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Politica - Notizie e Commenti
Il senso della misura Stampa E-mail
Gheddafi in visita a Roma. Ok, la realpolitik. Ma serviva proprio la pompa magna?
      Scritto da Giovanni Martino
15/06/09
Ultimo Aggiornamento: 31/08/10
Gheddafi e il rettore dell'Universitą La Sapienza, Frati
Gheddafi e il rettore dell'Università La Sapienza, Frati
Il realismo politico impone di tenere rapporti con tutti, anche con regimi non democratici. Non è solo questione di eventuali convenienze, ma può essere anche la condizione per stimolare l’evoluzione di quei regimi. Se c’è però la volontà per farlo; e se si ricorda che esiste una differenza tra dialogo e piaggeria.

Abbiamo bisogno di Gheddafi per le risorse energetiche e il controllo dei flussi migratorî?
Non dobbiamo però consentire che questo bisogno diventi per il nostro interlocutore un’arma di ricatto.

Non dimentichiamo, infatti, che La Libia ha finanziato per anni i movimenti terroristi di tutto il mondo (compresa L’IRA in Irlanda del Nord); ha organizzato l’attentato aereo di Lockerbie nel 1988 (responsabilità ammessa dal regime) e quello alla discoteca di Berlino nel 1986; ha invaso parte del Ciad dal 1975 al 1987; ha ordinato l’assassinio all’estero di numerosi dissidenti.
Anche se il colonnello Gheddafi ha sviluppato negli ultimi anni una politica più pragmatica, non dimentichiamo che il suo resta un regime autoritario al suo interno, e che usa sovente le armi del ricatto all’esterno.

Una maggiore sobrietà nell’accoglienza (organizzata non solo dal Governo, ma anche dalle principali forze d’opposizione), dunque, non avrebbe guastato.

Lo spettacolo dell’assegnazione di lauree honoris causa ce lo potevano risparmiare.
Ed anche quello di un dittatore che all’Università La Sapienza ci dà lezioni di democrazia, definendo il pluralismo basato sui partiti un “aborto di democrazia”, e spiegandoci che la parola “democrazia” deriverebbe non dal greco, ma dall’arabo: “Demos in arabo vuol dire popolo e crazi vuol dire sedia. Cioè il popolo si vuole sedere sulle sedie (!!!)” . (Tranquilli, è lo stesso Gheddafi che spiegava che Shakespeare era beduino, perché il suo nome significherebbe “sceicco Speare”...).
Così come non avremo voluto sentire il Presidente del Consiglio affermare, di fronte ai giovani di Confindustria, che il colonnello è "una persona intelligentissima, se è riuscito a stare al potere per 40 anni è perché sa il fatto suo". Perché è un dittatore no?
Il solo Fini ha avuto la dignità di annullare la conferenza organizzata alla Camera, senza aspettare i comodi del colonnello (che portava oltre due ore di ritardo).

(Nella sua visita dell'agosto 2010 il colonnello ha compiuto nuovi exploits.

Le "prediche" coraniche ad alcune centinaia di ragazze-immagine selezionate da agenzie, con l'invito alla conversione all'islam, preconizzato come futura religione europea.
C'è qualcosa di male a fare proselitismo religioso? In generale, no. Ma se questo proselitismo viene in maniera pubblica da un Capo di Stato ospite, ciò si traduce in una mancanza di rispetto per il Paese ospitante. Se poi il proselitismo viene dal
leader di un Paese in cui la libertà religiosa è ostacolata, la mancanza di rispetto sconfina nella sfacciataggine. Se, infine, i destinatari della "missione" sono selezionati tra ragazze di bell'aspetto, l'offesa si estende al sesso femminile, considerato "terra di conquista" e occasione di vetrina.

Rispetto a queste provocazioni, silenzio assoluto - o addirittura difesa imbarazzata - da parte del Governo italiano e della maggioranza (uniche isolate proteste quelle di Maurizio Lupi e Mario Mauro, con qualche distinguo di Giorgia Meloni e Stefania Craxi). A dire il vero, non servirebbero nemmeno pubbliche condanne: basterebbe che la nostra diplomazia facesse il suo lavoro normale, concordando con quella libica il programma della visita e il contenuto delle  esternazioni 'critiche'. 
Questo silenzio ha un effetto disastroso rispetto all'opinione pubblica islamica, la quale accresce il suo disprezzo verso l'Occidente, considerato - a ragione? - sensibile solo al denaro e privo di qualsiasi dignità spirituale.
O forse dovremo ringraziare Gheddafi, che ci apre gli occhi rispetto ad una strategia di islamizzazione che non è una fantasia paranoica....

Aggiungiamo alle provocazioni del leader libico il ricatto esplicito sulla questione immigrazione: "L'Europa, se non offre alla Libia 5 miliardi di euro annui (!) per fermare l'immigrazione non gradita, potrebbe diventare nera".
Emerge il cinismo di chi utilizza gli emigranti africani come merce di scambio; l'inaffidabilità di chi condiziona la sua collaborazione a continue nuove contrattazioni; nonché - ancora una volta - il disprezzo per gli Europei, considerati una massa di smidollati terrorizzati dalla prospettiva dell'uomo "nero").

L’accoglienza riservata al colonnello Gheddafi fornisce così un’ulteriore prova della debolezza della politica estera italiana. Un debolezza che non è imputabile al governo Berlusconi, ma che possiamo definire “storica”.

Nel confronto tra Stati, infatti, non è pensabile che siano sufficienti le arti – e le astuzie – diplomatiche. Non è possibile cercare di andare d’accordo con tutti a qualsiasi condizione, cercando di tenere il piede in più staffe, rinunciando ad esprimere una linea politica chiara.

