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Un tč con i vicini
      Scritto da Daniele Comberiati

Un tè con i vicini

La fine di agosto era stata più fresca del previsto: 25-27 gradi e una leggera brezza che dalle cinque del pomeriggio ristorava tutta la città.

Nel condominio di Via Vetulonia, poi, ne avevano proprio goduto tutti: il palazzo si trovava vicino alle mura e al parco dell’Appia e il venticello portava con sé odore di rami e foglie, di pigne, pinoli e aghi di pino. La tristezza tipica di fine estate sembrava lontana, anzi: nessuno sarebbe tornato volentieri ai trentatrè gradi di due settimane prima, al sole che toglieva la voglia di uscire, all’afa che soffocava gli anziani.

Un clima del genere accompagnava un’atmosfera rilassata che sembrava sarebbe durata per sempre.

Mario guardò con dispiacere la scena al suo rientro a casa: un grosso camion aveva bloccato la via (e meno male che non c’era il traffico invernale), e due operai trasportavano pesanti mobili scuri nell’appartamento al piano terra accanto al suo. Erano sudati e continuavano ad urlarsi addosso parole incomprensibili, probabilmente in rumeno.

Incuriosito, si affacciò per vedere se ci fossero i nuovi vicini: la casa era ancora vuota.

La sera, prima di addormentarsi, Mario sentì un rumore di chiavi e una porta che si apriva. Evidentemente i vicini erano arrivati.

La settimana seguente Mario non andò al lavoro (era aiuto pasticcere in una pasticceria del quartiere). Rimaneva a rilassarsi a casa, guardando la televisione, qualche volta (rara, era piuttosto pigro) provava nuove ricette. In particolare la panna cotta al limoncello gli era venuto proprio bene, tanto che l’aveva mangiata tutta in un pomeriggio.

Durante il giorno proseguivano i lavori e gli spostamenti di mobili per il trasloco dei vicini. La sera, ma solo quando era già a letto, Mario li sentiva mentre rientravano in casa. La mattina dovevano uscire molto presto, perché non li aveva ancora incontrati e appena sveglio sentiva i rumori degli operai.

Qualcuno nel palazzo si era già lamentato. Soprattutto un vecchio con i capelli bianchi (li aveva sempre avuti così? A Mario sembrava proprio di sì) aveva cominciato a borbottare: - È già la seconda settimana, quanto ci mettono? E si sarebbero pure potuti scusare per tutto questo rumore, vivono già qui, no? –

Mario non aveva dato molta importanza a quelle lamentele: era preso dai suoi pensieri lui, ché la settimana seguente avrebbe ricominciato a lavorare.

Il lavoro era ripreso come al solito: monta le uova, gira la crema, riempi i bigné. Dopo tre giorni Mario aveva l’impressione di non essere mai stato in ferie.

Fu il martedì della seconda settimana di lavoro che, rientrando a casa la sera, incontrò per la prima volta i vicini.

Un uomo alto e pallido stava entrando nella casa del piano terra attento a non fare rumore. Mario lo salutò e lo colse di sorpresa.

- Salve. È il nuovo proprietario? Avevo notato che stavano facendo dei lavori… -

- Sì, uhm, sì… Siamo venuti da qualche giorno… -

Mario osservò meglio l’uomo: era bianchissimo e aveva gli occhi vitrei, di un celeste trasparente e intenso.

- È un condominio tranquillo questo… -

Mario aveva voglia di chiacchierare un po’, gli era sempre pesato tornare a casa dal lavoro senza scambiare una parola con nessuno. L’uomo invece sembrava avere fretta. Disse di chiamarsi Vittorio e di essere venuto lì con la moglie e i due figli.

Si scusò ancora ed entrò in casa senza far rumore.

Mario fu leggermente dispiaciuto: avrebbe voluto indicargli l’indirizzo della pasticceria.

- Pazienza – pensò – sarà per la prossima volta –

Un nuovo nucleo familiare in un condominio di un quartiere residenziale di Roma abitato da esponenti della classe media non è facile da assimilare subito. I vecchi condomini erano ormai abituati a quell’appartamento vuoto, all’assenza di rumori, alla porta di casa sempre chiusa.

