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Temi caldi - Droghe
Perché è giusto vietare l'uso di droghe Stampa E-mail
I falsi miti: droghe leggere, riduzione del danno, antiproibizionismo. La differenza da alcol e fumo
      Scritto da Francesco Cassani
06/06/07

"I Governi che vogliano controllare bene i proprî governati facilitino il consumo di droghe" (Charles Baudelaire)

no_droghe.jpg"Di spinello non è mai morto nessuno". "Assumere stupefacenti è una scelta libera e personale". "È ipocrita accanirsi contro le droghe, dimenticando che molte altre cose fanno più danno". "Combattere le droghe è inutile, alimenta la criminalità". Potremmo continuare ancora con i luoghi comuni sul tema delle droghe; slogan privi di fondamento (per dirla tutta: vere fesserie) ripetuti da molti con superficialità, perché a furia di sentirli sembrano veri. O ripetuti in malafede - e questo è più grave - da alcuni che conoscono la tragica pericolosità di tutte le sostanze stupefacenti.

Passiamo dunque in rassegna questi luoghi comuni, e contrapponiamo ad essi qualche riflessione che si sforza di essere obiettiva.


"Bisogna distinguere le droghe leggere - che non fanno male - da quelle pesanti".
Questa distinzione è infondata: le droghe fanno tutte malissimo.

Chiariamo anzitutto che per "droghe" intendiamo quelle sostanze capaci provocare alterazioni dello stato di coscienza (effetti psicotropi), e che spesso inducono dipendenza. Quindi, principalmente: oppiacei (eroina, morfina), cocaina, anfetamine, acidi, cannabinoidi (cannabis, hashish, marijuana), droghe di sintesi (ecstasy, ecc.).

Che cosa accomuna tutte queste sostanze?

Innanzitutto, sono stupefacenti veri e proprî, cioè sostanze assunte direttamente per provocare effetti psicotropi. E in questo si distinguono (vedremo più avanti perché è fondamentale questa distinzione) da altre sostanze - o addirittura alimenti - che contengono principî attivi dai quali possono derivare solo indirettamente, e in forma più lieve, effetti simili.

In secondo luogo, le droghe sono sostanze accomunate dalla capacità di danneggiare gravemente il sistema nervoso, nonché di indurre comportamenti deleterî per sé e per gli altri. La distinzione tra droghe "leggere" e "pesanti" è una distinzione arbitraria, priva di ogni oggettività scientifica. È ovvio che l'intensità degli effetti varia in funzione della sostanza, della quantità e durata dell'assunzione, dell'abbinamento con altre sostanze, ecc. Ma non è possibile individuare arbitrariamente due grandi categorie di stupefacenti: quelli che "non fanno male" e quelli che "fanno male".

D'altronde, quali sarebbero le droghe "pesanti"? Ad analizzare bene le argomentazioni dei fautori di questa distinzione, la categoria delle droghe "pesanti" è molto elastica. A volte comprende eroina, cocaina, acidi, droghe di sintesi; altre volte - stringi stringi - solo l'eroina.

Perché si fa più fatica ad ammettere la pericolosità delle droghe che si vogliono definire "leggere"?

La distinzione si basa non tanto sulla maggiore pericolosità dell'eroina, quanto sulla visibilità dei suoi effetti, sull'intensità della dipendenza e delle crisi di astinenza che provoca, sul peggioramento immediato della qualità della vita.

In un certo immaginario collettivo, il "drogato", colui che corre rischi veri, è solo il giovane eroinomane sdraiato in un parco, col laccio emostatico al braccio, vittima di un'overdose. Cosicché si sentono spesso giudizi come: "conosco molti consumatori di droghe come cocaina, anfetamine, cannabis, i quali occupano posizioni di prestigio, non sono sbandati".

