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Eluana Englaro: un "caso" giudiziario Stampa E-mail
Le incredibili pronunce dei tribunali che hanno consentito di far morire la giovane
      Scritto da Giovanni Martino
23/03/09

Ricostruendo la vicenda umana di Eluana Englaro, abbiamo visto come il padre della giovane si sia prestato  a fare del “caso Englaro” un caso politico, con l’obiettivo di introdurre in Italia l’eutanasia.

Un caso politico che ha assunto in particolare i connotati del caso politico-giudiziario, perché i fautori dell’eutanasia hanno battuto la strada (già percorsa altre volte dai sostenitori della cultura della morte) di aggirare per via giudiziaria i vincoli posti dalla legge e dalla volontà popolare.

Nel 1999 – sette anni dopo l’incidente - Beppino Englaro chiede una prima volta al tribunale di Lecco di poter interrompere l’alimentazione e l’idratazione della figlia, vedendo però respinta la sua istanza. Anche la Corte d’Appello di Milano respingerà l’istanza. Un secondo ricorso, nel 2003, viene dichiarato di nuovo inammissibile in primo grado ed in sede di reclamo, nonché dalla Corte di Cassazione. Beppino Englaro non si arrende e propone un terzo ricorso, dichiarato inammissibile in primo grado, ammissibile ma respinto in appello, sino alla svolta decisiva del 16 ottobre 2007: la Prima sezione civile della Corte di Cassazione apre alla possibilità di interrompere l’alimentazione.


La sentenza della Cassazione del 2007

La Suprema Corte (che non deve decidere nel merito dei casi, ma stabilire se i tribunali hanno applicato correttamente la legge), con la sentenza n. 21748/07, rinvia la decisione alla Corte d’Appello di Milano (che doveva giudicare nel merito), fissando un nuovo “principio di diritto” in base al quale assumere una decisione:

“Il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario [per “presidio sanitario” si intende il sondino naso-gastrico che garantisce alimentazione e idratazione, ndr] (...) in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”.

La sentenza della Cassazione merita di essere analizzata con attenzione, perché ha avuto un effetto dirompente nell’ordinamento giuridico italiano, nonché nel dibattito sociale e politico.

Fino a quel momento, infatti, apparivano chiari i principî che regolano la materia, in base ai quali i tribunali avevano più volte respinto i ricorsi di Beppino Englaro.  La legge italiana - il codice penale - vieta di togliere la vita a chiunque, non solo se manca il consenso della vittima (avremmo, ovviamente, un omicidio), ma anche se questo consenso esiste (si integrerebbero i reati di “omicidio del consenziente” – art. 579 del codice penale - o di “aiuto al suicidio” – art. 580).
Nell’interpretare la legge, appariva altrettanto pacifico che interrompere l’alimentazione e l’idratazione di un paziente – togliere cibo e acqua – significa privarlo della vita.


Le tesi ideali alla base della pronuncia della Corte di Cassazione

La Suprema Corte, invece, formula – come visto – un nuovo principio di diritto, che poggia su alcune tesi ideali di fondo, cui la Corte perviene con una serie di ragionamenti che non è ovviamente possibile analizzare dettagliatamente in questa sede, ma che appaiono – a chi vuole cimentarsi nella lettura integrale della sentenza – non puntualmente argomentati.

Le tesi ideali enucleabili sono: la vita è un bene disponibile; il concetto di “dignità della persona” è determinabile dal singolo individuo; la volontà di pazienti non in grado di intendere e di volere può essere “ricostruita”.

L’applicazione coerente delle tesi ideali enunciate dalla Corte – disponibilità della vita, determinabilità del concetto di dignità della vita, possibilità di ricostruire la volontà del malato – porterebbe direttamente (anche se la Corte formalmente lo esclude) alla legittimazione dell’eutanasia.
Non è una nostra estrapolazione arbitraria, ma la conclusione invocata apertamente da Paolo Barile, il costituzionalista che per primo, nel 1984 (nel suo Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, edizione Il Mulino), formulò quelle tesi. Barile non invocava sentenze “creative” della magistratura, ma riteneva che esistessero le condizioni costituzionali perché il legislatore introducesse – con le modalità e nei limiti descritti – una forma di eutanasia.

Sull’inaccettabilità del concetto di “disponibilità” della vita, e sui pericoli che comporta, rimandiamo a quanto abbiamo argomentato nel nostro articolo sull’eutanasia. Ribadiamo soltanto, sul punto di diritto, che l'art. 5 cod. civ., in tema di atti dispositivi del proprio corpo, e gli artt. 575, 576, 577, 579, 580 cod. pen., in tema di omicidio, esplicitano un principio ispiratore di fondo del nostro ordinamento che è quello dell’indisponibilità del bene della vita (tutelato dall'art. 2 della Costituzione, gerarchicamente preminente rispetto all'art. 32 e ad ogni interpretazione che di questo si voglia fornire).

