del Journal of Comparative Economics, poté calcolare che il tasso di disuguaglianza nei Paesi socialisti era simile a quello dei Paesi capitalisti! Quello dell’Unione Sovietica, leggermente inferiore a quello degli Stati Uniti, era quasi il doppio di Svezia e Gran Bretagna.

2) La promessa di una realtà nuova, utopica, capace di liberare l’uomo da ogni fatica e responsabilità morale. Una realtà che doveva pretendere di costruire un “uomo nuovo”, contrario alla sua natura; o che – meglio – era la proiezione degli istinti umani più elementari, quelli materiali ("materialismo"), fatti dipendere dal sistema produttivo, di cui l’uomo – privato della libertà – diveniva un semplice ingranaggio.

“L’innovazione fondamentale introdotta da Marx nella scienza politica e storica in confronto a Machiavelli è la dimostrazione che non esiste una ‘natura umana’ fissa e immutabile”, perché “la natura umana è l’insieme dei rapporti sociali storicamente determinati” (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, pagg. 430 s. e 1599). Le conseguenze di questa impostazione sono tremende, lo rileva anche uno studioso marxista come Kosik: “Poiché il complesso dei rapporti, che secondo tale teoria determina la ‘natura’ dell’uomo, cambia, e cambia in base e con la mediazione del potere, la ‘natura umana’ dipende dal potere, dalla sua volontà, dal suo arbitrio, dalla sua ragionevolezza e dalla sua stoltezza (...) Il potere diviene onnipotente” (Karl Kosik, La nostra crisi attuale, ed. it. Ed. Riuniti, Roma 1969, pagg. 68 ss.).

Ovviamente, un progetto che travisa profondamente la realtà dell’uomo, è destinato ad essere rigettato dalla realtà...

La libertà dell’uomo, la sua cultura, la sua spiritualità, il suo legame con la famiglia, la sua inventiva, la sua creatività, il suo senso di responsabilità, non sono “sovrastrutture” del sistema produttivo (che sarebbe la “struttura”), ma sono fattori determinanti di ogni rapporto sociale (e, indirettamente, economico).

3) La difficoltà di costruire un mondo nuovo contro natura poteva essere giustificata solo con il  rinviare ad un futuro indeterminato la realizzazione delle promesse effettuate. La dottrina comunista, che affermava il suo carattere storico e necessario, ha dovuto sempre elaborare nuove giustificazioni (la capacità del capitalismo di spostare lo scenario dello sfruttamento, ecc.) della mancata realizzazione di quelle promesse.

Ma la storia, come ricordato inizialmente, prima o poi emette il suo verdetto, soprattutto contro una dottrina che dello storicismo ha fatto un feticcio.

4) Un ulteriore strumento di consenso è stato la pretesa di porsi come dottrina “vera” e “scientifica”. L’infatuazione verso la scienza (che nel ventesimo secolo ha avuto importanti ricadute nella tecnologia e nello sviluppo sociale) ha prodotto un’infatuazione verso una dottrina – quella comunista – che si spacciava per “scientifica”, pur non essendolo.

Intendiamoci. L’analisi economica di Marx conteneva alcuni indubbî elementi di originalità, ed è stata utile a ricordare che lo sviluppo economico non si può basare solo sull’accumulazione del “capitale”, non può ignorare il “fattore lavoro”.

Ma la sua analisi economica conteneva numerosi errori (l’eccesso opposto di sottovalutare l’importanza del fattore “capitale”, o quella dell’innovazione), equivoci di fondo (il concetto di “sfruttamento”), previsioni sbagliate (la progressiva crisi endogena del capitalismo) o non fatte (la società postindustriale e la fine della “classe operaia”). Una delle più autorevoli sintesi degli errori di ogni statalismo economico l’ha offerta Friedrich August von Hayek nel suo La via della servitù.

L’analisi economica era errata anche perché viziata da un’analisi antropologica errata (il materialismo; la sottovalutazione dei fattori “sovrastrutturali”, che un sistema socio-economico deve invece adeguatamente valorizzare).