In realtà, le droghe diverse dall'eroina producono danni meno immediati, in parte non visibili (danni cerebrali, psicosi anche gravi come la schizofrenia o il disturbo bipolare, crollo delle difese immunitarie, disfunzioni riproduttive) o indiretti (induzione a comportamenti aggressivi, abulìa, perdita dell'attenzione, incostanza), ma altrettanto chiari e devastanti per la salute psicofisica e l'equilibrio di vita.
Lo dicono tutti gli studi scientifici, anche relativi a quella che era considerata la droga più "banale", lo spinello. La cui pericolosità è stata denunciata persino da alcuni giornali che in passato si erano battuti per la sua liberalizzazione (con tanto di scuse...), nonché dalla Società italiana di Psichiatria.
Così come va sfatato il mito che possa esistere un uso "ricreativo" della cocaina, innocuo perché "moderato": la cocaina è sempre dannosa e potenzialmente mortale.

Un'ulteriore difficoltà a riconoscere la pericolosità di tutte le droghe nasce dall'incapacità di riconoscere i disturbi del comportamento che ne derivano. In una società in cui i freni inibitori sono più allentati, in cui il senso di responsabilità non è valorizzato, può capitare di ritenere "normali" episodi di aggressività, di spericolatezza, di scontrosità, di difficoltà a gestire i rapporti familiari e lavorativi. E quand'anche le anomalie del comportamento siano riconosciute, magari vengono interpretate come espressioni di una "libera scelta" o frutti di un "disagio" personale. Mentre spesso sono semplicemente il prodotto dell'azione degli stupefacenti (che possono certo insistere su un disagio personale, aggravandolo irreparabilmente).

Bisogna aggiungere, purtroppo, che la difesa (di per sé legittima) di stili di vita "alternativi" induce alcuni esponenti delle élites dell'informazione, della politica, dello spettacolo a sminuire intenzionalmente (e per questo imperdonabilmente) la pericolosità delle sostanze stupefacenti. Talora minimizzare è una forma di autodifesa: proprio negli ambienti più competitivi, e con maggiori disponibilità economiche, c'è una particolare inclinazione alla trasgressività, o all'utilizzo di ritrovati che si pensa capaci di aiutare a reggere ritmi di vita stressanti.

Non bisogna neanche dimenticare che, in una società in cui la "cultura della morte" è sempre più diffusa, la sensibilità verso i pericoli che attentano alla vita (come le droghe) è molto più flebile.

Un'ultima causa della sottovalutazione di alcune droghe deriva dal fatto che le conseguenze negative spesso sono progressive. Per cui può sorgere la gigantesca illusione che sia possibile conviverci, controllarne l'uso, "fermarsi al momento giusto". Il problema non sarebbe nella droga in sé, ma nella scarsa capacità di gestirla di alcuni consumatori.
Ebbene, va detto chiaramente che non è così. Innanzitutto, qualunque uso ripetuto nel tempo (anche non intenso) produce i danni irreparabili che abbiamo enunciato. In secondo luogo, la natura stessa delle droghe, la loro capacità di stimolare il cervello, induce dipendenza fisica e/o psicologica, e quindi rende sempre più difficile controllarne l'uso.


"Le droghe hanno anche effetti benefici, producono benessere".
Non è così: il "benessere" indotto dalle droghe è solo illusorio.

Chi non ha mai sentito dire che le canne "disinibiscono", che l'LSD "sviluppa la creatività", che la cocaina 'tiene su nei momenti di stress"? Ebbene, queste sostanze hanno un forte potere d'attrazione perché esercitano un'azione chimica sui recettori nervosi (iperproduzione di dopamina), che regala una provvisoria sensazione di benessere. Ma bisogna distinguere chiaramente questa sensazione di benessere dal bene psicofisico vero e profondo della persona.