Quanto all’idea che il concetto di “dignità della persona” possa essere determinabile dal singolo individuo, ci sembra evidente come ciò si traduca in una “privatizzazione” del diritto alla vita, sottraendolo alla tutela dell’ordinamento.
Nella sentenza della Cassazione in esame troviamo affermazioni tanto apodittiche quanto sorprendenti, come quella secondo cui il nostro Stato sarebbe “organizzato, per fondamentali scelte vergate nella Carta costituzionale, sul pluralismo dei valori”. Quali sono queste scelte? In quali articoli sono definite? Che portata hanno?
Quella della Corte appare piuttosto come una classica “formula anfibia”, un’enunciazione che vuole prestarsi a qualsiasi uso. Un manifesto del relativismo.
“Pluralismo dei valori” – persino quello della dignità umana – non significa forse, nell’accezione proposta, che nessun valore costituzionale è intangibile? Ma la Costituzione non è proprio la "Carta dei valori"?
Bisognerebbe piuttosto considerare che il pluralismo sociale è fondato sui valori comuni. In particolare, lo Stato nasce proprio per difendere non solo la libertà dei suoi consociati più deboli, ma ancor prima la vita e l’incolumità fisica, base di ogni libertà effettiva. Gli atti contro la vita non sono espressione di “libertà di scelta”, né atti “privati”.

La terza tesi sostenuta dalla Suprema Corte, ovvero che la volontà di pazienti non in grado di intendere e di volere possa essere “ricostruita”, assume nella pronuncia connotati sorprendenti.

Sono ritenute sufficienti le “precedenti dichiarazioni” del paziente, senza nessun requisito formale che attesti la consapevolezza, la determinatezza e la stabilità della volontà espressa. In aperta contraddizione col concetto di “consenso informato” ai trattamenti sanitarî, su cui la Corte fonda la disponibilità della vita.

Ma non basta. Sono ritenuti sufficienti, in assenza di volontà esplicita, anche “personalità”, “stile di vita” e “convincimenti”!
Lorenzo D’Avack ha opportunamente commentato: “Giovani liberi, tendenzialmente anticonformisti, un poco anarchici, dinamici, attivi, con qualche entusiasmo per lo sport, diventano così per la Corte i soggetti ideali per un presunto dissenso, ora per allora, verso terapie di sostegno vitale”.

Sennonché le stesse interpretazioni non valgono per decidere del patrimonio della persona priva di coscienza o deceduta. Il parente che pretendesse di modificare la destinazione dell’asse ereditario sulla base di testimonianze, o addirittura dello “stile di vita”, sarebbe considerato uno sprovveduto o un bel furbacchione.
La vita è forse meno importante del denaro?
In ogni caso, al di là di ogni considerazione morale, stabilire per un diritto “personalissimo” - come il diritto alla vita - un trattamento diverso dai diritti patrimoniali determina una grave e inammissibile mancanza di coerenza dell’ordinamento. Secondo un’icastica affermazione della Corte Costituzionale, “il valore essenziale dell’ordinamento giuridico di un paese civile” risiede “nella coerenza tra le parti di cui si compone; valore nel dispregio del quale le norme che ne fan parte degradano al livello di gregge privo di pastore” (sentenza n. 204 del 1982).

Si noti, peraltro, che in tutte le proposte di legge sul “testamento biologico” presentate in Parlamento, anche in quelle che si basano sulla più ampia disponibilità del diritto alla vita, la dichiarazione di volontà della persona dev’essere chiara e rispondere a precisi requisiti formali (scritta, depositata presso uno studio notarile o un ufficio pubblico, ecc.). 
Ne consegue che la “ricostruzione” della volontà sulla base della “personalità” o dello “stile di vita” risulta una tesi singolare sia rispetto all’ordinamento costituzionale sia rispetto al sentire comune delle forze politiche e sociali.

Aggiungiamo che la Corte ha affidato al tutore (il sig. Englaro) il compito di realizzare la volontà presunta del paziente incapace, sulla base di un’interpretazione estensiva degli artt. 357 e 414 cod. civ. che regolano i poteri del tutore. La Corte afferma che “la scelta del tutore deve essere a garanzia del soggetto incapace, e quindi rivolta, oggettivamente, a preservarne e a tutelarne la vita (e sin qui vengono fotografati i principî posti dalla legge, ndr). Ma, al contempo, il tutore non può nemmeno trascurare l’idea di dignità della persona dallo stesso rappresentato manifestata, prima di cadere in stato di incapacità, dinanzi ai problemi della vita e della morte (e qui la Corte, sulla base di tesi innovative e discutibili, contraddice quanto appena affermato – il fine vincolato dell’ufficio tutelare – e chiaramente espresso nell’ordinamento; ndr)”.

In definitiva: tesi ideali il cui contenuto ci sentiamo liberamente di non condividere. Frutto peraltro di una serie di ragionamenti che – come evidenziato inizialmente – appaiono non puntualmente argomentati.
Una conferma autorevole della debolezza dell’argomentazione verrà da una fonte insospettabile, la Corte d’Appello di Milano chiamata ad applicare la sentenza che stiamo analizzando. La Corte d’Appello – nel decreto di cui parleremo più avanti - ravviserà nel pronunciamento della Suprema Corte un “difetto di enunciazione dei fondamenti logici atti a giustificare l’operare delle condizioni limitative da essa dettate” (la stessa Corte d’Appello, peraltro, condividendo le tesi ideali della Cassazione, avrà la premura di integrare quei fondamenti logici carenti).