Così, anche se Vittorio e famiglia erano inquilini estremamente discreti e silenziosi, una certa delusione cominciava a trasparire dai volti e dagli atteggiamenti dei vicini. In un palazzo del genere un appartamento vuoto fa sempre comodo: alimenta discorsi, pettegolezzi e dicerie senza il rischio di offendere nessuno, e risolve imbarazzanti situazioni in ascensore senza ricorrere ai discorsi sul tempo atmosferico. Inoltre, si sa, la classe media è piuttosto lenta nel metabolizzare cambiamenti che non siano matrimonio, lavoro, divorzio o lutto, e i nuovi arrivati, in quel tranquillo condominio di quel tranquillo quartiere di Roma, non ci stavano proprio.

In pasticceria passava sempre un ragazzo piccolo, riccetto e baffuto, che parlava un italiano stentato. Si chiamava Vlado, ed era il figlio della signora moldava che faceva le pulizie.

Un pomeriggio, mentre si ingozzava di crostatine alla ricotta, Vlado aveva chiesto a Mario: - Sei vicino di Rita? –

- Rita? – aveva risposto lui.

- Rita, sì, quella nuova. C’ha gli anni miei, stiamo in classe insieme. Mi ha detto lei che è tua vicina –

- Ah Rita… deve essere la figlia di Vittorio – pensò Mario, e poi chiese incuriosito: - E di’ un po’: com’è questa Rita? –

- Boh… Pallida pallida, c’ha bocca viola… Che è malata? –

- Malata? Oh Dio, non lo so, non credo, ti ha detto che è malata? –

- No, non mi ha detto. Solo che… è bianca, e c’ha bocca viola… Mi dai altra crostatina? –

A casa, mentre guardava la televisione (aveva registrato la partita di coppa del pomeriggio) a Mario vennero un dubbio e un pensiero: e se davvero quella ragazzina fosse stata malata? Magari era per questo motivo che la famiglia era così evasiva…

Da quel giorno Mario pensò alla famiglia di Vittorio in modo diverso. Quando rientrava a casa e vedeva la porta chiusa si ritrovava a pensare, quasi con affetto “chissà cosa staranno facendo” oppure “andrà tutto bene? Si saranno ambientati nel quartiere?”

Aveva chiesto a Vlado altre notizie di Rita, ma lui era rimasto vago, facendosi scappare però che la ragazza, evidentemente, non amava molto studiare, poiché ogni occasione, da un giorno di pioggia ad un caldo fuori stagione, era buona per rimanere a casa. Quindi o era malata davvero (ma ormai Mario l’avrebbe saputo) oppure non le piaceva andare a scuola.

Mario ascoltava intenerito. – Forse non si è ambientata – pensava – forse non si è ancora fatta nuovi amici e si sente sola. Tredici anni (tanti ne avevano Vlado e Rita) sono un’età difficile –

In realtà, Mario si era preso così a cuore le vicende di Rita perché gli ricordavano da vicino le sue. Anche lui a quattordici anni per studiare da pasticcere aveva cambiato città: i genitori erano rimasti in paese e lui era andato a vivere dalla nonna nell’appartamento di via Vetulonia dove abitava ancora.

Dopo la morte della nonna, però, era rimasto solo: si trovava abbastanza bene, anche se c’erano dei momenti in cui avrebbe fatto qualsiasi cosa per una chiacchierata o un bicchiere di vino con qualcuno.

Una domenica pomeriggio finalmente si fece coraggio. Erano stati giorni eccezionalmente caldi a Roma ed erano ritornate le zanzare. Mario aveva persino riaperto le finestre fino a sera.

Era in quel pomeriggio caldo, dunque, che si era deciso ad invitare i vicini per un tè. Dopo pranzo, mentre ascoltava le partite, aveva cotto al forno dei biscotti semplici (le lingue di gatto naturali e all’arancia) e preparato una crema alla scorza di limone. Senza neanche mettersi il maglione uscì sul pianerottolo e suonò all’interno quattro, Gombri (il nome era stato messo di recente).