Innanzitutto, la sensazione indotta dalle droghe è una sensazione effimera. Al benessere provvisorio segue sempre la cosiddetta "fase down", una spossatezza psicofisica e una sensazione d'ansia molto più rilevanti. Inoltre, per difendersi dai 'bombardamenti' di dopamina, il cervello riduce i ricettori nervosi del piacere: per cui le attività che prima risultavano piacevoli (mangiare un buon piatto, stare con amici, leggere un libro, vedere un film) non riescono più a dare stimoli benefici. Subentra la depressione, e la ricerca di dosi di stupefacente sempre maggiori per assaporare sensazioni che la vita quotidiana non riesce più a fornire.
Non c'è qui lo spazio, ovviamente, per distinguere nel merito intensità e qualità degli effetti prodotti dalle singole sostanze. Ma va ribadita l'omogeneità di fondo che caratterizza le sostanze incluse nella categoria degli "stupefacenti".

In secondo luogo, si tratta di una sensazione artificiale. Se anche fosse vero che le droghe migliorano la creatività artistica, la produzione intellettuale, le relazioni sociali, potremmo definire questi "miglioramenti" degni di apprezzamento? O non si tratterebbe di una forma di 'doping', che priva di qualsiasi valore i comportamenti umani che ne derivano?
È più ammirevole la muscolatura modellata dall'allenamento, o quella (a volte mostruosa) gonfiata dagli anabolizzanti? Potremmo dire di essere sinceramente attratti dalla personalità di un individuo, se sapessimo che dipende dal dosaggio di stupefacenti?
La creatività umana verrebbe così ridotta a ricerca farmacologica; e assumerebbe una connotazione classista, divenendo privilegio di coloro che possono permettersi i ritrovati più costosi...

Ad ogni modo, chiariamo che la sensazione indotta dalle droghe non può essere definita "benefica": i benefici attribuiti alle droghe sono fasulli. La sensazione prodotta, infatti, non ha incidenza reale sulle facoltà intellettive. Se sono esistiti genî che hanno fatto uso di stupefacenti, la loro genialità ha potuto esprimersi non grazie alle droghe, ma nonostante esse! Le effimere proprietà di stimolazione psicofisica sono accompagnate da danni permanenti.

Pagini illuminanti al riguardo sono state scritte proprio da un grande artista, Charles Baudelaire, che ha avuto la ventura di sperimentare su di sé gli effetti dell'hashish. Baudelaire denunciò in generale gli effetti di disgregazione e corruzione sociale prodotti dalle droghe; e, in particolare, negò la loro capacità di stimolare la creazione artistica, perché "non è possibile creare il paradiso con la farmacia". Il vero artista è quello che crea con i suoi sogni naturali; le droghe possono essere "uno specchio che dilata, ma un semplice specchio", incapace a supplire all'assenza del genio (C. Baudelaire, "Les paradis artificiels", in Oeuvres completes, Gallimard, Paris, 1975).


"Drogarsi è una scelta personale che non può essere vietata".
Non è così: la gravità degli effetti negativi, e la mancanza di risvolti positivi, giustificano il divieto di consumo di tutte le droghe.

Noi riteniamo che la libertà personale sia il primo valore che lo Stato deve rispettare e tutelare. Ma tutelare la libertà non significa rinunciare a porre qualsiasi tipo di regola. Agli individui deve essere richiesto innanzitutto il rispetto della libertà degli altri; inoltre, il rispetto delle condizioni in cui può essere esercitata la propria libertà; ed infine, il rispetto della propria dignità, nella convinzione che chi non sappia esercitare questo rispetto verso se stesso, non possa poi esercitarlo nemmeno verso il prossimo. E' il motivo per cui alcuni diritti e beni (vita, dignità) sono indisponibili.

L'uso delle droghe non rispetta la libertà degli altri e il bene comune, perché alimenta la delinquenza organizzata (senza la domanda non ci sarebbe l'offerta), stimola comportamenti violenti e causa incidenti nella guida o nell'esercizio di delicate professioni.