Alimentazione e idratazione sono un “trattamento sanitario”?

La Suprema Corte non si è limitata a introdurre nuovi principî di diritto. Ha anche valutato in maniera sorprendente alcuni elementi di fatto, come la qualifica da attribuire alla nutrizione mediante sondino naso-gastrico, o la reversibilità dello stato vegetativo.

Come detto, l’applicazione coerente delle tesi ideali enunciate – disponibilità della vita, determinabilità del concetto di dignità della vita, possibilità di ricostruire la volontà del malato – porterebbe direttamente (anche se la Corte formalmente lo esclude) alla legittimazione dell’eutanasia. Che però è vietata dal nostro ordinamento.

Consapevoli della difficoltà ad introdurre per legge l’eutanasia, i fautori di questa pratica suggeriscono da anni di aggirare il divieto con l’escamotage del rifiuto dei trattamenti sanitarî.
Se è vero che – in base all’art. 32 Cost. - la persona non può essere sottoposta contro la sua volontà a trattamenti sanitarî, ciò non significa, ovviamente, che la persona possa essere privata delle forme di assistenza elementare: nutrirla, dissetarla, coprirla per proteggerla dal freddo, lavarla (aggiungiamo anche le terapie mediche essenziali: disinfettare una ferita, somministrare un antibiotico, ecc.).
Come “ovviare” a questo problema? Semplice: basta cambiar nome alle cose, e definire “trattamento sanitario” la nutrizione mediante sondino naso-gastrico.

La nozione di "trattamento sanitario" viene ripresa nella sentenza della Cassazione. Questo punto nodale, su cui si è sviluppato tutto il successivo dibattito politico, è però affrontato in poche righe (all’interno di una sentenza di numerose pagine):
“ Non v’è dubbio che l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento sanitario. Esse, infatti, integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati come composto chimico implicanti procedure tecnologiche. Siffatta qualificazione è, del resto, convalidata dalla comunità scientifica internazionale; trova il sostegno della giurisprudenza nel caso Cruzan e nel caso Bland; si allinea, infine, agli orientamenti della giurisprudenza costituzionale, la quale ricomprende il prelievo ematico – anch’esso ‘pratica medica di ordinaria amministrazione’ – tra le misure di ‘restrizione della libertà personale quando se ne renda necessaria la esecuzione coattiva perché la persona sottoposta all’esame peritale non acconsente spontaneamente al prelievo’ (sentenza n. 238 del 1996)”.

La Corte, in altre parti della sentenza, sottolinea il valore della vita come “bene supremo” e l’importanza del principio solidaristico di assistenza alle persone più deboli. Ma tali enunciazioni di principio vengono svuotate con la ‘ridenominazione’ delle forme di assistenza. E le poche righe sul tema sembrano eludere il problema.

La debolezza dell’argomentazione emerge già al suo inizio: quel “non v’è dubbio” sin troppo perentorio è un mettere le mani avanti...

L’idratazione e alimentazione con sondino naso-gastrico sono poi definite en passant – come se fosse un dato acquisito – “artificiali”. La somministrazione ad un neonato di latte in polvere col biberon è anch’essa una forma di alimentazione “artificiale”?

La natura di “trattamento sanitario” sarebbe individuata dalla necessità di un “sapere scientifico”. Bisognerebbe però ricordare che si tratta dello stesso sapere scientifico che è alla base di tutta la nostra vita quotidiana moderna: se non ci fosse la tecnologia a preparare e confezionare gli alimenti e gli altri prodotti che consumiamo; a consentirne il trasporto e la distribuzione a milioni di persone che vivono lontane dai centri di produzione; a fornirci l’energia per le nostre attività più elementari, allora la sopravvivenza delle nostre società non sarebbe possibile
Il “trattamento” del sondino, poi, è talmente ‘complesso’ che – come ammette la stessa Corte – può essere portato avanti da non medici.

La Corte rileva altresì che tale “trattamento (...) consiste nella somministrazione di preparati come composto chimico implicanti procedure tecnologiche”: ma è quello che accade per quasi tutti gli alimenti confezionati moderni! Non dimentichiamo, peraltro, che l’uso del sondino aveva prevalenti ragioni di praticità ed efficacia. Eluana, come quasi tutti i malati in SVP, aveva intatta la funzione della deglutizione, e poteva essere imboccata con frullati e preparati liquidi “fatti in casa”.

