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Musica - Recensioni e Profili
Musica rock e bisogno dell’anima Stampa E-mail
Nick Cave, Nick Drake, Bruce Springsteen, Tom Waits
      Scritto da Antonio Spadaro S.I.
24/02/07

cave_nick.jpgChe cos’è il rock? Non è facile dare definizioni di un fenomeno così complesso e contraddittorio. È un genere musicale che dalla metà degli anni ’50 è in continua evoluzione. È un fenomeno eclettico, risultato di una mutevole combinazione di forme musicali che si sono sviluppate in modo autonomo.

Il rock ha avuto sin dai primi anni ’60 la capacità di farsi interprete dei sogni, delle aspirazioni e dei malesseri dei giovani. Il rock ha convogliato tensioni, anche violente, ma certamente profonde. Il rischio in agguato è sempre il narcisismo o l’ideologia, ma la radice di questa espressione musicale è una richiesta pressante di qualcosa d’altro, di «totalmente altro». La musica rock tocca l’anima. Basterebbe citare i titoli di alcuni libri sul rock: Rock, rap e l’immortalità dell’anima, Anime trasparenti, Noise and spirit, Scritto nell’anima. Tom Beaudoin definisce la musica «il fluido amniotico della società contemporanea. Il luogo in cui esercitiamo la nostra spiritualità».

Nel mondo contemporaneo la musica è diventata una colonna sonora costante della vita di molte persone. La musica è ormai dovunque, è un ambiente in cui si vive. Entriamo in un negozio o in un bar e la musica è lì, spesso accuratamente scelta. Viviamo in un mondo immerso nella musica.

Dunque non stiamo parlando solamente di un fenomeno, ma di un contesto, di un ambiente di vita. Esiste un ambiente sonoro come esiste un ambiente architettonico. Un ambiente che va dritto a incidere sull’anima.

Più volte e da più parti si è parlato e si parla di influssi negativi, addirittura satanici della musica rock sui giovani. È così? Sì. È evidente che ci sono casi in cui il satanismo occupa e invade il territorio della musica rock. Il rock è un fenomeno vastissimo, non così facilmente etichettabile. È una galassia in cui c’è di tutto. E proprio per questo si impone da parte dei cristiani un attento discernimento. D’altra parte consideriamo che la musica e i suoni del rock possono ben esprimere una lacerazione, una drammaticità, anche una ribellione profonda che va letta con cura. Etichettare come satanico in se stesso un genere musicale significa rischiare di perdere il contatto con la realtà di un mondo, specialmente giovanile ma non solo, che con questa musica si esprime e dal quale si sente espresso.

Questa mia conferenza si inserisce nell’ambito di una mia riflessione musicale che intende esplorare questo mondo alla ricerca di «bisogni dell’anima», come dico nel titolo, espressi in un contesto di musica rock. Soprattutto bisogni di salvezza autentici. Occorre infatti distinguere, e questa è la sfida, tra un generica e “dionisiaca” ricerca di liberazione vaga e a volte distruttiva da una reale e profonda ricerca di salvezza. Il rock in questo senso ha saputo esprimere anche qualcosa di estremamente intenso.


Nick Cave

Nato nel 1957 in Australia, Nick Cave ha incarnato il lato oscuro e «cattivo» del rock. È ben noto per le sue composizioni crude, violente e viscerali. Ma lo è anche per i suoi concerti contraddistinti spesso, in passato, da episodi di violenza e vandalismo anche a seguito dall’uso spregiudicato di droga e alcool.

Cave, insomma, per anni è stato l’incarnazione dell’artista maudit, che romanticamente e tenebrosamente lega la sua espressione all’allucinazione e al deragliamento percettivo e sensoriale.

Cave, ultimo di tre figli, cominciò ad aver contatti col mondo musicale all’età di otto anni, quando divenne corista della cattedrale anglicana del suo paese. Da giovane dimostrò una sensibilità religiosa tenebrosa e passionale. Questa sensibilità lo spinse a comprare una Bibbia tascabile che cominciò a leggere dalla prima pagina.