L'uso di droghe non è atto pienamente libero, perché danneggia gravemente le condizioni (salute fisica e mentale, integrità dei rapporti interpersonali, capacità di assumere i proprî doveri sociali) in cui può essere esercitata la propria libertà.
Ammettere che un individuo possa danneggiare irreparabilmente la propria salute (con le droghe, o con altri mezzi) significherebbe altresì esporre ogni individuo al rischio di essere indotto da altri (con suggestioni psicologiche, o col ricatto) ad atti autolesionistici. Significherebbe infine consentirgli di danneggiare la propria dignità.
Il codice civile dispone che "gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino  una diminuzione permanente della integrità fisica": non è una limitazione della libertà, ma una protezione della stessa, prevista in una norma che è considerata di rilievo costituzionale (in quanto espressione della "tutela della salute", sancita dall'art. 32 Cost. "come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività" ).

L'uso di droghe non è atto pienamente libero anche perché ben presto non è più espressione di reale volontà, visto che le droghe inducono dipendenza. Anche per questo motivo il divieto serve a proteggere la libertà della persona: senza la deterrenza, molti non avrebbero il coraggio di resistere alla curiosità di "provare", né la forza di affrontare la dura battaglia della disintossicazione.

Peraltro, è discutibile che possano essere valutate positivamente le motivazioni psicologiche che portano all'uso di stupefacenti: ricerca di sensazioni che aiutino a fuggire da una realtà che spaventa e dalle proprie responsabilità, rifugiandosi in una dimensione onirica; o ricerca di una scorciatoia chimica per affrontare con più forza quella realtà, senza sciogliere i veri nodi esistenziali che provocano lo smarrimento.

I pericoli connessi a tali motivazioni psicologiche costituiscono un ulteriore buon motivo per vietare le droghe? In effetti, sappiamo che ogni legge non ha solo un valore prescrittivo, ma anche simbolico. Ciò che è prescritto o consentito viene normalmente percepito dai consociati come "giusto". Dunque, sancire legalmente l'ammissibilità di comportamenti autolesionistici o deresponsabilizzanti significherebbe sancire - soprattutto agli occhi dei più giovani - la neutralità (o addirittura la positività) di tali comportamenti.

Al contrario, il divieto lancia un preciso messaggio di dissuasione, che si rende necessario per tutte le sostanze stupefacenti, anche qualora ritenessimo plausibile (e abbiamo visto che non lo è) la distinzione droghe "leggere" - droghe "pesanti". Infatti, non va dimenticato che l'accesso ad una sostanza è sovente il gradino per passare ad un'altra, o per consumarle contemporaneamente: non per una semplice coincidenza statistica, ma perché si entra in un giro di spaccio che promuove un ventaglio di consumi il più ampio possibile; perché l'assuefazione ad una sostanza induce a cercare "nuove sensazioni"; perché le motivazioni psicologiche che inducono al consumo sono le stesse.

Se è giusto spiegare - come cerchiamo di fare - la necessità del divieto di drogarsi, ci piacerebbe anche conoscere qualche ragione concreta per cui tale divieto sarebbe inammissibile. È vero che, prima di porre qualsiasi limitazione delle scelte personali, bisogna prestare la massima attenzione ai beni che si sottraggono alle persone; ma qualcuno ci sa spiegare quale bene concreto, quale valore di rilevanza costituzionale, viene sottratto agli individui col divieto di drogarsi? Invocare la "libertà di fare quello che mi pare", di fronte ai gravi pericoli che abbiamo esposto, ci sembra argomentazione un po' povera...

Nella decisione di imporre un divieto, dunque, bisogna contemperare costi e benefici, beni sacrificati e beni protetti: vietando il consumo di droghe, ci sembra, abbiamo solo benefici e nessun costo.


"Se vietassimo l'uso delle droghe, dovremmo vietare anche l'uso di sostanze che producono molte più vittime, come alcool e tabacco".
Non è così: le droghe producono danni più gravi, senza alcun beneficio corrispettivo.

Abbiamo in precedenza evidenziato l'importanza di distinguere gli stupefacenti veri e proprî da altre sostanze capaci di produrre in parte effetti simili.

Spesso viene stilata una "graduatoria" di pericolosità in base al calcolo delle vittime causate dalla diverse sostanze. In realtà, anche tenendo presente la necessità di rapportare l'incidenza mortale delle diverse sostanze alla loro diffusione, la 'comparazione' delle vittime non è un metodo adeguato.