La natura di “trattamento sanitario” – continua la Corte - sarebbe “convalidata dalla comunità scientifica internazionale”. Ma non si ritiene di dover documentare questa unanimità...
Noi potremmo citare l’appello diffuso il 15 luglio 2008 da un gruppo di 25 neurologi universitarî e del servizio sanitario (primo firmatario Gian Luigi Gigli, Professore Straordinario di Neurologia all’Università di Udine; e inoltre Sergio Barbieri, Direttore Neurofisiopatologia dell'Ospedale Maggiore di Milano e Professore Associato di Neurologia all' Università di Milano; Paolo Bergonzi, Professore Ordinario di Neurologia all'Università di Udine; Dario Caldiroli, Direttore Neuro-Anestesia e Rianimazione dell'Istituto Neurologico Besta di Milano; ecc.), i quali sostengono il contrario.
Oppure potremmo citare – sempre nel senso che “l’idratazione e la nutrizione di pazienti in SVP vanno ordinariamente considerate alla stregua di un sostentamento vitale di base” - il documento redatto dal Comitato nazionale di bioetica il 30 settembre 2005.

La Suprema Corte invoca poi il “sostegno della giurisprudenza nel caso Cruzan e nel caso Bland”!
Da quando in qua la Corte di Cassazione della Repubblica Italiana invoca il sostegno giurisprudenziale di sentenze di Stati esteri, con ordinamenti giuridici completamente diversi dal nostro?!

Infine, ci sarebbe l’allineamento con “gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale”: questo allineamento si baserebbe sull’equiparazione tra alimentazione e prelievo del sangue...

L'essenzialità dell'argomentazione su questo punto nodale, insomma, sconcerta.


Ma non dobbiamo correre il rischio di lasciarci impelagare nelle analisi tecniche, eludendo la domanda fondamentale: in qualsiasi forma avvenga, possiamo ritenere che la somministrazione di cibo e acqua sia un “trattamento sanitario”?
Un “trattamento sanitario”, una “terapia”, è “l’insieme dei provvedimenti adottati per combattere le malattie” (Devoto-Oli). Quale malattia si combatte con la nutrizione?

In merito alla valutazione di un ulteriore elemento di fatto, la reversibilità o meno dello stato vegetativo, la Corte sembra demandare tale valutazione al giudice di merito. In realtà, proprio il contemplare l’ipotesi dell’irreversibilità è una forzatura, perché “secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale” questa ipotesi non è acquisita.
La Corte parla di “coma vegetativo irreversibile” di Eluana, di “stato vegetativo permanente”, quando negli ultimi anni – come ricordiamo in un'altro articolo – larga parte della comunità scientifica preferisce parlare di stato “persistente”, o di stato vegetativo tout court, senza qualificazioni.
Inoltre: ammesso – e non concesso - che uno stato vegetativo possa essere considerato “irreversibile”, va ribadito che si tratta di una disabilità grave, non di una tappa verso una morte inevitabile. Come può questa diagnosi giustificare una condanna a morte?

Concludiamo l’analisi della sentenza della Corte evidenziando una singolarità procedurale. Una prima sentenza della Cassazione, nel 2005, aveva rigettato l’istanza di Beppino Englaro rilevando il difetto di partecipazione al procedimento di un contraddittore, da individuarsi nella persona di un curatore speciale della rappresentata incapace ex art. 78 c.p.c.
Nel nuovo procedimento avviato dal signor Englaro viene nominato questo curatore speciale, nella persona dell’avvocato Franca Alessio. La quale, però, aderisce alle istanze del tutore! Per cui abbiamo un “contraddittore”... che non contraddice! E la Suprema Corte non ha nulla da eccepire.


Il conflitto di attribuzione sollevato dal Parlamento

Quella della Corte di Cassazione appare una sentenza (come è uso dire in termini giuridici) “creatrice di diritto”. Nel senso che non si limita a definire un principio di diritto ricavato dalla legislazione vigente (la Corte di Cassazione ha la funzione di garantire la corretta e uniforme interpretazione delle leggi), ma introduce nell’ordinamento giuridico principî innovativi, sostituendosi al compito del legislatore.

Questo accade, si badi bene, senza che nemmeno vi sia un “vuoto legislativo” (come è stato impropriamente affermato da più parti), bensì in presenza di norme penali di segno contrario, rispetto alle quali il principio introdotto dalla Corte si pone come una sorta di esimente.

Non trovando un fondamento diretto alle sue tesi nella legge, la Corte cerca un fondamento indiretto negli articoli della Costituzione. I quali - come giustamente rilevato nel ricorso per conflitto di attribuzione che sarà presentato dalla Camera dei Deputati - sono “suscettibili di applicazione diretta in sede giudiziaria” solo nel “caso in cui il loro contenuto precettivo sia univoco ed autosufficiente, come tale in grado di assolvere ex se alla funzione di criterio esauriente di qualificazione della fattispecie”. Non è certamente il nostro caso.
Peraltro, se proprio ravvisava un fondamento costituzionale alle proprie tesi, la Corte avrebbe casomai dovuto sollevare la questione di costituzionalità sugli artt. 357 e 424 cod. civ., nella parte in cui precluderebbero la tutela del diritto alla salute nelle forme richieste dal tutore.