Scrivendo canzoni per il suo gruppo, ricorda Cave, «nella prosa dura (tough prose) del Vecchio Testamento trovai subito una lingua perfetta, allo stesso tempo misteriosa e familiare, che non solo rifletteva lo stato mentale in cui mi trovavo in quel periodo, ma infondeva attivamente forma ai miei tentativi artistici». Il Dio che colpisce l’immaginazione di Cave è «brutale, geloso, senza misericordia, […] crudele e rancoroso».

La conclusione fu che l’umanità soffre per volere di un Dio dispotico. Questa visione opprimente carica la sua musica di ritmi assordanti e di chitarre lancinanti e martorianti. La sua musica avrebbe dovuto incarnare l’urlo della maledizione di Dio. Questi pensieri generarono la stagione più «maledetta» della produzione di Cave.

La sua carriera inizia nel 1981 col disco Prayers on Fire (Preghiere in fiamme). Il musicista si mette in mostra come un piccolo insetto viscido (a fat little insect) e ripugnante alla vista o come uno scarafaggio dal guscio marcio che si arrampica sul muro. Questa sensibilità lo accompagna nei suoi dischi fino al 1988, in un modo o nell’altro. Lo spazio vitale è un inferno dove il cuore è congelato/ e le preghiere prendono fuoco. Così anche nei due dischi successivi si ascoltano toni lugubri fino all’efficace quanto tremenda immagine-preghiera che lascia il gusto amaro della dannazione: Oh Signore, cado in ginocchio/ (Cado in ginocchio e comincio/ a pregare)/ Avvolto nelle mie ali da povero bastardo/ quasi gelo/ In mezzo all’urlo del vento e alla pioggia/ sferzante. La vita umana è rappresentata come quella di «Mosche senz’ali (Wings off flies)» che si suicidano sbattendo contro la finestra.

Il 1988 segna una nuova fase nella vita di Cave. Viene raggiunto dalla devastante notizia che Tracy Pew, il suo compagno preferito di eccessi, era morto in seguito ad un attacco di epilessia causata dalla sua vita intemperante. Cave stesso era arrivato a un limite estremo nel suo uso di droghe e nelle sue reazioni sconsiderate e violente ai concerti. La sua vita artistica arrivò a uno stallo sia nelle registrazioni sia nella scrittura del suo romanzo. Nell’estate di quell’anno venne arrestato per detenzione di eroina. Le strade a quel punto erano due: o il carcere o la clinica per la disintossicazione. Cave scelse la seconda e così aprì una nuova stagione della propria vita.

In quell’anno uscì Tender Prey (Tenera preda), un disco che qualcuno ha definito di «salmi esistenziali». Lo stesso Cave intese il suo lavoro come un prolungato grido di aiuto. Il disco è intrecciato di sentimenti di colpa, giudizio, desiderio di fuga e di misericordia. Tutti temi umanamente ma anche teologicamente significativi.

Il brano di apertura è The Mercy Seat (La sedia della misericordia) che lascia stupiti per la cruda registrazione del flusso di pensieri e visioni di un condannato alla sedia elettrica. Il dramma dell’esecuzione è accompagnato due volte da immagini cristologiche che appaiono inattese. Ecco quindi il senso profondo dell’accostamento tra sedia elettrica e Arca dell’alleanza: Nei Cieli il suo trono è fatto d’oro/ L’arca del suo testamento è custodita/ Un trono da cui mi dicono/ Tutta la storia si dispiega/ Quaggiù il trono è di legno e fili elettrici/ E il mio corpo va a fuoco/ E Dio non è mai lontano (And God is never far away). Il disco si chiude con un brano di straordinaria apertura alla speranza dal titolo New Morning (Nuovo mattino): Mi inginocchiai nel giardino/Inondato dall’alba/ E una voce mi giunse così luminosa/ Che dovetti coprirmi gli occhi/ Grazie per avermi dato/ questo nuovo mattino splendente (Thank you for giving/ this bright new morning).

Tre giorni dopo l’uscita del disco (siamo nel 1988), Cave concludeva un ciclo di disintossicazione presso la Broadway Lodge Clinic. Il suo stesso rapporto con la vita comincia a farsi più sobrio. La sua musica e i suoi testi ne risentono positivamente. Crescono in nitidezza ed emozionalità. Nel maggio del ’91, Cave diventa padre. Col suo piccolo Luke cambia anche il modo di vedere il mondo. Dichiara in un’intervista: «Adesso nella mia vita c’è qualcosa che è, senza eccezioni, intrinsecamente innocente». Nel successivo disco, Henry’s Dream, il mondo appare benedetto e luminoso (blessed and bright) e la notte maestosa (majestic).