Innanzitutto, si tratta di calcoli spesso non affidabili. Ad esempio, sulle conseguenze negative (anche mortali) derivanti dall'abuso dell'alcool e dal fumo esiste ormai una letteratura medica molto ampia. Una letteratura che però, in parte, amplifica il numero delle vittime dovute a queste sostanze, perché somma i casi in cui fumo e alcool sono causa diretta ed esclusiva di morte con i casi in cui sono mera concausa.
Quanto alle droghe, invece, sono già numerosi gli studi che ne descrivono gli effetti nocivi; ma sono ancora insufficienti le ricerche che attestano i casi in cui tali effetti si rivelano mortali.

Ma, al di là della loro affidabilità, questi dati non possono essere il cuore del nostro ragionamento. La complicata aritmetica dei decessi, infatti, può essere sufficiente ad evidenziare l'importanza di promuovere campagne di sensibilizzazione per limitare o dissuadere dall'uso di determinate sostanze. Ma non è sufficiente a giustificare un divieto, ipotesi estrema per la quale - come detto - bisogna soppesare attentamente costi e benefici.

Gli stupefacenti veri e proprî sono sostanze assunte direttamente per provocare effetti psicotropi, effetti che alterano la capacità di controllo delle persone. Altre sostanze, invece, contengono principî attivi dai quali effetti simili possono derivare solo indirettamente, e in forma più lieve.

La maggior parte delle bevande alcoliche, ad esempio, sono sostanzialmente bevande alimentari. Il vino ha proprietà nutrienti, stimola gusto e olfatto, accompagna i cibi. Paragonare una bottiglia di Barolo ad uno spinello ci sembra una bestemmia estetica e culturale, prima ancora che scientifica. Altre bevande alcoliche possono avere proprietà dissetanti (la birra), o digestive (amari alle erbe). Un uso costante e controllato di bevande alcoliche non produce alcun effetto negativo (anzi), e non può dunque essere vietato. È l'abuso di alcool che nuoce alla salute, che può indurre a comportamenti pericolosi, e quindi va represso, come accade già adesso per il divieto di guida dopo aver assunto quantità rilevanti di alcool. Altre misure potrebbero essere prese per imporre lo stesso limite a chi esercita professioni che richiedono particolare attenzione, o per vietare la vendita di alcolici ai minorenni (come accade in altri Paesi).

Il fumo ha effetti cancerogeni ormai noti. A differenza del consumo di bevande alcoliche (e similmente al consumo di droghe), il consumo di tabacco non apporta alcun beneficio concreto ai fumatori. Il "piacere" della sigaretta è in realtà - essenzialmente - la risposta positiva che il sistema nervoso dà perché viene placata la dipendenza da nicotina (non ci sembra poi il caso di inoltrarci in dissertazioni sulle proprietà aromatiche delle varietà pregiate di tabacco per sigaro o pipa...).
A differenza delle droghe, però, i danni sono solo di carattere organico: il fumo non provoca disturbi del comportamento. I danni organici, inoltre, non investono il cervello e - se si smette di fumare - sono reversibili. Concludendo: se è vero che il fumo non esprime un bene rilevante da proteggere, è anche vero che i danni che provoca sono molto inferiori a quelli delle droghe, soprattutto in termini di pericolosità sociale. Per cui, più che il divieto assoluto, appare indicata una campagna di dissuasione ferma e incisiva; una campagna che passa anche per alcuni divieti, nel momento in cui il fumo (passivo) può danneggiare altre persone.

