PRIMA PAGINA
faq
Mappa del sito
Temi caldi
Temi caldi
Notizie
Attualità
Politica
Economia
In Europa
Nel Mondo
Contrappunti
Intorno a noi
Città e Quartieri
La Regione
Religione
Notizie e commenti
Cattolici e politica
Documenti ecclesiali
Link utili
Cultura
Libri
Cinema
Musica
Fumetti e Cartoni
Teatro
Arte ed eventi
Storia
Scienze e natura
Rubriche
Focus TV
Sport
Mangiar bene
Salute
Amore e Psiche
Soldi
Diritti
Viaggi e motori
Tecnologia
Buonumore
Login Utente
Username

Password

Ricordami
Dimenticata la password?
Indicizzazione
Convenzioni


Economia - Notizie e Commenti
La crisi finanziaria (2): la cultura del debito e dei soldi facili Stampa E-mail
I debiti degli Stati, di istituti finanziarî e imprese, dei consumatori. Le virtù del risparmio
      Scritto da Giovanni Martino
03/11/08
Ultimo Aggiornamento: 25/03/13

il credito al consumo non è infinito...In questi mesi abbiamo letto numerose analisi, da parte di insigni economisti, sulle cause della crisi. Analisi molto interessanti, certo. A dire il vero, però, non sempre concordanti; a volte strumentali o reticenti (anche gli economisti hanno simpatie politiche o consulenze di istituti finanziarî...); quasi sempre, in ogni caso, lontane dalla nostra esperienza comune. Roba da specialisti, insomma.

Abbiamo già provato, in un precedente articolo, a inquadrare questa crisi nelle sue linee generali.
Vorremmo ora mettere a fuoco un aspetto che ci riguarda più da vicino: i nostri comportamenti (volontarî o indotti) hanno contribuito in qualche misura alla crisi? In caso affermativo, che strumenti abbiamo per difenderci?

Per rispondere a queste domande, bisogna sgombrare il campo da un equivoco: quello per cui una crisi “finanziaria” sia opera esclusivamente di “finanzierî e speculatori”.
In realtà, come abbiamo visto, la finanza è strettamente legata all’economia. Siamo tutti operatori economici e – in qualche misura – finanziarî: i nostri comportamenti possono influenzare, in bene o in male, non solo le nostre “finanze” personali, ma anche quelle comuni.

Quali sono, dunque, i comportamenti collettivi che hanno contribuito, in diversa misura, alla crisi finanziaria che stiamo vivendo?

Una delle cause è stata il diffondersi di una deleteria cultura del debito e dei soldi facili; l’idea, cioè, che si possano consumare beni spendendo soldi che non sono stati guadagnati col lavoro (ovviamente, anche imprenditoriale); la presunzione, insomma, di vivere al di sopra delle proprie possibilità, di espandere indefinitivamente i proprî desiderî, di fare “il passo più lungo della gamba”.
Concentrarsi su questo aspetto non significa voler assolvere i finanzierî spregiudicati, dimenticare l’importanza di richiedere l’applicazione di nuove e più severe regole per le operazioni finanziarie. Significa semplicemente avere una visione complessiva dei problemi, saper cogliere – senza un facile scaricabarile – anche quello su cui abbiamo margini d’intervento più diretti.

Attenzione: il debito, visto in un’ottica complessiva, non va demonizzato. Sul credito/debito si fonda la finanza che, come abbiamo visto, fornisce i mezzi per l’attività economica.
Il debito costituisce l’attualizzazione del reddito futuro. Se effettuo oggi investimenti con parte del reddito di domani, potrò incrementare quel reddito più di quanto sarebbe possibile attendendo l’accumulo delle risorse necessarie. Altrimenti, avremmo economie stagnanti.

Ciò premesso, bisogna aggiungere che, perché il debito sia virtuoso, bisogna guardare con attenzione a natura e dimensioni dello stesso.
Quanto alla natura, il debito virtuoso è essenzialmente quello contratto per effettuare investimenti (acquisto di beni capitali, infrastrutture) produttivi. O anche consumi capaci di accrescere il capitale umano (salute, istruzione). Solo questo è il debito in grado di accrescere il reddito futuro.
Quanto alle dimensioni del debito, queste devono essere sostenibili: il legame tra finanza (credito) ed economia reale non può essere reciso. Posso indebitarmi solo nella misura in cui prevedo di poter saldare questo debito, nella misura in cui le spese effettuate a debito siano effettivamente capaci di accrescere il reddito in misura più che proporzionale. Perché ciò sia possibile, non bastano alchimie finanziarie: servono il lavoro e la creatività imprenditoriale.

