Gentile direttore,
l’intervento di Lorenzo in risposta alla mia precedente lettera mi dà l’occasione di approfondire alcuni concetti; anche se, come spesso capita, ogni ragionamento apre sempre più domande, specialmente se ci si sforza di pensare a come rendere concretizzabili le idee che esprimiamo.
L’ultima osservazione del Suo lettore è tuttavia di importanza eccezionale: le idee camminano sulle gambe di qualcuno, e se questo qualcuno non c’è si rimane nella teoria. La classe dirigente, la sua selezione e formazione, sono passaggi nevralgici di qualsiasi ragionamento; se non si è credibili negli uomini, le buone idee fanno poca strada.
Una ripresa in questo campo è doverosa, e la Chiesa Cattolica, che per noi rimane la fonte di iniziativa sociale, qualche interrogativo dovrebbe porselo.
Lo shock delle guerre mondiali ha prodotto una classe politica (in Italia e in Europa) eccezionale, con personalità di notevole spessore culturale. La gravità degli eventi ha spinto i cattolici ad un protagonismo che è andato affievolendosi con il passare del tempo. Altro tempo è passato da quando questo protagonismo sembra cessato: la memoria collettiva si indebolisce, quella delle nuove generazioni manca del tutto, si tende a dimenticare uomini, fatti, responsabilità, sentimenti, passioni. Venute meno certe esperienze dirette, la politica ha perso nei cattolici l’idea di priorità (qualcuno ricorderà la “scelta religiosa” dell’Azione Cattolica), e naturalmente il livello si è abbassato.
Non dispero, ma riconosco la difficoltà
La pratica religiosa cattolica ha sempre oscillato tra una vocazione mistica ed una vocazione sociale. L’incontro con le altre culture ed ideologie ha alternativamente fatto prevalere una vocazione sull’altra, creando nel tempo non poca confusione sul tipo di testimonianza da esprimere. Senza addentrarci sull’argomento, ci basta osservare che, da una parte, c’è l’idea di non occuparsi delle cose terrene (scienza, economia, politica); dall’altra, c’è l’idea che occuparsi delle cose terrene sia per il cattolico la missione precipua, o almeno principale. Cosicché, di volta in volta, i cattolici sono fortemente protagonisti o fortemente assenteisti.
Certo, la mancata individuazione di un equilibrio (peraltro naturalmente sempre dinamico) tra le due vocazioni evidenzia un deficit culturale. La Dottrina sociale della Chiesa ha speso moltissime energie nello spiegare le due vocazioni, ma l’applicazione pratica, risentendo della pressione di infinite variabili, è molto difficile. Mi sembra però che debba restare un punto fermo, anche nella difficoltà a definire l’equilibrio di cui ho parlato: qualunque sia la vocazione che un cattolico – o un gruppo di cattolici – sente propria, il modo di testimoniarla dovrà essere indirizzato e organizzato nel miglior modo possibile, in relazione al raggiungimento degli scopi che ci si prefigge.
Inoltre, nel momento in cui ci si propone una testimonianza sulle cose terrene, non si riesce a capire la ragione per la quale un cattolico debba delegare ad altri la propria rappresentanza. È possibile, certo, pensare ad una collaborazione; ma una delega totale, l’idea che le istanze dei cattolici possano trovare solo in altri una guida adeguata, sembrano solo un modo di affidarsi all’altrui benevolenza, secondo uno schema paternalistico di ottocentesca memoria.
La constatazione poi che l’impegno dei cattolici sia un elemento di sviluppo positivo - basti pensare ad esempio al valore sociale dell’esperienza delle casse rurali ed artigiane - dovrebbe incoraggiare tutti (credenti e non credenti) ad incontrare con favore l’azione cattolica.
L’unità politica dei cattolici è una cosa naturale che deriva dall’unità di testimonianza della Chiesa Cattolica. Essa trova esplicita manifestazione quando si tratta di valori non negoziabili (vita, famiglia, educazione, etc.).