Alcuni critici della distinzione tra droghe, alcool, fumo, la fanno derivare da una mera convenzione culturale. La nostra cultura occidentale sarebbe "prigioniera" dell'idea di razionalità, e avrebbe una "fobia" per l'uso di sostanze che indeboliscono il controllo di sé; in altre culture, invece, le droghe sarebbero parte dei costumi, patrimonio culturale o - addirittura - religioso.
Si tratta di una considerazione di inaccettabile relativismo: tutti i comportamenti sarebbero da ritenersi equivalenti solo perché esistono culture o correnti di pensiero che li considerano leciti.
In realtà, come spieghiamo più approfonditamente nell'articolo sul  relativismo, è legittimo - e spesso necessario - alle singole persone affermare che alcuni comportamenti sono migliori di altri. Ed è legittimo - seppure in casi rigorosamente delimitati - alle società affermare che alcuni comportamenti ledono diritti naturali fondamentali, e sono perciò socialmente inaccettabili, benché ammessi in altre culture (la schiavitù, il furto, lo stupro rituale, ...).
Le droghe, abbiamo cercato di argomentare, aggrediscono la libertà personale, oltre che la razionalità. Alle nostre argomentazioni è possibile opporne altre, ma è elusivo rifugiarsi nel confronto culurale.
Inoltre: condannare un'usanza vigente in un'altra cultura non significa rigettare in toto quella tradizione culturale, o affermare la 'superiorità' della nostra. Se poi volessimo cimentarci nell'impervio terreno dell'analisi dei costi/benefici sociali derivanti dall'uso della droga, potremmo riprendere la citazione di Baudelaire che abbiamo riportato in epigrafe: i popoli dove quest'uso fu più largo non ci sembra che abbiano sviluppato un maggior culto della libertà e della partecipazione civile...


"Non si può finire in carcere per uno spinello". 
Ma divieto non significa carcere.

I fautori del libero consumo degli stupefacenti, quando restano a corto di argomenti, si rifugiano nel pietismo: "il tossicodipendente è una vittima" (non era una persona che esercitava una libera scelta?), "non si possono 'criminalizzare' i consumatori", "la galera è una pena sproporzionata", e così via. Chiariamo subito che prevedere un divieto significa, ovviamente, prevedere anche sanzioni per chi non lo rispetta. Questo non significa "criminalizzare" qualcuno; così come non è una "criminalizzazione" irrogare una multa a chi guida in stato d'ebbrezza, a chi passa col rosso, a chi scarica rifiuti tossici, ecc. Inoltre, prevedere sanzioni non significa ricorrere innanzitutto alla pena detentiva. Ci sembra modulata in maniera molto attenta l'attuale legge (la cosiddetta Fini-Giovanardi, n.49/06 modificativa del DPR 309/90), la quale prevede essenzialmente sanzioni amministrative come la sospensione della (o il divieto di conseguire la) patente, del porto d'armi, del passaporto, del permesso di soggiorno per motivi di turismo.

In Italia non è detenuto nessuno per uso personale di sostanze stupefacenti! E' vero che tra i detenuti c'è un'alta percentuale di tossicodipendenti. Ma si tratta di persone sottoposte a detenzione per altri reati, a volte collegati alla droga (spaccio, comportamenti violenti o pericolosi indotti dall'effetto delle sostanze assunte). Anzi, il divieto di consumare droghe (se fosse davvero applicato) servirebbe ad aiutare molti ad evitare il carcere, prevenendo comportamenti penalmente rilevanti associati a quel consumo. Aggiungiamo che l'essere tossicodipendente non solo non è motivo per finire in carcere, ma può essere motivo per evitarlo (anche se sono stati commessi reati), visto che la legge dispone che sia sospesa l'esecuzione della pena per i condannati che abbiano in corso, al momento del deposito della sentenza definitiva, un programma terapeutico di recupero.

Bisogna altresì denunciare l'ipocrisia di chi, col pretesto di difendere i "semplici consumatori", finisce col difendere anche i piccoli spacciatori; ad esempio cercando di aumentare (come ha fatto il ministro Turco, con un provvedimento poi bocciato dal TAR) fino a 40 volte la "dose media singola" che può essere detenuta per uso personale!