Non si dimentichi, peraltro, che il debito non è l’unica fonte di reperimento di risorse finanziarie per le imprese.
L’uso del debito per finanziare le imprese si era diffuso sin dal Duecento, a Firenze.
Il “capitalismo” vero e proprio nasce nel Settecento, con la scoperta di un nuovo metodo per consentire il reperimento di risorse finanziarie, un metodo che consente un salto di qualità all’espansione delle imprese e alla crescita economica: l’acquisizione di “capitale” mediante l’ingresso di soggetti terzi (gli azionisti) nella proprietà dell’impresa.
Gli azionisti apportano capitale e condividono il rischio imprenditoriale: resta in piedi un'etica della responsabilità.

Quando puntiamo l’indice contro una “cultura” del debito, quindi, non intendiamo mettere in discussione l’idea stessa del debito/credito quali strumenti finanziarî. Intendiamo segnalare i guasti di una mentalità e di una pratica che hanno reciso il necessario legame tra debito e reddito, tra finanza ed economia reale.


Il debito pubblico e le politiche monetarie dei tagli ai tassi d'interesse

La cultura del debito si è espressa innanzitutto nei comportamenti degli Stati, che nei decenni passati hanno finanziato col debito pubblico spese non coperte dalle entrate fiscali correnti. Produrre debito pubblico (e l’Italia ha uno di quelli più drammatici) significa scaricare i costi delle spese sostenute sulle generazioni future; significa dover emettere titoli obbligazionarî (BOT, CCT, ecc.) per finanziare questo debito, e pagare fior d’interessi (uscite che pesano sulle finanze pubbliche venendo sottratte a investimenti e servizi); significa sostenere sforzi immensi quando è necessario seguire una politica di rientro dal debito, ad esempio perché gli investitori hanno meno fiducia e chiedono tassi d'interesse più alti, oppure perché gli altri Stati con i quali condividiamo una moneta comune non vogliono che sia scaricato su di loro il peso del nostro debito (ed è quello che si è verificato a partire dal 2010 con la crisi della Grecia che rischia di travolgere l'euro).

Stendiamo poi un velo pietoso sull’iniziativa assunta da molti enti pubblici di acquistare i “derivati”, cioè ...

Qualche fautore del debito pubblico fa appello al concetto di economia keynesiana. In realtà, un intervento diretto dello Stato finanziato a debito si giustifica solo in casi eccezionali (politiche anticicliche), come effettivamente sono quelli che stiamo vivendo. E questo debito deve essere abbattuto nelle fasi di sviluppo dell'economica. Se invece l'indebitamento diventa la norma, crea i problemi che abbiamo ricordato, oltre a ridurre gli spazi di libertà dei cittadini (più tasse, più clientele, ecc.).
Qualche altro irriducibile fautore della spesa pubblica si appella alla necessità di non tagliare i “servizi”. Possiamo discutere su quanto debba essere ampio l’intervento dello Stato, sulla corretta individuazione dei beni pubblici e di quelli tutorî. Ma dovremmo aver chiaro che i servizi non possono essere finanziati a debito, nell’illusione che “tanto paga Pantalone”...

Un ulteriore errore delle politiche pubbliche è stato nella politica monetaria, soprattutto americana, che ha mantenuto tassi di sconto per il prestito di moneta troppo bassi. Il taglio dei tassi ha stimolato l'indebitamento dei consumatori americani e delle imprese. Se il tasso reale (depurato dell'inflazione) è molto basso, ciò crea l'illusione ottica che sia facile restituire il debito (il quale, però, non è composto solo dagli interessi, ma anche dal capitale...).
Quanto agli investimenti, dovrebbero sì produrre un ritorno. Ma il tasso d’interesse serve proprio a selezionare gli investimenti realmente remunerativi.
Nei suoi studî Ludwig von Mises dimostrò che le politiche di espansione monetaria (prestiti facili) producono cattivi investimenti; spiegò la "trappola della liquidità”, ossia che il beneficio del taglio dei tassi d’interesse è sempre decrescente (e ce ne stiamo accorgendo in queste settimane); contestò duramente la tesi astrattamente ideologica degli economisti keynesiani, i quali – in un documento dell’8 aprile 1943 – sostenevano che l’espansione monetaria produce il “miracolo (...) di trasformare le pietre in pane”.

Se è vero che la responsabilità della politica monetaria non è dei Governi, ma delle Banche centrali, è anche vero che i Governi hanno a più riprese fatto pressioni perché le Banche centrali allentassero la loro politica monetaria, pensando che fosse la scorciatoia per garantire sviluppo senza fare riforme. Col senno di poi, va dato merito alla Banca Centrale Europea, che più di quella statunitense e di quella britannica ha saputo resistere alle pressioni.