La difficoltà della Corte a trovare nel nostro ordinamento fondamenti alla propria sentenza è dimostrata altresì dal tentativo di suffragare le proprie tesi con una lunga digressione tra precedenti giurisprudenziali di altri Paesi (per inciso: tra le numerose sentenze citate, manca proprio quella relativa al caso Terri Schiavo, il più vicino a quello Englaro, e quello che aveva suscitato maggiore sconcerto nell’opinione pubblica internazionale...)..
Ma ciò attesta solo che in diversi Paesi si va diffondendo la tendenza a introdurre per via giudiziaria le nuove regole del libertarismo e della “cultura del benessere”; ignorando non solo i diritti naturali della persona, ma anche le volontà popolari.

Presidente della Sezione che si è pronunciata sul caso Englaro è il giudice Maria Gabriella Luccioli. Sul Corriere della Sera dell’11 luglio 2008 leggiamo che, dalla Prima Sezione civile della Cassazione, “a colpi di sentenze ha praticamente riscritto il diritto di famiglia”.

La convinzione che la Corte di Cassazione abbia invaso le prerogative del legislatore viene fatta propria da entrambi i rami del Parlamento, che presentano alla Corte Costituzionale ricorso per conflitto di attribuzione contro la sentenza della Cassazione e il decreto della Corte d’Appello che – come vedremo – ne ha applicato il dettato. I ricorsi sono approvati col voto di Pdl, Udc e Lega; contrarî Idv e radicali; il Pd, spaccato al suo interno, non partecipa al voto.
Il Giudice delle leggi, con l’ordinanza n. 334 dell’8 ottobre 2008, rigetta i ricorsi.

L’ordinanza non entra nel merito delle pronunce contestate (e, quindi, non “dà ragione” ai giudici), ma semplicemente dichiara l’inammissibilità dei ricorsi; con motivazione – invero – piuttosto sbrigativa: “questa Corte non rileva la sussistenza nella specie di indici atti a dimostrare che i giudici abbiano utilizzato i provvedimenti censurati - aventi tutte le caratteristiche di atti giurisdizionali loro proprie e, pertanto, spieganti efficacia solo per il caso di specie - come meri schermi formali per esercitare, invece, funzioni di produzione normativa o per menomare l'esercizio del potere legislativo da parte del Parlamento”.
E aggiunge: “la vicenda processuale che ha originato il presente giudizio non appare ancora esaurita, e (...), d'altra parte, il Parlamento può in qualsiasi momento adottare una specifica normativa della materia, fondata su adeguati punti di equilibrio fra i fondamentali beni costituzionali coinvolti”. Insomma, è come se la Corte dicesse: “Caro Parlamento, anziché sollevare un conflitto di attribuzione che – se accolto – creerebbe un mare di grattacapi, sbrigati ad approvare una nuova legge”. Una motivazione piuttosto ‘diplomatica’, che aggira il nodo giuridico e rimanda la palla al Parlamento, nel presupposto – non pacifico - che esistesse un vuoto legislativo da colmare.


Il decreto della Corte d’Appello di Milano del 2008

Dobbiamo però fare un passo indietro.

La Cassazione, nell’ottobre del 2007, ha definito il nuovo “principio di diritto” e rinviato il procedimento alla Corte d’Appello di Milano per la decisione nel caso concreto.

La Prima Sezione Civile della Corte d’Appello, con decreto del 9 luglio 2008, autorizza Beppino Englaro, in qualità di tutore, ad interrompere l’idratazione ed alimentazione di Eluana.

La Corte è chiamata innanzitutto ad appurare la reversibilità o meno dello stato vegetativo.

Su questo aspetto, ritiene intervenuto un “giudicato interno” (una decisione definitiva non più modificabile), determinatosi nel precedente decreto di altra sezione della Corte d’Appello (la Sezione “Persone Minori e Famiglia”, che peraltro nel 2006 aveva rigettato il ricorso dell’Englaro), la quale avrebbe appurato l’irreversibilità dello stato vegetativo.
O almeno – si corregge la Corte – è intervenuto un “effetto preclusivo endoprocessuale di stabilità/immodificabilità del tutto equiparabile al giudicato”.
Ebbene, valutare se sia o meno intervenuto il “giudicato” richiede di inoltrarsi in un’analisi di tecnica processuale, che i cultori della materia potranno effettuare direttamente leggendo la sentenza.

Noi possiamo qui sottolineare che nella ricostruzione che la stessa Corte fa di quel giudicato emerge la debolezza con cui è stata appurata l’irreversibilità dello stato vegetativo.

Per la qualificazione dello stato vegetativo, ci si è basati esclusivamente su una “Relazione tecnica redatta da un Gruppo di lavoro interdisciplinare”, che fa riferimento ad un elaborato pubblicato dalla MultiSociety Task Force on PVS, considerato, sempre dal Gruppo di lavoro, “la migliore sintesi scientifica e clinica oggi disponibile”. Dall’autorevolezza di questo parere la Corte fa discendere “l’ininfluenza di eventuali opinioni minoritarie”.
A dire il vero, le opinioni diverse non sono assolutamente “eventuali”, e - come segnalato - nemmeno minoritarie.