Nel marzo 1997 esce The Boatman’s Call. Il ritmo dei pezzi è lento e capace di ricordare da vicino l’innologia sacra. I brani sono forse poesie cantante più che canzoni vere e proprie, dal suono spoglio e intimo. Si tratta di un’opera complessa e ricca di un uomo che, giunto a quarant’anni, si confronta con due temi che vengono fusi in maniera intensamente vissuta: l’amore e la fede. Amore umano e amore divino vengono sempre intrecciati in un accostamento dialettico di grande forza. Sembra che non si possa parlare dell’uno senza l’altro.

L’evocazione di Cristo è chiara in (Are You) the One that I’ve Been Waiting For?: C’era un uomo che raccontava meraviglie anche se non/ l’ho mai conosciuto/ Diceva, «Chi cerca trova/ E a chi bussa sarà aperto». E a questi versi seguono espressioni che contengono una tensione più grande. Possiamo riconoscere senza forzature la radice di un’inquietudine di timbro agostiniano, che forse è l’istanza ultima della sua espressione artistica.

Nel disco No More Shall We Part (Mai più ci separeremo) del 2001 Dio è invocato di continuo in una tensione spirituale che procede in maniera emozionante, austera, drammatica, ma anche molto umile. Si esprime nella ricerca, ma sa anche elevare invocazioni oranti di grande semplicità e bellezza quali: Signore, stammi vicino/ Non mi abbandonare (Lord, stay by me/ Don’t go down) oppure Oh Signore/ In che modo ti ho offeso?/ stringimi fra le tue amorevoli braccia/ Oh Signore Oh Signore (O Lord/ How have I offended thee?/ Wrap your tender arms round me/ O Lord O Lord). Dal disco, come ha ammesso lo stesso Cave, si ricava un profondo senso di fiducia e di sicurezza, a lungo desiderato: una vera e propria «metamorfosi».

Cave è un artista tormentato e romantico. Qualcuno l’ha definito, usando una espressione di Claudel riguardo a Rimbaud, «un mistico allo stato selvaggio». Ha affermato Cave in una sua lezione pubblica tenuta a Londra nel 1999: «Sono ormai passati venti anni da che scrivo canzoni, e ancora ho dentro quel voto. Ancora persiste quella inspiegabile tristezza, […] l’insoddisfazione divina, e forse continuerà finché non vedrò la faccia di Dio».


Nick Drake

Ascoltare la musica di Nick Drake (1948-74) significa entrare nel mondo di una sensibilità musicale accesa e intensa.

Drake a 13 anni compra la sua prima chitarra, che impara a suonare da autodidatta. Comincia anche a elaborare il suo personale stile vocale. Lo ispira il blues tradizionale, da Bob Dylan a Tim Buckley fino ai Beatles. Ma saranno i Concerti Brandeburghesi di Bach a seguirlo e anche a ispirarlo lungo il corso della sua breve vita. Letterariamente la sua sensibilità è vicina a quella di poeti quali Keats, Tennyson, Blake o Wordsworth, tutti da lui letti e amati.

Nel settembre del 1969 Drake pubblica il suo primo disco Five Leves Left. A seguire Bryter Layter, Time Of No Reply e Pink Moon. I suoi album passano inosservati dal grande pubblico, anche se il suo talento viene riconosciuto dalla grande stampa. Drake vive una depressione che lo porta a morire a soli 26 anni, probabilmente per una dose eccessiva di Tryptizol.

La vita di Drake non fu mai serena. I tratti della sua personalità sono inquietudine, timidezza, sensibilità, bellezza raffinata e composta. Misterioso, delicato e schivo, detestava le apparizioni in pubblico. I suoi pochi concerti, ai quali fu costretto per esigenze di mercato dai suoi discografici, sono all’insegna dell’imbarazzo, del silenzio, dell’esecuzione perfetta, ma priva di qualunque elemento di spettacolarità.