Facciamo solo qualche esempio degli anni passati.
Noi eravamo nella NATO, ma avevamo un canale privilegiato con l’Unione sovietica che aveva pronti i piani d’invasione del nostro Paese. Impiantavamo fabbriche in Russia, avevamo floridi rapporti commerciali tramite società di import/export che finanziavano il PCI (e trasmettevamo anche qualche segreto militare?).
Eravamo solidi alleati degli Stati Uniti, ma facevamo a Gheddafi la soffiata per salvarlo dall’incursione aerea USA del  1986 (senza voler entrare nel merito dell’opportunità di quell’incursione). Il quale Gheddafi ci “ringraziava” lanciando un missile contro Lampedusa...
Sullo scacchiere mediorientale, cercavamo di strizzare l’occhio sia a Israele (difendendo il suo diritto ad esistere), sia ai Palestinesi , tributando onori ad Arafat anche quando questi difendeva le ragioni del suo popolo con il terrorismo.
E ci fermiamo agli anni della repubblica, senza andare ancora indietro nel tempo e scomodare i cambi di alleanza nelle ultime due guerre mondiali.

Le cause di queste oscillazioni?

Innanzitutto, un tratto caratteriale degli Italiani, che amano le posizioni sfumate.
Il che a volte è una virtù, perché tagliare i problemi con l’accetta e dimostrare scarsa flessibilità può essere segno di pericolosa ottusità. Ad esempio, il cambio di alleanza nel 1943 – anche se mal gestito – era necessario. Non aveva senso, per una malintesa fedeltà alla “parola data”, perseverare in una scelta iniziale errata e scellerata.
Ma la flessibilità diventa un vizio quando si manifesta come furbizia e opportunismo, per di più ripetuti nel tempo, e fa perdere ogni credibilità di fronte ai proprî interlocutori, che si convincono di non poter avere fiducia. Così anche alle nostre scelte giuste viene dato poco peso; e nel 1945 – per restare all’ultimo esempio – fummo esclusi dal tavolo dei vincitori cui partecipò la Francia, che pure aveva da farsi perdonare il regime di Vichy.

La nostra politica ondivaga dell’ultimo dopoguerra era anche dettata da una debolezza oggettiva: militare (derivante dalla difficoltà di recuperare fiducia nelle capacità delle nostre forze armate e consenso ad un loro impiego su scenarî internazionali) ed economica (il Paese doveva risollevarsi dal disastro bellico). Ebbene, si sa che la “coerenza” e la chiarezza, se non sono sostenute da un sufficiente potere di persuasione/dissuasione e di contrattazione, sono virtù che ottengono poco ascolto nel quadro internazionale, che si sottrae a norme giuridiche definite.

Il contesto di debolezza sembra oggi in parte superato.

L’Italia è una delle maggiori potenze economiche al mondo.
Ed è uno dei Paesi più impegnati nelle missioni di peacekeeping (le missioni militari a sostegno della pace e della stabilizzazione di scenarî conflittuali). È stato vinto anche il tabù dell’impiego di militari in azioni di combattimento: la guerra del Golfo nel 1991, i bombardamenti di Belgrado nel 1999 (sia pure definiti con reticenza dal Governo D’Alema azioni di “difesa attiva”), l’attuale missione in Afghanistan.
Intendiamoci: non vogliamo esprimere apprezzamento per le azioni militari che causano perdite di vite umane. Siamo convinti che le vie della pace sono sempre le migliori. Ma in alcuni casi, di fronte ad interlocutori senza scrupoli, costoro sono più disponibili ad accettare una pacifica collaborazione se sanno di non avere spazî per esercitare soprusi e prevaricazioni. Le azioni militari che abbiamo ricordato, anche se possono essere discusse nel merito, hanno oggettivamente mutato l’immagine di un’Italia incapace di difendere le proprie strategie politiche.

Eppure, permane un tratto di ambiguità nella politica estera italiana.

Ci rifiutiamo di accogliere il Dalai Lama per non dispiacere alla Cina che calpesta i diritti umani (ed in questo Berlusconi fa il paio con Prodi).
Tributiamo alti onori a leader autocratici come Putin o a dittatori come Gheddafi (ed in questo Berlusconi si distingue per gli eccessi della politica delle “pacche sulle spalle”).
Pensiamo di esser furbi, ma indispettiamo i nostri alleati (con l’America di Obama esistono già frizioni). 

Ancora una volta, giocano un ruolo il tratto caratteriale italiano e gli interessi economici.
Rispetto al passato, però, si tratta di elementi di cui potremmo avere maggior controllo.
Un conto è la grave debolezza economica di un Paese uscito prostrato da una guerra; altro conto sono gli interessi commerciali di alcune (poche) imprese, che meglio potrebbero essere difesi con una politica estera più ferma (come abbiamo analizzato nell’articolo sulla Cina).
Inoltre, la dipendenza energetica da pochi Paesi (tra cui Russia, Cina, Iran) non è una tragica fatalità. È il retaggio di una politica economica che non ha puntato abbastanza al risparmio energetico, né alla diversificazione delle fonti, dei mezzi  di approvvigionamento (ad esempio i rigasificatori), dei Paesi fornitori.

Il realismo e la necessità di difendere gli interessi economici non possono tradursi in cinismo, né essere slegati da una politica di più ampio respiro. Non richiedono necessariamente l’esaltazione dei dittatori. Non devono farci dimenticare dignità e senso della misura.



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