Peraltro, la stessa Corte ritiene necessario puntellare l’attendibilità del parere formulato dal Gruppo di lavoro.
Evidenziando che tale relazione non è “mai stata posta in dubbio da alcun contraddittore processuale” (ma come poteva accadere se la curatrice speciale, nominata a questo scopo, ha rinunciato al suo compito, addirittura aderendo alle richieste del tutore?! Il pubblico ministero intervenuto nel nuovo procedimento, peraltro, pur non contestando apertamente la relazione esaminata nel giudizio precedente, chiede una perizia medica che la Corte non concederà).
La Corte d’Appello precisa altresì che “la Suprema Corte non ha stabilito affatto di quali mezzi di prova o di valutazione della prova debba avvalersi il Giudice di merito” e che manca “una disciplina legislativa di carattere prescrittivo in ordine all’eventuale necessità od opportunità di consultare istituzionali organi tecnici o specifiche commissioni mediche”.
E conclude che l’opinione del Gruppo di lavoro può essere “quanto meno equiparata a quella di un C.T.U.”.

In una materia tanto delicata sarebbe stato doveroso attenersi ad un principio di precauzione (che nel dubbio imporrebbe di non adottare scelte irreversibili), anziché invocare i formalismi procedurali.

Per la valutazione concreta delle condizioni di Eluana, poi, ci si è basati esclusivamente su una relazione medica redatta dal prof. C. A. Defanti.


Nel procedimento senza contraddittorio emerge un’Eluana diversa da quella reale

Ad ogni modo, la Corte d’Appello ritiene di dover “procedere con carattere di novità alla sola indagine riguardante (...) la ricostruzione della ‘volontà presunta’ di Eluana”.

Ebbene, in questa ricostruzione emergono più che mai le lacune di un procedimento in cui si è verificata una drammatica carenza di contraddittorio.

Sono state acquisite esclusivamente le prove e le testimonianza addotte dal signor Englaro; che saranno però in parte contraddette, successivamente, da ulteriori elementi che emergeranno quando il caso Eluana diventerà di risonanza nazionale (e però sarà troppo tardi dal punto di vista processuale).

Nel decreto, ad esempio, si evidenzia che “Eluana non era una cattolica praticante, ma anzi piuttosto ribelle alle regole che una qualunque istituzione pretendesse di imporle dall’alto”; e che, negli anni in cui aveva frequentato “un liceo linguistico privato gestito da suore (...) perché non vi era in loco altro liceo linguistico pubblico” si era “dovuta adattare ad un contesto ambientale e ad un corpo docente che, nel giudizio di Eluana, sarebbero stati del tutto refrattari al confronto e al dialogo, mentre lei considerava questi ultimi di essenziale importanza”.
Ebbene, dopo la conclusione del procedimento giudiziario emergerà (pubblicata su Avvenire dell’8 luglio 2008 e riproposta nella trasmissione Porta a Porta del 3 febbraio 2009) una lettera di Eluana a suor Rina Gatti, sua ex insegnante di Lettere al liceo. Questa lettera era stata scritta poche settimane prima di morire, per formulare  gli auguri di Natale: segno evidente che la ragazza non conservava un ricordo così malvagio del suo “corpo docente” liceale. Ma leggiamo cosa scriveva Eluana a suor Rina: “Ho deciso di ricominciare con te” che sei “la mia educatrice”. “Volevo dirti sinceramente che mi manchi”. “E adesso chi mi sgrida quando ne combino una delle mie?” Insomma, emerge un quadro di affetto personale e di profonda stima per il ruolo educativo svolto da quel’insegnante: l’esatto contrario del quadro disegnato nel decreto della Corte d’Appello!

Nella stessa lettera Eluana comunica a suor Rina “una supernotizia”: “Ho cambiato facoltà e... per la tua gioia sono andata in Cattolica. Mi trovo molto bene! Ho professori eccezionali. Pensa te che da quando sono iniziate le lezioni, il 6 novembre, non ho perso neanche una lezione. Sono brava”. Non solo stima per un’insegnante cattolica, ma anche per le istituzioni educative cattoliche!
Eppure, nel decreto della Corte d’Appello, il passaggio di facoltà di Eluana (che in precedenza era iscritta a Giurisprudenza presso la Statale) viene rammentato; ma viene presentato come un esempio della “irrefrenabile esplosività” di Eluana, omettendo di evidenziare che la nuova Università scelta era la Cattolica...

La Corte d’Appello, nel delineare “personalità”, “stile di vita” e “convincimenti” di Eluana, ovvero la sua "Weltanshauung" (in una ragazza di vent’anni?), si basa essenzialmente sulla testimonianza di Beppino Englaro e di tre amiche della ragazza, chiamate a deporre dallo stesso Beppino. Tre amiche, su decine che Eluana ha frequentato negli anni della sua adolescenza.