Il suo primo disco, Five Leaves Left, è costruito attorno alla sua voce dolce e struggente, alla perfezione tecnica degli arpeggi della sua chitarra, ai suoni classicheggianti degli archi. La condizione di desolazione e solitudine appare efficacemente espressa in Fruit Tree: la vita non è che un ricordo / trascorso da lungo tempo / teatro pieno di tristezza (Life is but a memory/ Happened long ago/ Theatre full of sadness). Sembra che l’unica soluzione stia nel lasciar scorrere il tutto, come un fiume.

Tuttavia appare uno spiraglio, che in Three Hours assume il volto di una ricerca inesauribile, quella di una vita / da raccontare quando egli sarà a casa (a lifetime/ To tell when he’s home). Proprio la casa (home) sembra ora oggetto di disperata nostalgia, ora di viva speranza, che fa sì che il canto triste si apra in composizioni come Time Has Told Me, dove Drake canta: Un giorno il nostro oceano / Troverà la sua riva (Someday our ocean/ Will find its shore). Così, nella splendida Way To Blue, Drake chiede: Hai mai conosciuto un modo per trovare il sole? / […] Perché non vieni a dirmi / se conosci il cammino per il blu? (Won’t you come and say/ If you know the way to blue?) / Hai visto la terra che vive nella brezza? / Riesci a comprendere una luce tra gli alberi? (Can you understand a light among the trees). La risposta è l’attesa: Aspetteremo / al tuo cancello / sperando come ciechi (hoping like the blind). Tra sospiro e fiducia Drake compone canzoni che lamentano una perdita, esprimendo nostalgia, ma nel contempo evocano e invocano una via di uscita, una speranza.

Appare estremamente significativo allora che il secondo disco di Drake abbia per titolo Bryter Layter, cioè l’espressione dei bollettini metereologici che, dopo aver annunciato piogge e temporali, spesso concludevano con «schiarite più tardi», cioè appunto brighter later. Il senso e il gusto di un titolo simile è quello dato dalla «quiete dopo la tempesta». In Fly Drake lamenta: Sono caduto così giù […] sono seduto a terra lungo la strada, ma da questa condizione si leva un’invocazione di grande intensità: Ti prego, dammi una seconda benedizione (Please give me a second grace).

Questa invocazione di una «seconda grazia» ritorna nella splendida canzone Northern Sky: Non mi sono mai sentito così magicamente folle / Non ho mai visto lune, conosciuto il significato del mare / Non ho mai tenuto l’emozione nel palmo della mano / Ho sentito brezze delicate sulla cima degli alberi / ma adesso tu sei qui / a illuminare il mio cielo del nord. / Per così tanto tempo ho aspettato / per così tanto tempo sono stato trascinato / per così tanto tempo ho vagato alla cieca / tra le persone che conoscevo / Oh, se tu volessi e potessi / dirigere questo occhio nuovo della mia mente.

I versi sono lampi epifanici che fanno conoscere in maniera visiva, per associazione e accumulo di immagini ardenti. Qui è l’occhio a invocare una visione, una stella polare, che possa rivelare il significato delle cose e salvare una vita dalla mancanza di senso.

Pink Moon, il terzo disco di Drake, tutto chitarra, voce e pianoforte, esce nel 1972. Drake scrive di essere stato forte, forte nel sole (I was strong, strong in the sun) e anche verde, più verde della collina (I was green, greener than the hill)/ Dove crescevano i fiori e il sole splendeva immobile. Adesso invece egli si sente più debole dell’azzurro più pallido e, nel contempo, più scuro del mare più profondo. Si apre allora il bisogno di fiducia, di un affidamento: Affidami a qualcuno, dammi un posto dove stare (hand me down, give me a place to be), che giunge all’esplosione dolce, composta e intensa dell’ultima canzone, From The Morning, un intenso inno di risurrezione: Un giorno albeggiò e fu magnifico / un giorno albeggiò dalla terra / poi cadde la notte / e l’aria era magnifica / la notte cadde tutt’intorno / […] E ora risorgiamo / e siamo ovunque / e ora risorgiamo dalla terra (And now we rise/ and we are everywhere,/ and now we rise from the ground). Sembra che la direzione dello sguardo che cerca un «posto dove stare», una «casa», una «riva», non possa che essere quella di un’alba di risurrezione. Sono proprio queste le parole che i genitori di Drake hanno voluto incidere sulla sua tomba. Con esse si chiude la sua produzione ufficiale.