Ma, soprattutto, lo storicismo e il marxismo non avevano nulla di scientifico. Non si ponevano l’obiettivo di “conoscere” la realtà (come fa la scienza e ogni teoria correttamente “cognitivista”), ma di reinterpretarla e trasformarla: erano ideologie “costruttiviste”, che non riconoscono la verità ma la vogliono creare. Queste ideologie autoritarie, rinnegando un corretto “relativismo” politico (quello che riconosce la precarietà e la contingenza storica delle realtà politiche, contro ogni ideologia di Stato assoluto), hanno posto le basi per il deleterio relativismo filosofico, che rinnega ogni verità naturale e morale.

Karl Raimund Popper, il maggiore epistemologo (studioso della scienza) moderno, ha condotto per tutta la vita una battaglia per dimostrare come storicismo e marxismo non fossero scientifici, in quanto non utilizzavano il metodo galileiano e non erano “falsificabili”. Come altre pseudoscienze (la psicanalisi, l’astrologia), non ammettevano prove dei loro errori, perché avevano una spiegazione per manipolare ogni possibile confutazione (di Popper, al riguardo, si vedano soprattutto La società aperta e i suoi nemici e Miseria dello storicismo).

Insomma: la pretesa di “verità scientifica” di queste ideologie poteva infatuare solo chi con la  scienza non ha reale confidenza (e purtroppo erano in molti).

5) Il consenso veniva anche manipolato, mediante una logica che giustifica i mezzi con il fine, calpestando ogni principio etico. Lenin (in Estremismo malattia infantile del comunismo) aveva esplicitamente negato l’esigenza di rispettare qualsiasi morale, affermando che “la moralità dipende dagli interessi della lotta di classe del proletariato”.

Sulla base di questo insegnamento, si imposero come criterî di azione dei comunisti la “doppiezza” (affermare il contrario di ciò che si pensa); la denigrazione personale dell’avversario, da sovrapporre alla contestazione delle sue idee; la disinformacija, cioè la diffusione sistematica di notizie false (si pensi alla falsa attribuzione ai tedeschi del massacro di polacchi a Katyn; alla falsa accusa alla Corea del Sud di aver attaccato la parte settentrionale sotto il controllo comunista; alle calunnie contro Pio XII; ecc.).

6) Bisogna però ribadire che le notizie e gli strumenti culturali per smascherare il comunismo sono sempre stati disponibili. I crimini staliniani erano conosciuti sin dal 1946, quando fu pubblicata l’autobiografia di Victor Kravchenko, uno dei più alti esponenti della nomenklatura sovietica. Come se non bastasse, nel 1956, fu lo stesso segretario del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica), Nikita Krusciov, a denunciare il culto della personalità e i crimini del suo predecessore. Dai Paesi comunisti giungevano impressionanti testimonianze dei perseguitati politici, delle etnie decimate, delle Chiese costrette alle catacombe.

Eppure, continuavano ad esistere “intellettuali” che facevano viaggi in quei Paesi sotto scorta della polizia locale, indirizzati in visite guidate, autorizzati a parlare solo con determinate persone... e tornavano decantando i progressi del socialismo reale!

Chi raccontava la verità dei fatti era un “traditore” o un “cane da guardia del capitalismo”.

Insomma, ancora più potente dell’inganno comunista, fu la capacità di autoinganno degli uomini che si affidano alle proprie illusioni. Come sintetizza mirabilmente Saul Bellow, nella citazione che abbiamo riportato in epigrafe.

Autoinganno alimentato dalla demonizzazione di un “Nemico”, che ci può portare a sposare la logica del “meno peggio” e a chiudere gli occhi di fronte ad orrori considerati “necessarî”. Autoinganno alimentato anche dal fascino sinistro della forza, della pretesa ineluttabilità storica, della pretesa "scientificità".