Ebbene: di fronte ai comportamenti irresponsabili degli Stati, siamo proprio noi cittadini elettori che abbiamo il potere (non sempre facile da esercitare, d’accordo) di punire i politici propugnatori di una politica di indebitamento stabile.


Il debito privato: gli istituti finanziarî

Se l’Italia ha un ingente debito pubblico, altri Paesi hanno un ingente debito privato (che peraltro si va diffondendo anche da noi).

La cultura del debito è stata assorbita, innanzitutto, dagli istituti finanziarî (banche, assicurazioni).
Che questa cultura vada messa sul banco degli imputati non lo sostengono critici illiberali e antimoderni, ma economisti come Gary Becker, premio Nobel nel 1992, tra i più autorevoli esponenti della Chicago School of Economics (la roccaforte del pensiero liberale neoclassico, la scuola di von Hayek, Friedman, Lucas, Stigler). Ebbene, in un’intervista rilasciata il 21 ottobre a Il Sole 24 Ore, Becker ha affermato: “Io credo che l’elemento più serio che ha portato alla crisi sia stato l’enorme indebitamento delle istituzioni finanziarie”.

Gli istituti finanziarî hanno incoraggiato l’indebitamento a rischio dei risparmiatorî, di chi voleva accedere al credito al consumo, di chi voleva accendere il mutuo per un acquisto immobiliare. Hanno concesso (soprattutto nei Paesi anglosassoni) prestiti ad alto rischio, come i mutui subprime, che sono tra le cause della crisi internazionale. Hanno rifinanziato i creditori insolventi (anche dei semplici conti legati a carte di credito) concedendo nuove linee di credito a tassi debitorî sempre più alti.

Gli istituti finanziarî stessi hanno alimentato il debito, in maniera irresponsabile, anche col meccanismo della “leva finanziaria”, che consente investimenti per importi pari a 40-50 volte l’importo disponibile. I “derivati” (prodotti il cui valore è calcolato come scommessa sul valore di altri prodotti sottostanti), quando non si limitano a essere strumento per proteggersi da un rischio (ad esempio il rischio di cambio), utilizzano proprio la leva finanziaria: chiunque vinca o perda la scommessa, si crea un debito difficilmente estinguibile anche nel lungo termine.
I derivati sono stati definiti dal 'mago' della borsa Warren Buffet “armi finanziarie per la distruzione di massa”: una bomba che ancora deve esplodere... I derivati in circolazione hanno un valore nozionale di 580mila miliardi di dollari (!), di cui appena 40mila quotati, valore pari a circa 11 volte il PIL mondiale di un anno: si capisce bene come si sia reciso il legame tra debito e valore reddituale reale (anche futuro).

Gli istituti finanziarî hanno pensato di assicurarsi sugli enormi rischi che correvano mediante la tecnica di rifilare i “derivati” - come visto - agli enti pubblici. O spezzettandoli in prodotti assicurativi od obbligazionarî altamente complessi, i cosiddetti "strutturati" (perché basano i proprî rendimenti su diversi parametri economici e prodotti sottostanti, e sulla base di numerose variabili e di equazioni matematiche particolari): prodotti talmente complessi che l'alto rischio diviene difficilmente percepibile, e possono essere così venduti ai risparmiatorî o ad altri istituti.
Gli istituti finanziarî sono però restati insolventi quando troppe scommesse hanno iniziato ad andar male (per cui gli artifici descritti non sono serviti); o quando hanno fondato il proprio stato patrimoniale su crediti basati su tali prodotti, divenuti carta straccia per l'insolvenza del debitore. Un pericolo che, come detto, non è affatto esaurito...

Insomma: nella rincorsa del profitto di brevissimo termine, gli istituti finanziarî hanno ottusamente ignorato la sostenibilità nel tempo di tali profitti.
Anziché valutare il rischio dei crediti concessi, hanno venduto il rischio, abbandonando ogni etica della responsabilità.

Inoltre, le banche hanno accelerato la crisi del sistema perché, quando era divenuta evidente l'entità delle proprie perdite, hanno paralizzato il mercato finanziario, rifiutandosi non solo di comprare, ma anche di vendere i titoli "tossici" in proprio possesso. Vendere avrebbe significato consolidare le perdite, e costringere così gli azionisti a ricapitalizzare (con la conseguente, inevitabile estromissione dei vertici bancarî). Invece, hanno scelto la strada di attendere l'intervento pubblico...