Ma, quando morì, il musicista stava lavorando a un nuovo disco. Le canzoni successive sono state raccolte in Time of No Reply, che esce postumo. Tra queste troviamo I Was Made To Love Magic in cui, alla tremenda constatazione iniziale: Fui creato per non amare nessuno / E perché nessuno mi amasse (I was born to love no one/ No one to love me), segue una coscienza che si allarga alla consolazione: Fui creato per navigare / sino alla terra del sempre / non per essere legato a una vecchia tomba di pietra (I was born to sail away/ Into a land of forever/ Not to be tied to an old stone grave). Ritorna l’attesa di una risurrezione, l’impossibilità di chiudere tutto dentro un destino di stasi e di morte, la necessità di tendere sempre a una meta ulteriore.

Basta ascoltare la sua musica per avvertire come non sia la desolazione il tono dominante delle sue composizioni. Anzi, queste canzoni sono pervase spesso da una sottile grazia. L’intensa, commovente, composta emozionalità delle sue composizioni rende Drake uno dei più grandi musicisti britannici del ventesimo secolo.


Bruce Springsteen

Nell’ottobre del 2002 sulla rivista La Civiltà Cattolica pubblicavo un articolo dal titolo “La resurrezione” di Bruce Springsteen, nel quale avevo articolato il senso dell’ispirazione biblica del musicista statunitense. Poco dopo il giornalista Beppe Severgnini lo intervistò per la RAI e per il Corriere della sera alla vigilia del suo concerto di Bologna, citando alcune frasi centrali di quel mio articolo. Ecco la sua risposta di conferma: «Io credo che nei primi dodici anni accumuliamo le immagini che ci accompagneranno per tutta la vita. Io frequentavo una scuola cattolica. L’anima non è un’astrazione per un bambino. È molto reale. La prendi alla lettera. E l’immaginario cattolico, così come la Bibbia, è un modo straordinario di esprimere il viaggio dell’uomo, dello spirito umano. Io ritorno a quelle immagini d’istinto». Altrove Springsteen ha affermato di muoversi «verso un immaginario religioso per spiegare l’esperienza». Sono parole di grande importanza.

Riflettiamo sulle parole di Springsteen: «l’immaginario cattolico, così come la Bibbia, è un modo straordinario di esprimere il viaggio dell’uomo, dello spirito umano. Io ritorno a quelle immagini d’istinto». A quell’immaginario non si torna pensandoci, ma d’istinto. Può essere amato o odiato, non importa. Ci si torna d’istinto e l’istinto non fa distinzioni di questo tipo.

Quando e come queste immagini religiose appaiono più di frequente? Quando si tratta di esprimere un senso di «liberazione», che a volte diviene una vera e propria redemption. Ma liberazione da cosa? In quali termini?

Gli album del Boss – come viene definito dai suoi fans – ritraggono un mondo reale e crudo, quello di gente stretta tra il sogno americano e il crudo quotidiano della periferia. Il punto di partenza sono le «baracche esistenziali» piantate nella terra di origine di Springsteen, il New Jersey popolato di ceto medio, come anche di gente alla deriva. Questa gente è qua e là definita come: santi, profeti e anime perse, tutte definizioni di marca religiosa. Il desiderio di liberazione è un perno fondamentale delle sue canzoni. In New York City Serenade, ad esempio, Springsteen canta: Scrollati allora, scrollati di dosso (shake it away) la tua vita di strada/ scrollati di dosso la tua vita di città e afferra il primo treno. La direzione è il Nord-Est, cioè Manhattan, che diviene culla di sbandati e derelitti. La liberazione viene espressa facendo ricorso al vocabolario religioso. Springsteen infatti usa parole come faith (fede), redemption (redenzione), promised land (terra promessa), fino a invocare un saviour: che da queste strade si levi un salvatore. Ecco dunque lo spazio della dialettica tra la realtà e la terra promessa. È all’interno di questo spazio che si sviluppano le tensioni dei testi, generando un movimento di liberazione. Nel 1978 in Darkness On The Edge Of Town protesta: Sono un uomo e credo in una terra promessa (I’m a man / And I believe in a promised land).