Sia detto per inciso: questo autoinganno ha contagiato anche molti cristiani, che hanno confuso l'utopia marxista (che è del mondo, ma non nel mondo), con la profezia cristiana (che non è del mondo, ma è nel mondo); hanno confuso il "messianismo" marxista (fautore di una "rivoluzione" che vuole capovolgere l'opera di Dio) con la messianicità di Cristo (che ha già vinto la morte e offerto la salvezza); hanno confuso la pretesa marxista di costruire un "uomo nuovo" frutto di rinnovati rapporti produttivi, e da essi dipendente, con il rinnovamento cristiano del cuore di tutti gli uomini, liberi e moralmente responsabili; hanno confuso l'egualitarismo marxista e l'esaltazione di un classe sociale "sfruttata" (che avrebbe dovuto imporre la sua verità e una nuova "dittatura del proletariato") con l'uguale dignità degli uomini immagine di Dio, liberati con la legge dell'amore.
Insomma: Cristo non era un "rivoluzionario", il Suo messaggio di salvezza - checché ne pensassero alcuni "teologi della liberazione" - non era diretto a mutare assetti di potere (benché abbia, ovviamente, anche riflessi sociali); anzi, ha deluso proprio quegli Ebrei che attendevano dal Messia un condottiero nella rivolta contro il potere dei Romani.

Siamo stati vaccinati da questa tendenza all’autoinganno, o siamo pronti a gettarci nelle braccia delle nuove ideologie?


Le cause immediate del crollo, i problemi della società contemporanea

Il crollo del comunismo, in definitiva, è stato determinato dal suo essere un’ideologia nemica dell’uomo.
I puntelli di consenso che ne hanno favorito l’ascesa, il totalitarismo che ne ha consentito a lungo la sopravvivenza, hanno soltanto ritardato la presa di coscienza di questa natura inumana, o la possibilità di liberarsene.

Il comunismo, quindi, non è stato sconfitto da oscuri complotti. È imploso su se stesso.

Tra i protagonisti che hanno accelerato questa implosione ne possiamo ricordare almeno due.

Giovanni Paolo II, e il suo formidabile sostegno morale alla ribellione della Polonia, prima crepa interna nell’Europa dell’Est.

Il presidente statunitense Ronald Reagan, che diede una spallata dall’esterno, rilanciando la sfida militare e tecnologica ad un livello insostenibile per l’affaticata economia sovietica e dimostrando la sterilità della politica aggressiva dell’URSS. 
Fu lo stesso Shevardnadze (ex Ministro degli Esteri sovietico ai tempi di Gorbaciov) ad ammettere che proprio la reazione decisa della Nato, con l’installazione degli “euromissili” (aspramente osteggiata dai pacifisti), a convincere l’Unione Sovietica dell’insostenibilità della propria politica di aggressione.

A proposito dell’ultimo segretario del PCUS, Michail Gorbaciov, va ridimensionato il ruolo che alcuni gli hanno assegnato nel favorire il crollo dell’Unione Sovietica.
Gorbaciov fu semplicemente un leader abbastanza realista da prendere atto che un sistema stava crollando. Peraltro, continuava ad essere un comunista “riformista”, che si illudeva di poter introdurre riforme capaci di rilanciare quel sistema in forme diverse.

Concludendo. Condannare il comunismo significa 'assolvere' il "capitalismo" in ogni sua manifestazione? Significa legittimare un'economia senza regole o senza etica? Significa ignorare le ingiustizie sociali che si manifestano negli Stati e tra Stati?

Cediamo la parola a Giovanni Paolo II, e alla sua enciclica Centesimus Annus (lettura irrinunciabile per una visione complessiva dei sistemi sociali ed economici):

“Il marxismo ha criticato le società borghesi capitalistiche, rimproverando loro la mercificazione e l'alienazione dell'esistenza umana. Certamente, questo rimprovero è basato su una concezione errata ed inadeguata dell'alienazione, che la fa derivare solo dalla sfera dei rapporti di produzione e di proprietà, cioè assegnandole un fondamento materialistico e, per di più, negando la legittimità e la positività delle relazioni di mercato anche nell'ambito che è loro proprio.

(...) Si può forse dire che, dopo il fallimento del comunismo, il sistema sociale vincente sia il capitalismo, e che verso di esso vadano indirizzati gli sforzi dei Paesi che cercano di ricostruire la loro economia e la loro società? È forse questo il modello che bisogna proporre ai Paesi del Terzo Mondo, che cercano la via del vero progresso economico e civile?

La risposta è ovviamente complessa. Se con «capitalismo» si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell'impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell'economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di «economia d'impresa», o di «economia di mercato», o semplicemente di «economia libera». Ma se con «capitalismo» si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell'economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa”. (CA, 41-42)



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