La maggiore solidità delle banche italiane è dovuta ad una minore propensione all’indebitamento, ad un minor uso di strumenti finanziarî speculativi come i derivati. Una solidità determinata anche da un più efficace esercizio dei poteri di vigilanza da parte della Banca d’Italia (un merito che va ascritto anche al precedente Governatore, Antonio Fazio, come gli è stato – tardivamente – riconosciuto da Pierluigi Bersani e Matteo Colaninno, esponenti di quella stessa sinistra che aveva fatto parte dello schieramento che aveva “scaricato” Fazio).

Questa degenerazione ci vede solo spettatori impotenti?

Molto avrebbe potuto (e dovuto) fare la politica, definendo regole che impongano più chiare responsabilità per gli operatori che propongono senza trasparenza prodotti a rischio, per i vertici bancarî che non tengono in ordine i bilanci, per i supervisori che non supervisionano.

Ma gioverebbe anche una maggiore oculatezza dei risparmiatori nella scelta dei prodotti finanziarî.


Il debito privato: le imprese

La cultura del debito è stata assorbita anche dalle imprese, che hanno avuto un accesso al credito molto facile, visti i bassissimi tassi d’interesse. Abbiamo visto che l’indebitamento “virtuoso” è proprio quello che finanzia gli investimenti. Però è necessario che gli investimenti siano oculati, che i tassi di ritorno siano previsti con accuratezza.

La responsabilità degli eccessivi tagli ai tassi d'interesse è ovviamente delle autorità monetarie, non degli imprenditori. Ma quanti nuovi “imprenditori” si sono messi sul mercato, o hanno fatto progetti di espansione, con superficialità? Quanti giovani hanno chiesto a genitori e banche soldi in prestito per “aprire un pub”, senza aver studiato da imprenditori, pensando di svolgere un’attività lavorativa come un’altra? Poi gli affari vano male, e si finisce sul lastrico...

Nelle grandi società a capitale diffuso, la debolezza dei piccoli azionisti ha favorito uno scollamento tra management e azionariato. Il management è diventato autoreferenziale, ha basato le politiche societarie solo sui profitti di brevissimo termine (addirittura trimestrali), ai quali commisura i proprî compensi. Il conto economico ha soppiantato lo stato patrimoniale, la redditività finanziaria quella industriale. Ne hanno risentito la responsabilità delle scelte industriali, la stabilità societaria, la capacità di produrre redditi a lungo termine.

Una degenerazione particolare della cultura del debito applicata alle imprese sono le società di private equity, che acquistano gruppi anche molto più grandi indebitandosi e trasferendo il debito nella società acquistata. I profitti di questa società, quindi, non sono più disponibili per investimenti e dividendi, ma sono impegnati negli oneri finanziarî. Col rischio che il gruppo venga “ristrutturato” e spezzettato, vendendo le parti più appetibili e abbandonando al fallimento le altre...


Il debito privato: i consumatori

La cultura del debito, infine, è stata assorbita dai consumatori.

Il credito al consumo non è una delle migliori abitudini degli Americani, che hanno una media di 13 (!) carte di credito a famiglia. Un’abitudine che inizia ad assumere proporzioni esagerate anche in Europa.
Se a quello si somma l’indebitamento per acquisti immobiliari, si vede come l’indebitamento complessivo delle famiglie sia cresciuto dal 2001 ad oggi: dal 70% al 90% del reddito annuo nella zona euro, dal 100% al 135% negli USA, dal 110% al 160% in Gran Bretagna. Ma se l’indebitamento era garantito da valori immobiliari artificialmente alti, il crollo di quei valori fa venir meno la possibilità di rimborsare il debito o di ottenere nuove dilazioni.
I consumatori italiani - come le banche italiane - in questo campo sono ancora “arretrati”; e ciò renderà la crisi meno dura che altrove.

L’illusione ottica è facile: con “un caffè al giorno” per tre anni, ti porti a casa un televisore al plasma. Con un’altro “caffè al giorno”, ti paghi la settimana bianca. Con 159 euro al mese, ecco la macchina sportiva (peccato che ci vogliano anche 10.000 euro di anticipo e altri 10.000 di saldo...). Caffè su caffè, i debiti si sommano senza che te ne accorga e alla fine... ti rendono davvero nervoso!

Qualcuno potrebbe osservare: “solo i ricchi hanno i soldi contanti per pagarsi gli acquisti”. Non è così.