Nel 1982, nell’album Nebraska, Springsteen sviluppa in termini simbolici un’implicita poetica del peccato, che egli accetta più facilmente della promessa del paradiso. La canzone My Father’s House dice il ritorno di un figlio alla casa del padre e il modello implicito è quello del figlio prodigo. Ma la conclusione è amara: il padre si è trasferito o non c’è più e la casa resta fredda e isolata/ Splendendo al di là di questa scura autostrada dove i nostri peccati/ giacciono non espiati. L’ultima preghiera (last prayer) è un urlo secco e acuto o, forse, solo un sibilo: liberami dal nulla (deliver me from nowhere). Al «nulla» si affianca la domanda: Che senso ha tutto questo? (Tell us what does it mean?). La domanda sul senso, i termini «grande vuoto» e «nulla» si stagliano con potenza nella desolazione dei paesaggi e delle storie con la loro forza metafisica e insieme esistenziale. Alla fine, nonostante le tragedie quotidiane, c’è sempre quella cieca, incomprensibile speranza che porta i personaggi a credere che alla fine di ogni giorno guadagnato duramente c’è una ragione in cui credere (reason to believe).

E questa tensione si fa decisa. Un disco dopo l’altro segna passaggi forti, importanti, precisi. Nel doppio album The River (1980) i sogni prendono la forma di un’inquietudine inesauribile come in Hungry Heart: Abbiamo tutti bisogno di un posto dove riposare (a place to rest)/ Abbiamo tutti voglia di avere una casa/ Non fa differenza che nessuno lo dica/ A nessuno piace restare solo. Ma la svolta arriva con la paternità. In Lucky Town (1992) ascoltiamo la canzone Living Proof, forse uno degli inni alla paternità più belli che siano mai stati scritti: Una notte d’estate in una stanza buia/ Entrò una minima parte della luce eterna del Signore/ Urlando come se avesse inghiottito la luna accesa/ Nelle braccia di sua madre c’era tutta la bellezza possibile/ Come le parole mancanti di una preghiera che non sarei mai riuscito/ a inventare/ (like the missing word to some prayer that I could never make) In un mondo così duro e sporco così disonesto e confuso/ In cerca di un po’ della misericordia di Dio/ Ho trovato la prova vivente.

Nell’agosto del 2001 esce The Rising. La poesia dei testi e della musica nasce dalla tragedia dell’11 settembre per dire una condizione spirituale e un bisogno di «risurrezione». La parola chiave di questo messaggio è dunque nel titolo: The Rising. In You’re Missing anche Dio va alla deriva in cielo (God’s drifting in heaven), come a partecipare anch’Egli di questa deriva di abbandono e il pompiere di Into The Fire vede persino il cielo cadere. Qui il «grande vuoto» cambia di significato e diviene un Empty Sky, un cielo vuoto. La strada per uscirne è l’invocazione, come in Into The Fire, dove un mix di strumenti acustici ed elettrici accompagna un refrain che per sette volte, in forma litanica, gira intorno alle parole forza, fede, speranza, amore: Ci dia forza la tua forza/ ci dia fede la tua fede/ ci dia speranza la tua speranza/ ci dia amore il tuo amore. Così anche in My City of Ruins, che si apre con alcune immagini che creano forti contrasti seguite dalla preghiera: Prego di avere la forza, Signore/ Con queste mani, Con queste mani,/ Prego di avere la fede, Signore/ preghiamo per il tuo amore, Signore.

Devils & Dust vive, come gli altri dischi del Boss, di una dialettica di liberazione, di esodo. Un riscatto è sempre all’orizzonte, dove si trova una casa, un sogno, una donna, una luce: metafore di una sweet salvation (una dolce salvezza), a light that shines (una luce che brilla), a blessing at the riverhead (una benedizione alla fonte del fiume). Senza il contrasto di light e darkness, di luce e ombre, l’ispirazione di Springsteen non avrebbe spazio di espressione. «Ciò che ho messo in questo disco è il racconto di alcune storie – spiega Springsteen –. Sono tutte canzoni che parlano di persone le cui anime sono in pericolo, e questo pericolo è determinato da dove si trovano nel mondo e dagli eventi che il mondo porta nella loro vita».