"Il proibizionismo è inutile e alimenta la criminalità organizzata".
In realtà, una politica di repressione dell'uso delle droghe è utile, anche se impegnativa; il cosiddetto "antiproibizionismo", invece, è semplicemente impossibile.

L' "antiproibizionismo" è un teorema astratto, che può apparire affascinante ad uno sguardo superficiale; se lo si esamina più a fondo, se ne scopre subito l'assurdità e - soprattutto - l'impraticabilità.
Cosa dice dunque la teoria antiproibizionista? Che vietare un comportamento non equivale ad eliminarlo, ma solo a spingerlo nell'illegalità, mettendo a rischio chi lo pratica ed alimentando la criminalità organizzata. Nel caso degli stupefacenti, in particolare, il "proibizionismo" farebbe diventare le droghe un prodotto raro e costoso, arricchirebbe la criminalità che ne fa spaccio, 'costringerebbe' i tossicodipendenti a rubare per permettersi la "roba".
Cosa bisognerebbe fare, invece, per gli antiproibizionisti? Bisognerebbe, ovviamente, legalizzare il consumo di stupefacenti. "Legalizzare" e non liberalizzare, precisano, perché essi stessi riconoscono che le droghe hanno effetti nocivi (anche se li sminuiscono), e quindi non è possibile consentirne una diffusione incontrollata. Le droghe dovrebbero essere vendute dallo Stato a prezzo "politico" (ma non si capisce mai bene se questo prezzo deve tendere al basso - finanziato dunque col denaro pubblico - per evitare una concorrenza clandestina; o se deve tendere all'alto, per scoraggiare l'abuso). Inoltre, dovrebbe essere vietata la vendita ai minori, nonché quella di alcune sostanze particolarmente distruttive (crack, polvere d'angelo, ecc.). L'esempio storico che suffragherebbe la bontà di questa teoria è nel fallimento della politica proibizionista contro gli alcolici praticata negli USA tra il 1919 e il 1933.

Ebbene, la teoria antiproibizionista - ad un esame attento - si rivela innanzitutto assurda, qualora pretenda di essere applicata in maniera generalizzata. È sensato affermare che ogni divieto produce danni peggiori di quelli a cui vuole porre rimedio, per cui è meglio legalizzare tutto? Secondo questa logica, se non riusciamo a sconfiggere la mafia… dovremmo legalizzarla! Non riusciamo a sconfiggere l'evasione fiscale? Aboliamo le tasse!

In realtà, è vero che le politiche "proibizioniste" devono essere il più contenute possibile, perché producono costi, effetti collaterali, risultati incompleti. Ma è anche vero che in alcuni casi porre delle leggi (e quindi dei vincoli) è inevitabile. Bisogna allora valutare, come abbiamo evidenziato in precedenza, il saldo tra costi e benefici.

A volte una politica proibizionista, come quella contro gli alcolici, fallisce semplicemente perché è sbagliata. Altre volte, come la battaglia contro le droghe, dà risultati insufficienti perché… non viene combattuta! Siamo sinceri: sappiamo che in questo momento in Italia, a fronte di pallidi divieti sulla carta, esiste in concreto una quasi completa liberalizzazione dell'uso di stupefacenti. Che produce danni sociali gravissimi, su cui si cerca di calare una coltre di silenzio.

Andare oltre sulla strada di questa liberalizzazione, sancendola anche giuridicamente, non conseguirebbe nessuno dei vantaggi promessi. Perché la teoria degli antiproibizionisti, essendo assurda nelle sue premesse, si dimostra ovviamente anche impraticabile, per tutta una serie di motivi.

Innanzitutto, una legge che legalizzasse l'uso degli stupefacenti avrebbe un valore simbolico dirompente, attribuendo inevitabilmente a quell'uso - come abbiamo ricordato - una valenza positiva. La distribuzione pubblica, anzi, diventerebbe addirittura un incentivo!

In secondo luogo, ogni uso di droghe - ammesso (e non concesso) che sia possibile limitarlo e 'sterilizzarlo' socialmente - nuoce gravemente alla salute. Ci sembra insopportabilmente cinica una scelta del tipo: "drogatevi pure, fatevi del male, purché non rubiate e non alimentiate la criminalità".