Anche queste amiche offrono un ritratto di Eluana come persona dotata di uno “spiccato spirito di libertà e di indipendenza”. E riferiscono alcuni episodi relativi a comuni amici vittime di incidenti stradali, nei quali Eluana avrebbe detto di considerare intollerabile una condizione di vita non pienamente cosciente.
Ebbene: l’avvocato Rosaria Elefante, che sarà promotrice di un’istanza in difesa di Eluana presso la Corte europea per i diritti dell’uomo, ha raccolto numerose testimonianze di altre amiche di Eluana, che offrono un quadro diverso da quello disegnato dalle amiche chiamate a deporre.

Nella valutazione degli elementi di prova raccolti, del resto, la Corte non sembra molto esigente.

Beppino Englaro è considerato attendibile per “il suo atteggiamento pacato, ma fermo e preciso nel delineare la figura di Eluana”. Può bastare.
Sennonché, poche settimane prima della morte della ragazza, Pietro Crisafulli, fratello di Salvatore – l’uomo uscito dallo stato vegetativo -, offrirà una testimonianza diversa. Racconterà di aver incontrato Beppino per offrirgli conforto e spronarlo a non privare Eluana dell’assistenza necessaria; e di aver ricevuto dal signor Englaro la confidenza che era ormai stanco ed esasperato, e che aveva ricostruito la presunta volontà di Eluana per porre fine ad una situazione che gli sembrava ormai insostenibile. Non possiamo prendere per oro colato questa testimonianza; ma di certo la Corte non si è data pena di ponderare l’attendibilità di Beppino.

Le testimonianze delle amiche di Eluana sono considerate attendibili perché “[non] sussisteva o sussiste alcun apparente motivo per giudicarle diversamente”. Punto.
L’idea che un’amica di Eluana possa avere la stessa convinzione manifestata da molti commentatori, cioè che lo stato vegetativo non sia una condizione “dignitosa”; e che, in base a questa convinzione, sia stata chiamata a deporre dal tutore e possa aver offerto una testimonianza con la quale pensava di far del bene ad Eluana, è un’idea che non sfiora neanche la Corte.

Laddove il pubblico ministero ipotizza fuggevolmente che la formazione cattolica di Eluana possa costituire un elemento dissonante rispetto a quelli forniti dalle testimonianze, la Corte precisa che “l’insieme di elementi informativi [raccolti] (...), qualunque sia il grado di efficienza probatoria che gli si voglia riconoscere, è comunque l’unico da cui emerga una qualche traccia un po’ più chiara sulla dimensione religiosa della personalità di Eluana”.
Dunque: della “efficacia probatoria” dubita la Corte stessa; la quale Corte non è però sfiorata dal dubbio che, in presenza di un “insieme di elementi informativi” scarno, proprio ad essa spetterebbe attivarsi per acquisire ulteriori elementi...

Incredibilmente, poi, nelle valutazioni della Corte, “un ulteriore e significativo elemento di conforto in ordine alla credibilità di quanto dichiarato dal Sig. Englaro deriva dalla già ricordata ‘convergente posizione’ assunta dalla curatrice speciale”.
Insomma: la curatrice speciale non fa il suo ‘mestiere’; non crea le condizioni del contraddittorio invocate dalla Cassazione nel 2005; non si applica a rintracciare e reperire ulteriori elementi di prova dissonanti dal quadro tratteggiato (e abbiamo visto che questi elementi c’erano). E questo per la Corte d’Appello è un “elemento di conforto”!

Questi elementi di prova vengono ritenuti dalla Corte “chiari, univoci e convincenti”...

Ma andiamo oltre gli aspetti procedurali, e ammettiamo che Eluana fosse uno “spirito libero”; ammettiamo pure che all’età di vent'anni (un’età di maturazione e di continua evoluzione del modo di vedere la vita), sulla base delle esperienze fatte sino ad allora, avesse sviluppato l’idea che la vita “vera” fosse quella pienamente cosciente.
Ciò porta necessariamente a concludere che Eluana avesse una “concezione della vita talmente radicata - anche in ragione del temperamento e del carattere - nei profili fin qui evidenziati, da apparire nemmeno facilmente soggetta ad ipotetici ripensamenti che potessero renderla inattuale solo per effetto del successivo trascorrere del tempo e delle esperienze”? Quali psichiatri sono stati consultati – oltre al parere di un’amica -  per queste ardite conclusioni sul “temperamento”? Ciò porta necessariamente a concludere che avrebbe preteso che le fossero interrotte alimentazione e idratazione, e avrebbe scelto di morire di fame e di sete?

Quello che la Corte di Cassazione aveva consentito in linea di principio (ricostruire una volontà presunta) la Prima sezione civile della Corte d’Appello realizza nel caso concreto. Trae conseguenze ‘logiche’, sulla volontà di Eluana, che a nostro avviso logiche non sono, e che ignorano – come detto in precedenza – ogni elementare principio di precauzione.
Alla ricostruzione della “personalità” e dei “convincimenti” di Eluana la Corte dedica molte pagine: e se in precedenza abbiamo lamentato (per la Cassazione) l'estrema essenzialità di alcune argomentazioni, qui restiamo colpiti per l’ampiezza e il dettaglio di conclusioni psicologiche tratte sulla base di pochi e flebili elementi fattuali.