Tom Waits

Solo un accenno al musicista californiano Tom Waits, prototipo musicale dell’esistenza tutto «genio e sregolatezza». I protagonisti delle sue ballate sono gente ubriaca, barboni, ladruncoli e mentecatti, i cosiddetti rain dogs, appunto, cioè i «cani randagi».

Waits nasce a Pamona, California, il 7 dicembre 1949. Il vero primo disco risale al 1973 e ha per titolo Closing time, alludendo all’orario di chiusura dei locali. Qui la strada è una vocazione: arrivederci, addio, la mia strada mi chiama. Il disco si chiude con l’assenza di una direzione certa: Non ho mai avuto una meta/ Non l’avrei neppure raggiunta. Ma se la vita è tensione, movimento, mai stasi disperata, il bisogno di un approdo è destinato a rimanere vivo.

Il clima delle sue canzoni è ben reso dal disco Nighthawks at the diner del 1975. È il clima del buio tiepido di una tossica notte americana (Dark warm narcotic American night) che attende l’esplosione dell’alba forte come una frustata (the dawn cracked hard just like a bull whip). Scrive in una canzone di Foreign affairs (1977): La brama del viaggio non vi permetterà di stare in pace./ […] L’ossessione è nel perseguire/ e non nell’ottenere./ Puoi vivere l’inseguimento e mai vederne la fine (The pursuit you see and never the arrest). Guai a misconoscere quel pursuit of happiness, quella ricerca della felicità che suggella l’animo dell’uomo. Misconoscerlo è distruggere la sua stessa umanità.

Lascio ai miei lettori la decisione di proseguire l’approfondimento su Tom Waits in un mio articolo di imminente pubblicazione. Cito solamente l’ultimo triplo disco di Waits, Orphans, uscito nel novembre scorso. Quando i rain dogs affrontano una pioggia torrenziale, si disorientano perché le tracce che li guidano in maniera olfattiva sono state lavate via ed essi non sono più in grado di trovare la direzione giusta. Quindi si acquattano riparandosi nei portoni o se ne vanno sgattaiolando per i vicoli. Così se ne vanno i barboni di Waits e tutti fingono di essere orfani. Questo è il senso della condizione di rain dog: l’essere radicalmente «orfana». Ascoltando i brani tornano in mente tutti i temi fondamentali di Waits. Sempre presente è l’idea di una perdizione. Mi sono perso toccando il fondo del mondo… Sono smarrito e solo… sono espressioni ricorrenti. E in questa solitudine si innesta la domanda su Dio, per nulla freddo all’inquietudine umana: se Dio è grande/ e se Dio è buono/ perché non riesce a cambiare il cuore degli uomini./ Forse Dio stesso è smarrito / e ha bisogno di aiuto (Maybe God himself is lost/ And needs help). Tuttavia brilla sempre una luce più avanti (a light up ahead), è sempre presente una spinta a trovare la tua via verso casa (your own way home).

***

Allora che cosa dire di queste figure presentate? Che tipo di uomo emerge da questi itinerari? Come nel caso delle figure presentate da Waits, essi sono randagi, cercatori, gente di desiderio, ma non disperati. E tra randagismo e disperazione c’è un abisso. Il primo può dire rabbia, «febbre» o ricerca; il secondo, passività, depressione o vittimismo. C’è spesso fragilità nei versi del rock. Ma ci è sembrato di riconoscere spesso un istinto radicale per ciò che può rendere felice una vita umana, la quale tende inesausta a questa felicità, nonostante tutto. Tutte le notti ansiose o «tossiche», tutte le strade dei vagabondaggi e i luoghi di intemperanze, alla fine, sembrano prendere significato e spessore grazie alla vitale attesa di qualcosa di vero: una second grace, per dirla con Drake o un’alba forte e sorprendente come un colpo di frusta, per dirla con Waits .

In questo mio intervento ho dunque inteso seguire alcuni itinerari individuali, più che un fenomeno nel suo significato sociologico, cercando di cogliere i significati dei singoli percorsi. Questi percorsi sembrano delineare itinerari di liberazione profonda, di riconquista di una vita degna di essere vissuta, che abbia senso. Ed è poi questo il vero bisogno dell’anima…


Il brano pubblicato è il testo dell’intervento tenuto da p. Antonio Spadaro S.I. durante l’omonima conferenza tenuta il 24 febbraio 2007 (da www.bombacarta.org)



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