Innanzitutto, i debiti si fanno quando sono necessarî. Il mutuo per la prima casa, certo, lo è.
O quando sono “produttivi”, cioè capaci di accrescere il reddito futuro (spese per istruzione, salute).
Ma possiamo ritenere “necessarî” o “produttivi” i debiti per acquistare prodotti di consumo? Il nuovo modello di televisore o di automobile (o addirittura la vacanza esotica), forse, sono indispensabili solo se si cade nel gorgo consumista...

In secondo luogo, la rateazione di un acquisto conviene effettuarla senza chiedere finanziamenti, con un metodo vecchio e infallibile: risparmiare.
Infatti, se accantono mensilmente i soldi per pagare le rate di un prestito ottenuto, oltre al rimborso del prestito pago anche fior di interessi: il prodotto acquistato mi costa molto di più del prezzo di vendita.
Se invece accantono mensilmente e metto da parte le somme necessarie ai pagamenti futuri prevedibili (acquisti di beni di valore, spese d’istruzione per i figli, spese di ristrutturazione dell’appartamento, integrazione pensionistica), alla fine potrò acquistare gli stessi beni ad un prezzo inferiore, quello di vendita. In più, avrò evitato di regalare alla banca o alla società finanziaria i soldi degli interessi. Anzi: avrò guadagnato interessi sui soldi accantonati (che non avrò, ovviamente, messo sotto il materasso, ma investiti con oculatezza)! Serve solo la pazienza di dilazionare alcuni acquisti non necessarî o improduttivi.

Certo, per le nuove generazioni (parliamo anche dei quarantenni) è necessario un cambio di mentalità. Bisogna entrare nella prospettiva che il risparmio non è dato da quello che avanza dopo che ho speso per l’acquisto di quanto mi sembra utile o necessario. Al contrario: dopo che ho definito a monte i risparmi necessarî, sulla base delle prevedibili esigenze future, il reddito disponibile è quello che resta...
Non esiste solo il concetto di beni “utili”. Esistono beni di consumo che mi posso o non mi posso permettere, sulla base di una gerarchia di importanza definita razionalmente (e non sulla spinta delle promozioni pubblicitarie).

"Si fa presto a dire risparmio, quando non ci sono i soldi per arrivare a fine mese".
Abbiamo già approfondito il problema della crisi che colpisce salarî, pensioni e famiglie. Una crisi che chiama il Governo ad azioni incisive per ristabilire equità e potere d'acquisto (rimodulando la pressione fiscale).
L'attenzione alle difficoltà dei redditi più bassi, però, non cambia i termini del problema che abbiamo posto: il ricorso al credito (a meno che non sia dovuto ad esigenze impellenti) diminuisce ulteriormente il reddito disponibile.

Aggiungiamo che il risparmio ha una fondamentale funzione macroeconomica.
È vero che servono i consumi (secondo le possibilità di ognuno, ripetiamo) per stimolare la domanda e, quindi, la produzione di ricchezza e l’impiego di manodopera.
Ma servono anche i risparmi per finanziare gli investimenti.
C'è il timore che un calo dei consumi provochi la recessione? La soluzione è di stimolare i consumi restituendo - come detto - potere d'acquisto alle famiglie, e non stimolando l'indebitamento.

Le scorciatoie sono solo illusorie. Il “ritorno all’economia reale” di cui si parla è anche il ritorno alla consapevolezza che la ricchezza “vera” è quella prodotta con il lavoro (anche imprenditoriale). La finanza è importante se recupera la sua funzione corretta: non quella di gioco per fare soldi facili, ma attività per reperire i mezzi necessarî all'esercizio delle attività economiche.
Senza rinunciare ad una forte tensione etica, la cui mancanza - anche per le politiche di debito irresponsabili - è stata tra le cause della crisi finanziaria.



Giudizio Utente: / 9

ScarsoOttimo 




Ricerca Avanzata
Aggiungi questo sito ai tuoi preferitiPreferiti
Imposta questa pagina come la tua home pageHomepage
Agorà
Lettere e Forum
Segnalazioni
Associazionismo
Comunicati
Formazione
Dagli Atenei
Orientamento
Lavoro
Concorsi
Orientamento
Impresa oggi
Link utili
Informazione
Associazionismo
Tempo libero
Utilità varie
Link consigliati
Zenit.org
La nuova Bussola
   Quotidiana
Storia libera
Scienza e fede
Il Timone
Google
Bing
YouTube
meteo
mappe e itinerari
Google Maps e
  Street View
TuttoCittà Street
  View



Questo sito utilizza Mambo, un software libero rilasciato su licenza Gnu/Gpl.
© Miro International Pty Ltd 2000 - 2005