Dopo qualche secondo e diversi rumori, Vittorio venne ad aprire.

- Uhm… Sì? –

- Salve, sono Mario, il vicino, si ricorda no? Pensavo… io vivo solo in casa… Ho preparato del tè, ce n’è per tutta la famiglia. Non è che… volete venire a berne un po’? –

Mario si stava vergognando sempre di più. Aveva l’impressione di essere un dodicenne alle prese con il primo appuntamento e inoltre non era sicuro che Vittorio l’avesse riconosciuto.

- Un tè? – aveva risposto quello un po’ stupito – un tè? Oggi? Per tutti? –

In quel momento Mario si sentì ridicolo.

- Un tè oggi… Va bene fra mezz’ora? –

La porta dei Gombri si richiuse in fretta. Mario rimase lì davanti, immobile, mentre un pensiero fastidioso e cattivo gli saliva dalla pancia arrivando quasi al cervello: forse non aveva così tanta voglia di prendere un tè con i vicini…

La famiglia Gombri sembrava costruita in serie. Se Vittorio era alto, pallido ed emaciato, la moglie, Rossella, sembrava, più che una donna, una versione femminile del marito, tanto che si sarebbero potuti tranquillamente scambiare per fratelli.

Gli unici particolari che la distinguevano da Vittorio erano un eccessivo rossetto rosso tendente al viola e due grandi orecchini a cerchio, sottili e dorati.

Il figlio maschio, il più giovane, era la copia esatta di Vittorio trentacinque anni prima. I capelli erano un po’ più lunghi, il viso leggermente più paffuto e gli occhi, forse, un po’ meno vitrei. Per il resto era identico al padre.

Mario guardò meglio Rita, la compagna di classe di Vlado. La trovò subito più attraente: sorrideva spesso (“un miracolo!” pensò lui) e la sua pelle bianchissima aveva riflessi azzurri e verdi. Decisamente non era malata, almeno non più malata del resto della famiglia.

Chiacchierarono un po’. I Gombri erano una famiglia normale, perfetta per quel quartiere e per quel condominio: Vittorio lavorava in casa, Rossella badava alla casa, Rita andava a scuola vicino casa, Mimmo (il più piccolo) era accompagnato dalla sorella a scuola e a casa.

Mario li guardava annoiato e divertito: erano talmente buffi fisicamente che gli sembrava strana tutta quella normalità.

- E lei di che cosa si occupa? – domandò Rossella.

Mario gonfiò il petto: non gli capitava spesso di potersi vantare del proprio lavoro.

- Oh, faccio il pasticcere (ometteva sempre il fatto che in realtà fosse l’aiutante). Alla pasticceria qui vicino, prima del semaforo –

Mario ebbe la sensazione che Vittorio fosse rimasto un po’ deluso dalla sua risposta. Forse lo aveva sottovalutato, forse Vittorio da casa svolgeva un importante lavoro intellettuale e avrebbe gradito vicini all’altezza.

Mimmo ridacchiò in fondo al divano, Rita e Rossella sorrisero con aria imbarazzata.

- Volete dello zucchero? –

Nessuno rispose. Mario ripeté la domanda: - Volete dello zucchero? –

Tutti e quattro lo guardarono contemporaneamente. Mario era rimasto in piedi con un vasetto di ceramica pieno di zollette bianche e marroni, i Gombri erano seduti, immobili, con la tazza di tè fumante nella mano destra.

Mario avrebbe giurato che la mano di Vittorio avesse tremato leggermente, forse a causa del peso della tazza.

- Noi lo prendiamo amaro il tè –

La conversazione languì in fretta, i Gombri ringraziarono e ricambiarono l’invito, magari fra due o tre settimane, però, ché ancora dovevano terminare alcune cose in casa.

- Che strano – pensò Mario una volta solo – si saranno offesi? Magari sono solo un po’ timidi… -

Poi mise a posto lo zucchero, lavò tazze e teiera e non ci pensò più.

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