La Corte d’Appello di Milano, dunque, autorizza l’interruzione di alimentazione e idratazione. “Non senza partecipata personale sofferenza”, ovviamente. E non senza disporre una serie di misure volte ad alleviare “l’eventuale disagio” (cioè l’agonia...) di Eluana, misure che saranno specificate in un apposito “protocollo” attuativo del decreto. Ma a che cosa servono queste misure se Eluana “non è cosciente” e non può soffrire?


L’epilogo

A questo punto il destino di Eluana è segnato.

Il caso politico e culturale si infiamma, ma la vicenda giudiziaria ha ormai imboccato una via senza ritorno.

Il Parlamento tenta la carta del ricorso per conflitto di attribuzione, di cui abbiamo già detto.

Il 31 luglio 2008 la Procura generale di Milano presenta ricorso in Cassazione contro il decreto della Corte d’Appello, eccependo che non è stata accertata con sufficiente oggettività l'irreversibilità dello stato vegetativo permanente della ragazza, e che non è stata disposta la perizia medica richiesta dalla Procura stessa.
Il 13 novembre le Sezioni unite della Cassazione – con sentenza n. 27145/08 - respingono il ricorso per difetto di legittimazione all’impugnazione, dicendo così l’ultima parola della vicenda giudiziaria.
Ancora una volta, dunque, come nel caso della Corte Costituzionale, non si entra nel merito delle pronunce precedenti.

In ogni caso, appare molto discutibile la motivazione addotta per contestare la legittimazione della Procura all’impugnazione: l’intervento della Procura non si giustificherebbe perché la vicenda Englaro non riguarda “un interesse generale e pubblico, ma una tutela soggettiva e individuale”.

Ora: la tutela del diritto alla salute è – per l’art. 32 Cost. – anche “interesse della collettività” (si pensi alle normative che impongono il casco o le cinture di sicurezza, al reato di omissione di soccorso, ecc.).
Il diritto alla vita, poi, è interesse eminentemente pubblico, tanto che per i reati che aggrediscono il bene della vita (reati di cui agli articoli del codice penale che abbiamo innanzi ricordato) si procede d’ufficio.

La Cassazione considera l’interesse vantato da Eluana come interesse individuale dal punto di vista procedurale, perché è stato regolato in un procedimento di giurisdizione volontaria, nel quale i poteri di intervento del pubblico ministero sono circoscritti (la Corte, peraltro, offre un’interpretazione sin troppo restrittiva dell’ambito di questi poteri d’intervento).
Se però aderissimo alla tesi della Corte, dovremmo assumere che la Procura avrebbe dovuto procedere non in via incidentale nel procedimento civile, ma promovendo direttamente un procedimento penale. Perseguendo quale reato? Tentato omicidio? Sarebbe possibile formulare questa accusa nei confronti di chi agisce (il tutore di Eluana) in base all’autorizzazione di un tribunale? E se fosse possibile formulare questa accusa, considerando l’autorizzazione della Corte d’Appello contra legem, e quindi non valida come scriminante, non verrebbe legittimato un conflitto tra giurisdizioni?
Insomma, la Corte inibisce la tutela privatistica di un bene pubblico senza individuare le modalità con cui questo bene può essere tutelato dall’ordinamento!

Se la vicenda giudiziaria italiana si chiude, resta un’ultima speranza per Eluana: 34 associazioni – tra cui quelle che riuniscono i familiari di malati cerebrolesi gravi – presentano un ricorso alla Corte europea per i diritti dell’uomo contro il decreto della Corte d’Appello di Milano.
Anche questo ricorso, il 22 dicembre, viene respinto per mancanza di legittimità ad agire.

Secondo la Corte, le associazioni ricorrenti “non hanno nessun legame diretto” con Eluana, e non verrebbero lese in nessun diritto dall’esecuzione del decreto della Corte d’Appello.
Le legittime preoccupazioni di malati che non vogliono rischiare lo stesso destino di Eluana non vengono tenute in conto. Ma è evidente che la Corte europea ha inteso semplicemente liberarsi da una patata bollente: entrare nel merito di una questione – l’eutanasia – che è regolata diversamente nei Paesi europei avrebbe suscitato un vespaio politico.

Il 6 febbraio 2009 viene dato inizio al “protocollo” che interrompe l’alimentazione e l’idratazione di Eluana. Nella stessa giornata il caso Englaro diventa anche conflitto istituzionale tra il Governo e la Presidenza della Repubblica. Il governo Berlusconi approva un decreto legge per fermare la procedura che sta portando alla morte della Englaro; il presidente Napolitano si rifiuta di firmare tale decreto, con una decisone che – come abbiamo dettagliatamente illustrato  – è apparsa sorprendente e fuori dai binarî costituzionali.

Il 9 febbraio Eluana Englaro cessa di vivere. È la prima volta, nella storia della Repubblica Italiana, che una persona muore per una sentenza (o un decreto) di un tribunale.



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