Altra cosa è l’unità partitica, la possibilità dei cattolici di riconoscersi un unico contenitore elettorale. La soluzione partitica deriva dalle condizioni storiche, dai modelli istituzionali e costituzionali in cui si agisce. Ci possono essere momenti in cui una presenza dei cattolici organizzata in un soggetto unitario ha ragioni valide, come ci possono essere momenti in cui è ragionevole una presenza in più soggetti organizzati. Ci possono essere anche momenti in cui è opportuno evitare una presenza organizzata (la nascita dello Stato italiano vedeva i cattolici fuori dalla politica). Non può essere preso come definitivo (facendolo assurgere a valore assoluto, come spesso capita nel dibattito odierno) un modello organizzativo.
Se si opta per una soluzione unitaria, molta attenzione deve essere riposta nell’impedire che questa non costituisca per qualcuno un alibi a comportamenti evidentemente in contrasto con la nostra morale. Se si opta invece per una soluzione frammentata, è necessario mettere costantemente sotto osservazione se la propria presenza è tale da esercitare un’effettiva influenza, o se si risolve in un mero apporto generico, utile solo nella contingenza elettorale.
Oltre ad affermare la libertà di aggregazione, che un dato indiscutibile, bisogna dunque fare un ragionamento sulla reale efficacia della formula adottata. Un ragionamento che, libero dalle convenienze di terzi, deve essere fatto solo dai cattolici stessi.
Prendiamo, ad esempio, il caso italiano.
La creazione di un bipolarismo, tendente al bipartitismo, costruito intorno ad un contenitore di tendenze socialdemocratiche ed uno con tendenze liberal-populistiche (con venature fasciste), vuole monopolizzare tutto l’orizzonte politico nazionale. Legittimandosi reciprocamente, con una forte pressione mediatica, i due contenitori esasperatamente spiegano che non c’è spazio per altre esperienze. Più precisamente, lo spazio può esserci solo sotto la loro protezione ed, ovviamente, alle loro condizioni.
L’ idea che i cattolici non possano piegarsi ad accettare questa logica e possano (tornare) ad essere protagonisti del proprio destino viene vissuta, semplicemente, come inaccettabile, anzi improponibile. Il modello politico che si è venuto a creare non nasce da obiettivi politici contrapposti (come la suddivisione linguistica tra “destra” e “sinistra” vorrebbe suggerire), ma dalla comune convinzione – ed esigenza primaria - che l’esclusione aprioristica di una cultura (quella cattolica) sia un fatto indispensabile e positivo per il paese.
Racchiudendo l’esperienza politica dei cattolici italiani in una parentesi che va dall’immediato primo dopoguerra al termine della “prima repubblica”, si vorrebbe che questi fossero semplice bacino elettorale ed organizzazione sociale assistenziale. Una concezione della democrazia e della rappresentanza assai strana: i cattolici avrebbero legittimità solo se divisi e guidati da altre classi dirigenti. È il trattamento riservato alle lobbies, nella loro elementare funzione di portatori di interessi.
La società, il suo governo, la sua organizzazione, il suo destino, non sarebbero affare dei cattolici. Ad essi viene negata l’idea stessa di un contributo alla lettura della società; in ordine alle varie esigenze dovrebbero mettersi in fila ed attendere che qualcuno, colto da interesse (o compassione) colga come utili le loro istanze e ne dia rappresentanza. Tenere in considerazione i cattolici significherebbe solo offrire alcune garanzie alla Chiesa.
Questa impostazione non può trovare i cattolici consenzienti.
La scelta di essere presenti in varie formazioni politiche è del tutto legittima. Se la si inserisce, però, in una logica secondo la quale le scelte sono da altri già determinate, ed il ruolo dei cattolici diviene eventuale, accessorio, siamo di fronte ad un vizio di origine. Se si imposta la politica nazionale nei termini “o a destra o a sinistra”, è chiaro che la nostra scelta non è libera ma da altri determinata. Se poi questi “altri” collocano la loro azione al di fuori dei nostri valori, o trattano i nostri valori come utili ammortizzatori sociali, è evidente l’incomunicabilità.
Tutto ciò non è ragionevole, non è accettabile, non è perseguibile.