In terzo luogo, l'entità del consumo di droga non è "controllabile" per legge. Il meccanismo dell'assuefazione è un meccanismo che induce all'assunzione di quantità sempre maggiori di una sostanza, o alla ricerca di altre sostanze. E se non me le fornisce lo Stato, tornerò a rivolgermi allo spaccio. Il clamoroso fallimento delle terapie al metadone, erogate dai Ser.T. pubblici, costituisce la prova più lampante: i tossicodipendenti lo considerano un "aperitivo" gratuito, da prendere prima di andare a cercare droghe più 'sostanziose'.

In quarto luogo, il consumo di droga non può nemmeno essere 'sterilizzato' socialmente. Sia perché esistono rischi (aggressività, calo d'attenzione in funzioni delicate) legati al semplice uso - anche occasionale - di queste sostanze. Sia perché hanno un costo sociale pesante anche gli effetti a lungo termine sulla psiche, sulla salute, sulle relazioni umane e professionali. Sia perché è priva di fondamento l'ipotesi che una "legalizzazione" possa prosciugare l'acqua della criminalità organizzata (un ipotesi che Paolo Borsellino, analizzandola a fondo in un sui intervento pubblico, definì da "dilettanti di criminologia").
Infatti, non sarà mai possibile distribuire legalmente ogni tipo di sostanza; e la criminalità sarà sempre pronta ad offrire l'ultimo ritrovato, la sostanza che garantisce lo "sballo" più potente, magari a un prezzo più basso e ai minorenni. Per cui la "legalizzazione" avrebbe l'effetto esattamente opposto a quello desiderato, cioè di espandere l'area del consumo e coinvolgervi le fasce più deboli. Del resto abbiamo già sperimentato la capacità delle organizzazioni criminali di mantenere i loro guadagni abbassando notevolmente i prezzi e allargando l'area del consumo (senza contare, in ogni caso, la loro capacità di riconvertirsi in affari illeciti sempre nuovi, sottolineata anche da Borsellino nell'intervento citato).

Non ci dilunghiamo sulle cosiddette politiche di "riduzione del danno". Ridurre il danno vorrebbe dire distribuzione di stupefacenti ai tossicodipendenti, per evitare l'assunzione di dosi 'tagliate' male o i rischi di overdose. Si tratta di una definizione ipocrita, che individua semplicemente metodi di legalizzazione controllata; sulla cui pericolosità, pensiamo, ci siamo espressi abbastanza.
Si sente parlare di distribuzione degli stupefacenti anche come occasione per dare "informazioni" ai tossicodipendenti. A parte il fatto che un tossicodipendente non è molto sensibile all' "informazione", il messaggio lanciato sarebbe talmente contraddittorio da risultare risibile: ti sconsiglio a parole quello che ti consegno con i fatti. Sarebbe come offrire prostitute per dare "informazioni" contro la schiavitù femminile!
Più che di "riduzione", sarebbe il caso di cominciare a porsi il problema dell'eliminazione del danno. Un danno così devastante che non è possibile - ripetiamolo - minimizzarlo, conviverci, illudersi di tenerlo sotto controllo.

Quello di cui abbiamo bisogno è una decisa (e non di facciata) politica contro le droghe. Una politica basata non solo sulle leggi - che ci sono -, ma anche su una loro convinta e puntuale applicazione da parte della pubblica amministrazione, delle forze dell'ordine e della magistartura. Un politica basata su una chiara prevenzione (che informi sui pericoli che derivano da quel consumo), ma anche su un'intelligente repressione: spietata contro il commercio, più misurata - ma altrettanto ferma - contro il consumo. Una politica che sappia offrire ai tossicodipendenti gravi una via d'uscita, sostenendo adeguatamente quelle comunità terapeutiche che, proponendosi un recupero pieno della persona, sono in grado di risolvere davvero il problema.



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