Riprendo poi un’osservazione del Suo lettore: “lo schieramento di centrodestra ha fatto propri alcuni temi (famiglia, difesa della vita) rispetto ai quali la DC si esponeva solo in chiave difensiva, senza la forza (la voglia?) di portare avanti politiche di reale promozione”.
Tralasciando, per motivi espositivi, il ruolo della DC, che invece ritengo positivo, vorrei soffermarmi sull’idea che il centrodestra abbia fatto propri i temi cari ai cattolici.
E’ vero che questi temi, aggiungerei anche quello della libertà di educazione, sono stati materiale di propaganda politica. E materiale di propaganda politica sono rimasti.
Come il sig. Lorenzo saprà, il più importante rappresentante del centrodestra è proprietario di numerosi mezzi di comunicazione. Ritiene che questi sistemi di comunicazione propongano quotidianamente modelli educativi consoni ad una visione cristiana della vita? Se la risposta fosse positiva, non ci sarebbero problemi. Ma se la risposta è negativa, non gli sembra che dei cattolici venga fatto un uso strumentale? Lo stesso soggetto che sul mercato elettorale vende l’idea della difesa di determinati valori, sul mercato economico vende invece modelli culturali che si ispirano a valori contrari, e però funzionali alle esigenze imprenditoriali. Come dire: una cosa sono i valori, altra cosa sono i soldi.
Lo stesso Giuliano Ferrara, da sempre sponsor appassionato del leader del Pdl, si è ultimamente espresso in maniera molto critica verso colui che ha definito il proprio movimento come “monarchico nella gestione e anarchico nei valori”.
L’amico che ha voluto gentilmente interloquire con me potrebbe rispondermi che, dall’altra parte dello schieramento politico, si delinea un contenitore elettorale con forti contrasti sui quelli che noi riteniamo “valori non negoziabili”. Questo tipo di considerazione, però, non contraddirebbe il mio ragionamento. Infatti, non si tratta di definire quale schieramento sia più vicino o meno lontano dai cattolici. Si tratta di prendere atto che non c’è rappresentanza diretta del nostro pensiero.
Il discorso ci porterebbe molto lontano, si potrebbero portare esempi e tesi a favore o contrarie. Mi sembra, però, che la confusione di ideologie ed interessi ci porti solo a sforzi inauditi ed inutili per spiegare (giustificare) l’inspiegabile (l’ingiustificabile).
L’Italia ha bisogno di una politica di ispirazione cristiana?
Credo che anzitutto i cristiani abbiano bisogno di una politica di ispirazione cristiana. I cristiani non possono esimersi dall’applicazione delle valutazioni che vengono loro dal patrimonio della Dottrina Sociale della Chiesa. L’animazione cristiana della società non può ridurre il ruolo dei cristiani alla mera assistenza. Essi devono operare nelle scelte degli indirizzi di sviluppo del paese portando la loro visione di sacralità dell’uomo rispetto ai processi tecnici, scientifici ed economici.
Credo che la nostra visione della società possa incontrare il favore di tanti, credenti e non credenti, perché fondata sull’attenzione alla centralità dell’uomo; così come sono convinto che trovi anche tanta opposizione da quanti intendono l’uomo semplicemente come mezzo.
Questo, però, non è un problema: la testimonianza è testimonianza in quanto tale, talvolta in solitudine talvolta in compagnia; la sua utilità nasce dall’originalità della proposta e non dalla convenienza elettorale contingente.
In ogni caso, valga una constatazione: quando i cattolici si sono impegnati e hanno guidato il paese (con tutti gli inevitabili errori), hanno fatto crescere il paese. Quando sono stati messi ai margini, il paese è sprofondato nella paralisi o - peggio ancora - nella dittatura.
Noi non pretendiamo di essere la soluzione di tutti i problemi, ma crediamo fermamente di poter e dover partecipare in maniera decisa alle sorti dell’Italia. E se qualcuno, in ultima analisi, ci dovesse immaginare come soprammobili (o all’occorrenza collaborazionisti), qualche sbaglio credo lo stia facendo.
Luigi Milanesi